venerdì 9 giugno 2017

Verginità


Il bene della verginità
in alcuni autori spirituali


Prima di inoltrarci in un discorso teologico, vediamo che cosa sia amore nella nostra esperienza umana. L’amore è desiderio di bene; è un’inclinazione, una tendenza, un orientamento al bene. Ogni essere, infatti, cerca ciò che gli è conveniente ed aspira ad ottenerlo.
Il bene però non è univoco ma molteplice. Esiste un bene sensibile e un bene di carattere più spirituale e quindi anche i desideri che mirano ad ottenere questi beni sono diversificati.
C’è un desiderio naturale che ci spinge a ciò che è il nostro bene sensibile, un appetito avvertito da noi senza che noi lo abbiamo introdotto in noi. Ad esempio, «esiste un appetito naturale verso il cibo e un appetito naturale verso la procreazione. Esiste anche un appetito naturale che ci fa tendere alla verità, e quello che ci ordina al nostro pieno sbocciare, alla nostra felicità» (M. D. Phlilippe, Sull’amore, Città Nuova, Roma 2012, p. 105).
C’è anche un desiderio spirituale che emerge a partire dalla nostra tendenza alla verità. Il bene spirituale presuppone un libero giudizio ed attiva la nostra volontà. Questo tipo di desiderio compare, ad esempio, nell’impegno culturale o nella lotta contro l’ingiustizia.
Per il credente c’è molto di più: il bene spirituale corrisponde al tesoro che viene dischiuso dalla fede. Se esiste una tendenza naturale al cibo o alla procreazione, esiste anche una tendenza naturale alla comunione con Dio, perché soltanto Dio può costituire il bene sommo che soddisfa la nostra sete di felicità. Egli è il luogo naturale verso cui si orienta lo spirito. L’orientamento a Dio, tuttavia, non è qualcosa di istintivo ma è frutto di una riflessione e di una decisione libera. Si innesca nel nostro desiderio spontaneo di verità e di felicità, ma implica un percorso dove esercitano un ruolo decisivo la ragione e la volontà. L’amore per Dio è il massimo a cui può giungere il nostro appetito umano.


L’amore per Dio


Esaminiamo ora l’atto del giudizio con il quale un credente, anziché limitare il suo interesse ai beni presenti nel mondo, orienta il suo amore verso Dio. Per quale motivo lo si cerca?
Sono sempre state date una molteplicità di motivazioni: l’uomo si sente più protetto nei casi della vita oppure si sente consolidato nelle scelte di carattere morale; ancora di più la fede garantisce il superamento della morte. Queste motivazioni, per quanto vere, appaiono piuttosto interessate e talora fragili. Per rispondere all’interrogativo emerso, anziché limitarsi ad esaminare le risposte più immediate date dal credente normale, è opportuno vedere la motivazione più profonda che scaturisce in quello che ha raggiunto una certa maturità nella sua ricerca di Dio.
«Ho detto a Dio: il mio Signore sei Tu; solo in te è il mio bene» (Sal 16,1). Questa dichiarazione del salmista rappresenta un modo magnifico di confessare la fede. Solo in te è il mio bene… vale a dire, se mi mancassi tu non avrei più nulla; per quanto ricchi siano tutti gli altri miei possessi, tutto perderebbe valore e consistenza. «Dio è assai ricco di beni per tutti quelli che lo invocano, ma non ha da dare nulla di meglio di se stesso» (Bernardo, Il dovere di amare Dio, VII, 22, Edizioni Paoline, Milano 1990, p. 140)
I sentimenti e le parole che il salmista rivolge a Dio sono le medesime che un innamorato rivolgerebbe all'amata poiché, se viene meno la relazione d’amore, nessun possesso può appagare l’amante rimasto solo ma Dio può essere amato e conquistare il cuore molto di più di qualsiasi creatura. «Il cuore umano tende a Dio per inclinazione, senza sapere veramente chi sia; ma quando lo trova alla fonte della fede, e lo scopre così buono, bello, dolce e così amabile verso tutti e così disposto a donarsi a tutti coloro che lo vogliono, quanta contentezza e quanti santi movimenti [sgorgano] nello spirito, per unirsi per sempre a quella bontà così sommamente amabile! Finalmente ho trovato, dice l'anima così toccata, ho trovato colui che desideravo, ed ora sono contenta. Come Giacobbe, vista la bella Rachele, scoppiava in lacrime di dolcezza per la felicità che provava, così il nostro povero cuore, avendo trovato Dio, si fonde poi nella dolcezza dell’amore, per il bene infinito che vede in quella bellezza» (Francesco di Sales, Trattato dell'amore di Dio, Paoline, Milano 1989, II, 15, p. 233).
Un salmista dichiara: «Chi avrò per me nel cielo? Con te non desidero nulla sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore, ma Dio è la roccia nel mio cuore, mia parte per sempre. Per me  il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 73,25-28).
Il salmista cerca Dio per amore di Lui, senza altri scopi. Ora è proprio un sentimento simile di gratuità che deve accompagnare la nostra ricerca di Lui. Benché ogni relazione d'amore presenti tanti elementi di convenienza, i quali pure contribuiscono ad incrementare la benevolenza tra coloro che si amano, non è certo l'utilità il vero fondamento della relazione. L’amare non richiede altra giustificazione oltre se stesso. Tra gli autori spirituali San Bernardo è stato uno di coloro che ha maggiormente insistito sul valore della gratuità: «Chi confida nel Signore non perché è buono con lui, ma perché è assolutamente buono, è colui che ama veramente Dio in nome di Dio e non in vista di se stesso» (Bernardo, Il dovere…, IX, 26, p. 146). In un altro testo dichiara: «Dio non è amato senza ricompensa, anche se deve essere amato senza prefiggersi una ricompensa. Il vero amore è soddisfatto di se stesso. Riceve una ricompensa, ma è proprio ciò che costituisce il suo amore. Perché se fai la figura di amare una cosa in vista di un'altra, quella che ami veramente è quella a cui tende il fine del tuo amore, non quella che rappresenta il tramite (Bernardo, Il dovere…, VII, 17, pp. 134-135)».
L’uomo, tuttavia, non può essere totalmente gratuito come può esserlo Dio nei suoi confronti. Mentre il Signore non ha bisogno dell’uomo né del suo culto, l’uomo dipende sempre da Lui e gli è estremamente conveniente relazionarsi con Lui. Inoltre, l’esperienza d’essere stati protetti e insieme la promessa di una ricompensa, divenendo un’occasione per scoprire meglio l’amore di Dio per noi, favoriscono la crescita del nostro sentimento d’amore gratuito.
La beatitudine dell'uomo consiste nel partecipare alla carità che è Dio stesso. Soltanto quando la sua carità ci pervade, possiamo considerarci salvi e ricolmi d’ogni bene. Non potremo mai possedere una ricchezza più grande di questa. Soltanto la carità ci colma, diventa beatitudine e pace.
È utile ricordare a questo punto che l’amore vero per Dio implica un amore preferenziale per Lui. In altre parole chi ama Dio in modo gratuito, è disposto ad accettare qualsiasi cosa gli venga richiesta da Lui e l’unico bene che vuole salvaguardare a qualsiasi costo è la comunione con Lui.
L’amore per Dio presenta dei caratteri molti simili a quelli di una normale esperienza d’innamoramento, con tutti i suoi aspetti positivi e problematici. L’amore appassionato è in sé un bene, ma non è privo di ambiguità e può trasformarsi perfino in una realtà negativa. Può diventare un tentativo di accaparramento: «Vi è qualcosa di molto ambiguo quando è rivolto ad una persona, dato che corriamo il rischio di amarla non più come persona, ma come un bene sensibile che ci rallegra che ci fa sbocciare; allora significa che cerchiamo noi stessi attraverso la passione. L'amore passione provoca così una sorta di egocentrismo dalla potenza straordinaria, di che del resto è proprio nelle passioni: fanno si che riportiamo tutto a noi» (M. D. Phlilippe, Sull’amore, p. 105).
L’amore passionale è soltanto un punto di partenza. La passione d’amore, proprio per avere durata e intensificazione, deve assumere le caratteristiche dell’amore spirituale. La passionalità non deve essere abolita ma integrata in una prospettiva più ampia e trasformarsi in benevolenza e oblatività.
Qualcosa di simile si può dire a proposito della ricerca di Dio. Il credente può cominciare a cercare Dio per motivi d’interesse. In questa fase, è ancora interessato più a se stesso. Ad un certo punto del cammino deve intervenire un altro tipo di scelta: il credente deve capire ma anche sperimentare che l’amare vale di per se stesso. La salvezza che Dio concede all’uomo consiste nel renderlo partecipe della sua stessa carità che è del tutto gratuita. Dio ci invita a cercarlo per deificarci.


Il bene della verginità


La verginità presenta un grande valore perché tende a stabilire una comunione profonda con Dio e a godere di essa. Leggiamo due testimonianze:
«... L'anima si unisce al Signore in modo da diventare con Lui un solo spirito (Cf 1 Cor 6,17), decide di amarlo con tutto il cuore e con tutte le forze facendo di quest'amore la norma costante della sua vita» (Gregorio di Nissa, La verginità, XV, in Gregorio di Nissa / Giovanni Crisostomo, La Verginità, Città Nuova, Roma 1976, p. 88).
G. Crisostomo parla della tranquillità sperimentata dalla vergine nella sua casa e nel suo cuore: «...il silenzio domina su tutto ciò che vi si trova dentro [la sua casa]. Un'altra tranquillità, superiore allo stesso silenzio, permea poi la sua anima, giacché essa non ha a che fare con nessuna cosa umana, ma discorre continuamente con Dio e tiene sempre fisso il suo sguardo su di Lui. Chi potrebbe misurare questo piacere? Quale discorso sarebbe mai in grado di esprimere la gioia dell'anima che si trova in questo stato? Nessuno. Coloro che gioiscono del Signore sono i soli a conoscere la grandezza di tale gioia e a rendersi conto di come essa superi di gran lunga ogni possibile raffronto» (G. Crisostomo, La Verginità, LXXX, in Gregorio di Nissa / Giovanni Crisostomo, La Verginità, Città Nuova, Roma 1976, p. 252). Quando ottiene il suo scopo e conosce la profonda comunione con Dio, la verginità è, quindi, un’esperienza di tranquillità e di gioia.
Rappresenta, poi, il dono massimo che si possa offrire a Dio, se è intesa come un atto che ingloba tutta la persona e tutta la vita:
«Sono pienamente convinta e ho l'appoggio delle Sante Scritture che l'offerta più grande e più ragguardevole, il dono di cui non esiste l'equivalente da offrire a Dio da parte degli uomini è il premio della lotta per la verginità. Infatti, nonostante molti abbiano compiuto egregie cose nel corso della Legge in base ai loro voti, si può dire che un grande voto l'abbiano adempiuto soltanto coloro che hanno offerto se stessi a Dio con un atto di spontanea volontà. Così suona il testo: Il Signore parlò a Mosè dicendo: - Parla ai figli d'Israele e dì loro: Quando un uomo o una donna avranno fatto un grande voto di consacrare la loro castità al Signore - (Nm 6,1 [allusione al nazireato]. C'è chi fa voto di portare al tempio come offerta delle suppellettili d'oro e d'argento, chi quello di recare la decima parte dei frutti, chi delle sue sostanze, un altro i capi migliori del gregge, un altro consacra tutti i suoi averi: non si può ancora dire che ha fatto un grande voto al Signore. Lo compie solo chi ha dedicato tutto se stesso a Dio» (Metodio d'Olimpo, La Verginità, V,1,  a cura di N. Antoniono, Città Nuova, Roma 2000, pp. 83-84). 
Metodio allude a diversi passi biblici, ad una mens biblica. [Offrire di più (Es 35 e 36) Persone consacrate a Dio: i primogeniti, i leviti  (Nm 3, 11-13); i nazirei (Nm 6, 1 ss); vedove (1 Tm 5,5)]


Una continuità con Gesù


Gesù ha scelto la verginità. Per Lui, Dio Padre era tutto. Anche per molti credenti, postisi alla sua sequela, Dio divenne di fatto oggetto assoluto di amore, l'unico che merita di essere amato in modo totale e per sempre.
É necessario inserire il dono della verginità all'interno dell'esperienza cristiana più generale. La Pasqua offre al cristiano la possibilità di vivere in continuità con Gesù. Noi riceviamo l'adozione a figli, ma l'essere figli adottivi non significa essere figli di secondo rango; significa, piuttosto, che, pur essendo del tutto indegni e comunque senza il diritto di essere tali, riceviamo in modo gratuito, per un atto di bontà, il dono di partecipare alla figliolanza di Cristo. Gesù è la via nuova e vivente per andare a Dio (Cf. Eb 10,20).
Questo significa anche che possiamo condividere ogni sua scelta, compresa quella sua verginale. «Nessuno dei tanti profeti e giusti che hanno insegnato molte belle cose ha scelto la verginità per tesserne le lodi. Soltanto al Signore era riservata l'incombenza di darci questo insegnamento, avendo lui solo mostrato la via degli uomini a Dio» (Metodio, I,4, cit. p. 42)
Gesù, ad un certo punto della vita, si dedica totalmente a Dio e al suo Regno in modo anche visibile. Per questo, non soltanto rinuncia a formarsi una famiglia propria (andando contro alla mentalità religiosa corrente della sua epoca) ma si stacca anche dalla sua famiglia naturale. Si dà tutto alla predicazione senza legami affettivi e senza assicurazioni. Tutto questo è contrario al buon senso e all'ordine umano normale.
Inaugura da subito quello che Paolo chiamerà la follia della croce (1 Cor 2,4 ss.). Tuttavia non si tratta di compiere bravate spirituali, imprese eroiche, tanto per attirare l'attenzione su se stessi. Per Gesù ogni scelta è una questione d'amore: vuole dedicarsi a Dio e al suo Regno e tutto il resto viene di conseguenza. Esercitare la follia della croce non significa diventare atleti di sports spirituali estremi ma farsi carico di una forza d'amore sconosciuta al mondo ma appartenente al mondo di Dio. Quando l'amore che è proprio di Dio si manifesta e s'incarna, appare nel mondo un modo d'agire che sorprende e sconcerta.
Questa manifestazione di carità si chiama anche nuova creazione. La nuova creazione sconvolge la vecchia. Non è il recupero del paradiso perduto (come se si potesse entrare nel regno di bengodi). L'amore è la capacità di portare su di sé il giogo di Cristo. Il giogo di Cristo è la croce e la croce corrisponde alla logica dell'amore autentico. Ora il regno e la nuova creazione comunicano pace, gioia profonda, serenità espressa nell'affabilità, soltanto quando accettiamo che il giogo di Cristo si posi in continuità sulle nostre spalle. Prendete il mio giogo sopra di voi e troverete riposo per voi (Mt 11,29). Il vergine riposa nel Cristo, come il Cristo riposa in Dio. Non è prevista altra possibilità di riposo. Del resto questo è vero per qualsiasi altro uomo e per qualsiasi altro cristiano. Il Signore Gesù ci rende partecipi di sé e della logica della nuova creazione proprio per farci godere del riposo (che non è mai possibile trovare finché la nostra risorsa la facciamo consistere nel soddisfare i nostri desideri). O ci dislochiamo in Lui ed allora, e solo allora, ci dilatiamo, o restiamo di noi stessi ed allora ci ripieghiamo su di noi.
Siamo fatti per guadagnare l'uomo che è stato fatto ad immagine di Dio. Quest'uomo non dobbiamo cercarlo affannosamente inventando progetti spirituali perché è disceso fino a noi. Ancora di più ci ha ghermiti, conquistati (Cf. Fil 3,12), è venuto ad abitare in noi, vuole prendere possesso di noi tramite il suo Spirito.

Un atto globale


Sebbene la verginità sia un dono che ha in se stessa un grande valore, raggiunge il suo scopo (quello di offrire tutta la persona a Dio) soltanto se si completa negli altri atti che manifestano la verità della sequela, come la povertà, l'obbedienza, la misericordia, la mitezza, la pace. Non vorrei sbagliare immagine ma la paragonerei ad un recipiente vuoto. Gli altri beni esigono che ci sia un recipiente in cui versarli ma se il recipiente rimane vuoto, anche se fosse modellato in modo artistico, esso non servirebbe a nulla. Intanto però, con la disponibilità a dare se stessi a Lui in modo totale, Dio ci ha donato un recipiente di grande capienza e di grande pregio.
«Non onora certamente la verginità colui che», pur essendosi astenuto da una relazione amorosa «non esercita il dominio su tutto il resto... La disonora scambiando così piacere con il piacere» (Metodio, 11, cit., pp.160). Metodio, dopo aver detto che chi si esalta per la sua continenza e considera tutti gli altri come niente e meno di niente, disonora la Verginità, prosegue affermando: «Nemmeno si sforza di onorare la verginità chi si vanta delle ricchezze: pertanto le reca disonore più di ogni altro, preferendo ad essa un po' di denaro, mentre nessun valore della vita le è equivalente. Non porta onore alla verginità chi pensa ad amare esageratamente se stesso e si preoccupa del proprio interesse come traguardo, senza darsi pensiero del suo prossimo; anche lui la disonora, perché è ben lungi da coloro che degnamente la praticano in quanto danneggia l'amore che v'è in essa, la carica di affetto e di umanità...Bisogna conservare tutte le membra del corpo pure e immuni dalla corruzione, non soltanto quelle atte a procurare libidine, ma anche quelle meno nascoste. Farebbe sorridere infatti voler conservare vergini gli organi della riproduzione e non conservare la propria lingua oppure custodire la lingua vergine senza farlo per la vista o per l'udito o per le mani; o, ancora, custodire tutte queste parti vergini, ma non il proprio cuore, prostituendolo all'orgoglio e all'ira» (Metodio, 11, cit. p. 161).
L'essere vergini con autenticità è un atto globale: presuppone un cambiamento totale di vita in tutti gli aspetti dell'esistenza. Ho usato l'immagine del vaso vuoto da colmare. Gregorio di Nissa parla più opportunamente di fondamento: «La ricerca della verginità deve rappresentare il fondamento della vita virtuosa, ma su di questo vanno costruite tutte le opere della virtù» (Gregorio di Nissa, La Verginità, XVIII, cit. p. 94).
«La verginità diventa veramente ammirevole quando le si accompagna una vita di questo tipo [ossia l'esistenza profetica di Elia, d'Eliseo, del Battista], perché da sola essa è debole e non basta a salvare chi la possiede» (G. Crisostomo, La Verginità, LXXX, cit., p. 272). «Per essere vergini non basta non sposarsi: occorre anche la purezza dell'anima ma... Se ciò non si verifica, di quale utilità può essere la purezza fisica? Come non c'è nulla di più vergognoso di un soldato che getta le armi e passa il suo tempo nelle bettole, così non c'è nulla di più indecoroso delle vergini prigioniere di preoccupazioni materiali... La verginità è bella proprio perché elimina ogni motivo di preoccupazioni superflue e perché permette di consacrare tutto il tempo libero alle opere gradite a Dio: se questo non si verifica, diventa di gran lunga peggiore del matrimonio, giacché ricopre di spine l'anima e soffoca tutti i semi puri e celesti» (G. Crisostomo, LXXVII, cit. pp. 265-266).

Sterilità e povertà


La verginità è un vaso larghissimo di grazia che attende, invoca e rende possibile il riempimento da parte di Dio. Per questo nel Vangelo la verginità richiama la povertà, la sterilità e l'obbedienza.
Elisabetta è sterile e Maria è vergine. La prima condizione è subita, la seconda invece ha un aspetto di volontarietà ma entrambe sono forme di impossibilità: né la sterile né la vergine possono generare. Se diventano feconde è dovuto ad una grazia particolare di Dio che rende possibile ciò che di per sé è impossibile per l'uomo. La sterilità miracolata e la verginità fecondata, evidenziano il bene estremo della misericordia di Dio che si volge di preferenza verso gli ultimi: «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: “Certo, mi escluderà il Signore dal suo popolo!». Non dica l’eunuco: «Ecco, io sono un albero secco!”. Poiché così dice il Signore: «Agli eunuchi che osservano i miei sabati, preferiscono quello che a me piace e restano fermi nella mia alleanza, io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome più prezioso che figli e figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato» ((Is 56, 3-4).
La vergine si pone, volontariamente, nella schiera dei poveri perché proprio essi sono oggetto particolare della benevolenza di Dio (Cf. Sof 3,12). Scrive Francesco di Sales: «Dio vuole che la vostra miseria sia il trono della sua misericordia, e le vostre incapacità, la sede della sua onnipotenza. Dove aveva Dio disposto che risiedesse la forza divina che aveva messa in Sansone, se non nei suoi capelli, la parte più debole che si trovasse in lui?» (Lettera n. 100, in Lettere dell’amicizia spirituale, Torino 1992, p. 276).
Il povero è anche disprezzato, è indifeso. Non dobbiamo dissociare troppo la figura della vergine con quella della sterile. Dal punto di vista sociale la vergine o la sterile erano considerate come donne incompiute. Lo stesso valeva per l'uomo incapace di generare.
Anche oggi tale condizione può essere oggetto di disprezzo, poco apprezzata da parte di molti nella Chiesa e svalutata nella società. Gesù probabilmente era stato oggetto di stupore negativo e di scherno a motivo del suo celibato. È probabile che sia stato schernito come un uomo privo di vera mascolinità e come un uomo incapace di svolgere il compito primario del maschio che era quello di generare e di prolungarsi in un erede (Mt 19,12).
Il povero è disprezzato e un compito primario del vergine è quello di amare e desiderare di partecipare al disprezzo di cui è sempre stato oggetto il povero e, in primo luogo Gesù, come il povero per eccellenza. «Possiamo essere a perfetta somiglianza di Dio quando, al modo di pittori esperti, fissiamo in noi stessi quelli che furono i tratti della sua condizione umana» (Metodio, 1,4 cit. p. 43)
Accogliere la croce significa, in primo luogo, accettare l'estraneità, la svalutazione o la derisione che sono implicite nella sequela. O accettiamo di essere compianti o derisi, di essere percepiti come uomini desueti, fuori dal tempo o illusi, oppure non riusciremo mai a diventare discepoli. Una chiesa che si preoccupa soltanto di aggiornarsi per essere accolta, e che considera evangelico soltanto ciò che viene apprezzato e accettato dalla società e fa passare sotto silenzio tutto il resto, è una chiesa che sta perdendo se stessa.
Connessa alla povertà è il discorso sulla reale difficoltà a vivere la verginità, essendo una frattura con il desiderio spontaneo di stringere relazioni affettive e una frattura con il desiderio umano di fecondità. Quando parlo di reale difficoltà, non penso tanto a possibili fatti di trasgressione, ma piuttosto al cammino necessario per accogliere volontariamente, serenamente, il sacrificio della rinuncia che la verginità comporta, in modo tale che diventi ricca e feconda. La verginità è una forma alta del rinnegamento di se stessi richiesto dal Vangelo.
Il vergine deve essere convinto che il suo proponimento supera non solo le intenzioni ma anche le capacità umane. Questa consapevolezza è parte integrante del sentimento di povertà. L'auto-dominio e la carità sono doni esclusivi dello Spirito Santo (Cf Gal 5,22). Chi ha ricevuto questo carisma deve lottare intensamente per attuare il suo proposito ma deve sapere anche la vittoria non è mai sua. Il desiderio di lottare, la continuità della lotta e ogni vittoria sono opera dello Spirito Santo. É impossibile che chi presume di se stesso possa ottenere qualche risultato. L'impegno per ottenere una verginità matura è proficuo, e possiede un valore enorme già per se stesso.


Fecondità


Oltre alla povertà, la verginità nella Bibbia richiama la fecondità. C'è tuttavia una diversità tra fecondità miracolosa ottenuta dalle donne sterili come Elisabetta (molto prima la madre di Samuele [Cf 1 Sm 1,6] o di Sansone [Cf. Gdc 13,2]) e la fecondità delle Vergine Maria. Maria, la povera per eccellenza (ossia la vera credente) accoglie lo stesso Figlio di Dio. La verginità di Maria riceve qui un significato decisivo (escatologico in quanto il progetto di Dio raggiunge il suo culmine). Questo è certamente un dono inaspettato: che Gesù nasca da una vergine attesta con chiarezza che Egli è opera dello Spirito Santo. Come il primo Adamo era stato creato direttamente da Dio, così Gesù viene creato dallo Spirito. Dopo la sua morte, lo Spirito verrà a crearlo di nuovo donandogli la vita eterna da Risorto.
Ora la verginità acquista il suo senso se viene unita alla fede e all'obbedienza; all'obbedienza della fede. Da una parte Maria è totalmente passiva: può soltanto ricevere un Dono che la supera, dall'altra partecipa al dono con la sua disponibilità all'accoglienza. Essere passiva non è una ovvietà, un atteggiamento facile. Anzi, fare il vuoto in se stessi è l'opera più difficile. Che io non debba quasi più esistere con i miei desideri, bisogni, progetti ed intenzioni, e tanto di più con i miei capricci, egoismi e fantasmi, per fare posto al disegno di Dio, non è cosa facile. In questo caso non bisogna darsi una identità ma predisporsi a riceverla.
L'obbedienza di Maria non è soltanto un evento interiore. Come la povertà  (religiosa) coinvolge l'obbedienza, perché si attui un vero affidamento a Dio, così l'obbedienza si attua nel fenomeno reale della povertà. Ella deve affrontare tutti i disagi della sua situazione: è una promessa sposa rimasta incinta (Cf Mt 1,19). Le sofferenze della sua maternità preparano quelle che dovrà vivere nella Pasqua. La sua verginità è sterilità in attesa di una fecondità secondo un progetto non scelto da lei, che adempie il suo significato attraverso l'obbedienza nella povertà. Compaiono tre aspetti di un unico atto.
L'esperienza di Maria da un lato è singolare, dall'altro è un modello per ogni verginità. Il vergine povero e obbediente, che, agendo in questo modo, riassume in sé la caratteristica della Chiesa, ha il compito di generare Cristo al mondo. L'evento escatologico della venuta del Signore e del suo Regno, non è soltanto un fatto puntuale, storico. Si rinnova nell'oggi, ogni giorno. La mia sterilità può essere resa feconda dal Signore, nel vivere l'obbedienza. Un esempio: andiamo ad attingere dagli otri semplice acqua ma, cammin facendo, poiché ci fidiamo del comando ricevuto, vediamo trasformarsi quest'acqua in vino nuovo. «Bisogna che ora esaminiamo la situazione di Paolo, degno della nostra lode. Quand'egli non era ancora "perfetto in Cristo" viene dapprima generato e allattato da Anania che lo evangelizza e lo rinnova col battesimo, secondo il racconto degli Atti. Allorché arrivò ad esser uomo e prese la struttura per una perfezione spirituale, diventò così "aiuto" e "sposa" del Verbo, accogliendo in sé e sviluppando i germi della vita. Allora colui che precedentemente si chiamava fanciullo diventa Chiesa e madre, generando lui stesso quanti per mezzo suo hanno creduto al Signore, finché in essi Cristo venga formato e generato. Egli dice: Figli miei, per cui io sono nelle doglie del parto finché Cristo non sia formato in voi (Gal 4,19). E ancora: In Gesù Cristo io vi ho generati mediante il vangelo (1 Cor 4,15)» (Metodio, III, 9, cit. pp. 66-67; cf. Gregorio di Nissa, Verginità, XIX, cit. p. 101).
«Gli oracoli divini ci hanno svelato quale bene rappresentino la gravidanza ed il parto spirituali e quale tipo di fecondità fosse praticato dai santi di Dio. Il profeta Isaia ed il divino apostolo lo spiegano molto chiaramente. Il primo dice: Per effetto del timore che abbiamo di te, o Signore, abbiamo concepito nel nostro ventre, partorito e generato; il secondo si vanta di essere divenuto il più fecondo di tutti gli uomini, e di avere reso gravide intere città e popoli, in quanto con i suoi parti non solo condusse alla luce e formò nel Signore i Corinzi ed i Galati, ma fece il giro di tutta la terra abitata, riempiendola dei propri figli generati in Cristo tramite il Vangelo» (Gregorio di Nissa, Verginità, XIX, cit. p. 101).
Fecondità significa soprattutto collaborazione efficace all’opera di salvezza:
«Facendo un passo ardito S. Ambrogio arrischia di affermare che alle vergini sarebbe possibile usare dell'altare di Dio. “Io non esito a dire che gli altari di Dio siano aperti a voi le cui menti arditamente chiamerei altari sui quali ogni giorno si immola Gesù Cristo per la redenzione del corpo” (Exhortatio Virginitatis, Ibid., 2, 2, 18) Ma subito si riprende e specifica il senso della frase: voi potete accostarvi all'altare perché nei vostri cuori, “quotidie pro redemptione corporis Christus immolatur” (Ibid.). Il concetto di vergine-sacerdote è frequente nel Santo: “sacerdotium castitatis” (Ibid., 1, 12, 65; 1, 7, 32). La vergine è salvezza dei familiari e di tutto il genere umano. Il Santo ritorna spesso su questa altissima prerogativa della verginità specificandone i particolari. Nel libro secondo del De Virginibus, pone in bocca alla Madonna una preghiera per le vergini: “Se non debbono giovare solo a se stesse coloro che non sono vissute solo per sé, deh, fa che questa ottenga misericordia per i genitori e quella per i fratelli”.(Ibid., 2, 2, 16). Alla vedova Giuliana fa fare un magnifico accostamento tra la salvezza operata dal genere umano operata dal Verbo Divino e la salvezza della famiglia operata dalla vergine.  “Gesù venne per mezzo della vergine Maria a salvare il mondo e il parto verginale disciolse i trascorsi della donna: così pure la vostra verginità disciolga i miei errori” Nell'animare i parenti a lasciar libere le figlie perché abbraccino lo stato verginale, porta anche il motivo della salvezza che viene dalle vergini: “Voi genitori, udite, perché possiate averle come mediatrici presso Dio, e vi sciolgano dalle colpe” (Exhortatio virginitatis, 4, 26)» (Cf. L. Dossi, Santa Marcellina ispiratrice di verginità, in Nel XVI Centenario della velatio di s. Marcellina, Edizioni Marcelline, Milano 2013, p. 49).
La riflessione condotta finora ci obbliga a non separare l'impegno della verginità dagli altri atti e sentimenti costitutivi della sequela del Signore. Rivolgersi a Lui, aderire a Lui, è un atto globale, composito; trascina con sé tutta la nostra persona e la nostra vita. Come sola rinuncia all'esercizio della sessualità, la verginità non avrebbe senso compiuto.
É un rivolgersi a Dio nell'entusiasmo della scoperta del valore di Dio ma questo volgersi a Lui avviene all'interno della vita concreta e della storia; affronta l'incomprensione e il peccato; verifica la grazia e la mia debolezza; si attua non nel rifuggire i problemi ma nell'affrontarli. Solo Colui che mi chiama è fedele; io lo posso diventare soltanto con la sua grazia. Il mio cammino vero di conversione lo offro poi alla Chiesa e all'umanità e il crescere nell'amore vale più di ogni altro olocausto e più di ogni altro sacrificio.
Inoltre bisogna osservare che la grazia ci offre la possibilità di sperimentare, insieme alla nostra debolezza, l'esito stupefacente dell'opera di Dio.





LA PRATICA


La tradizione spirituale ha sottolineato che per vivere la verginità in tutta la sua globalità, non soltanto come astensione dai rapporti coniugali ma come donazione totale a Dio, bisogna nutrire grandi desideri, grandi propositi (o sogni come si dice oggi), fori deliberazioni, nella consapevolezza che il desiderare e il portare a compimento sono prima di tutto opera di Dio in noi.
Come punto di partenza, insieme ai nostri propositi, incontriamo la nostra tiepidezza.
 Bisogna non però avvertire che vi sono due sorta di tiepidezza, l'una inevitabile e l'altra evitabile. «L'inevitabile è quella da cui non sono esenti neppure i santi; e questa comprende tutti i difetti che da noi si commettono senza piena volontà, ma solo per la nostra fragilità naturale. Tali sono le distrazioni nell'orazione, i disturbi interni, le parole inutili, le vane curiosità, i desideri di comparire, i gusti nel mangiare o nel bere, i moti di concupiscenza non subitamente repressi, e simili. Questi difetti dobbiamo noi evitarli quanto possiamo; ma, per cagion della debolezza di nostra natura infettata dal peccato, è impossibile evitarli tutti. Dobbiamo bensì detestarli dopo averli commessi, perché sono disgusti di Dio; ma, come avvertimmo nel capo antecedente, ci dobbiamo guardare di disturbarci per quelli. Scrisse S. Francesco di Sales: Tutti quei pensieri che ci danno inquietudine non sono da Dio ch'è principe di pace, ma provengono sempre o dal demonio o dall'amor proprio o dalla stima che facciamo di noi stessi» (De Liguori, Pratica di amar Gesù Cristo, 2, Milano 1986, p. 94).
L'amore di Dio è come un globo di fuoco che consuma tutte le nostre imperfezioni. L'Eucaristia svolge lo stesso compito.
Piuttosto dobbiamo evitare la tiepidezza che implica il commettere una serie di peccati veniali deliberati (le bugie volontarie, i risentimenti di parole, le derisioni del prossimo, le parole pungenti, i discorsi di stima propria, i rancori d'animo nutriti nel cuore, le affezioni disordinate a persone di diverso sesso): «Bisogna dunque tremare di tali difetti deliberati, perché per quelli Dio restringe la mano a' lumi più chiari ed agli aiuti più forti, e ci priva delle dolcezze spirituali; e quindi ne nasce che l'anima fa le cose spirituali con gran tedio e pena; ed infine facilmente lascerà tutto... L'uccello quando è sciolto da ogni laccio, subito vola: l'anima quando è sciolta da ogni attacco terreno, subito vola a Dio; ma se sta legata, ogni filo basterà ad impedirle il camminare a Dio» (Pratica…, 4-6, pp. 95-97).
Come opporsi alla tiepidezza?
Prima di tutto rinnovare i grandi desideri che stanno alla base della nostra vocazione, che danno la forza di camminare, alleggeriscono la fatica, ci elevano al cielo. «Dice S. Agostino che nella via di Dio il non avanzarsi è tornare in dietro: Non progredi reverti est. Chi non si fa forza per andare avanti si troverà sempre in dietro, trasportato dalla corrente della nostra natura corrotta» (Pratica…, 9, p. 98).
Dio ci vuole tutti santi (cf. 1 Ts 4,3). «Anche i peccati commessi possono cooperare alla nostra santificazione, in quanto la loro memoria ci rende più umili e più grati, vedendo i favori che Dio ci dispensa dopo che l'abbiamo tanto offeso. Io non posso niente, deve dire il peccatore, né merito niente, altro non merito che l'inferno; ma ho che fare con un Dio di bontà infinita che ha promesso di esaudire ognuno che lo prega; ora, dal momento che egli mi ha cacciato dallo stato di dannazione e vuole ch'io mi faccia santo, e già mi offre il suo aiuto, ben posso farmi santo, non colle forze mie, ma colla grazia del mio Dio che mi conforta: Tutto posso in Colui che mi da forza (Fil. 4,13)» (Pratica…, 11, p. 99).
Ogni desiderio deve concretizzarsi nella formulazione di decisioni ferme. «Non basta il desiderio della perfezione, se non vi è ancora una ferma risoluzione di conseguirla. Il pigro sempre desidera, e non si risolve mai di prendere i mezzi propri del suo stato per farsi santo. Dice: Oh se stessi in un deserto e non in questa casa! Oh se potessi andare a vivere in un altro monastero, vorrei darmi tutto a Dio! E frattanto non può soffrire quel compagno, non può sentire una parola di contraddizione, si dissipa in molte cure inutili, commette mille difetti, di gola, di curiosità e di superbia: e poi sospira al vento: Oh se avessi, oh se potessi, ecc. Tali desideri fan più danno che utilità. Diceva S. Francesco di Sales: Io non approvo che una persona attaccata a qualche obbligo o vocazione si fermi a desiderare un'altra sorta di vita, fuori di quella ch'è conveniente all'officio suo, né altri esercizi incompatibili al suo stato presente; perché ciò dissipa il suo cuore e lo fa languire negli esercizi necessari» (Pratica…, 12, p. 100). «La prima risoluzione ha da essere di fare ogni forza e morir prima che di commettere qualunque peccato deliberato, per minimo che sia. È vero che tutti i nostri sforzi senza l'aiuto divino non possono bastarci a superar le tentazioni; ma Dio vuole che spesso noi ci facciamo dalla parte nostra questa violenza, poiché supplirà egli poi colla sua grazia e soccorrerà la nostra debolezza con farci ottener la vittoria. Questa risoluzione ci libera dall'impedimento di camminare avanti, e ci dà insieme un gran coraggio, poiché ci assicura di stare in grazia di Dio» (Pratica…, 14, p. 101).
Il terzo mezzo per farsi santo è l'orazione mentale. «Chi lascia dunque l'orazione lascerà di amare Gesù Cristo. L'orazione è la beata fornace ove si accende e si conserva il fuoco del santo amore: nella mia meditazione divamperà un fuoco (Sal 38, 4). Non si deve praticare l'orazione per sentire le dolcezze dell'amor divino; chi vi va per tal fine, ci perderà il tempo, o poco profitto ne caverà. Deve la persona mettersi a pregare solo per dar gusto a Dio, cioè solo per intender ciò che voglia Dio da lui e per domandargli l'aiuto per eseguirlo. Portare la croce senza consolazioni fa volare l'anime alla perfezione. L'orazione senza consolazioni sensibili riesce la più fruttuosa per l'anima. Dall'esercizio poi dell'orazione avviene che la persona sempre pensi a Dio: Il vero amante, dice S. Teresa, sempre si ricorda dell'amato. E da qui nasce poi che le persone di orazione parlano sempre di Dio, sapendo quanto piace a Dio che gli amanti suoi si dilettino in parlar di lui e dell'amore ch'esso ci porta, e così procurino d'infiammarne anche gli altri. Dall'orazione ancora nasce quel desiderio di ritirarsi ne' luoghi solitari per trattare da solo a solo con Dio, e di conservare il raccoglimento interno nel trattare gli affari esterni necessari. Dico necessari, o per ragion del governo della famiglia o degli offici imposti dall'ubbidienza; poiché la persona di orazione deve amar la solitudine; lo spirito di raccoglimento ch'è un gran mezzo per mantenere l'unione con Dio. Hortus conclusus soror mea sponsa (Cant. IV, 12). L'anima sposa di Gesù Cristo deve essere un giardino chiuso a tutte le creature, e non dee ammettere nel suo cuore altri pensieri ed altri negozi che di Dio o per Dio» (Pratica…, 20-23, pp. 104-105).
Gli altri mezzi suggeriti dal Liguori sono la comunione frequente e la preghiera (Pratica…, 26 e 33, pp. 107 e 111).
M soffermo ora sopra una questione rilevante. Riguardo all'orazione mentale, rilevo una differenza tra i suggerimenti di questi santi e la prassi inculcata dai Padri della Chiesa e ripresa dal magistero attuale della Chiesa.
Nella Chiesa antica, tutti i battezzati ma soprattutto le vergine consacrate erano avviate alla lettura frequente della Sacra Scrittura. Si trattava di una lettura non oziosa o curiosa ma condotta in spirito di preghiera ed era chiamata lectio divina.
La descrizione migliore (che è forse anche la più antica) la troviamo nella lettera all'amico Donato scritta da san Cipriano di Cartagine. «Sii assiduo alla preghiera e alla lettura. Ora parla con Dio, ora Dio con te. Egli ti istruisca coi suoi precetti, egli ti formi. Nessuno renderà povero chi lui ha arricchito. Non può esserci alcuna povertà quando il cuore è saziato dal cibo celeste» (Cipriano di Cartagine, A Donato, 15, Edizioni ESD ESC 2, Roma-Bologna 2007, p. 113).
Le testimonianze più vive che collegano la lectio alla Verginità, ci vengono da Metodio.
«Come le parti sanguigne delle carni, quelle intaccate e tutto quanto è soggetto a putrefazione vengono bruciate dal sale, allo stesso modo tutti i desideri irragionevoli che la vergine porta nel corpo vengono minimizzati dall'insegnamento dei precetti. Giacché un'anima che non sia cosparsa da questa specie di sale che sono le parole di Cristo, fatalmente si corrompe. Per tal fatto nel Le-vitico esiste il divieto di offrire al Signore Dio qualsiasi dono che non sia stato prima cosparso di sale (Lv 2,13). Ci è stato infatti dato un sale aspro che ci mortifica a nostro vantaggio: è qualsiasi meditazione spirituale delle Scritture, prescindendo dalla quale è impossibile che l'anima venga presentata all'Onnipotente per mezzo del Verbo. Disse il Signore degli Apostoli: Voi siete il sale della terra (Mt 5,13). Bisogna dunque che la vergine sia sempre presa dall'amore per il bello, si distingua tra quelli che primeggiano nel servizio della sapienza, che non abbia traccia di indolenza ne di mollezza, ma rappresenti sempre il meglio e coltivi pensieri degni della verginità. Deve purificare con la Parola quel che trasuda del piacere, perché, senza accorgersene, una violenta putredine non generi il verme dell'incontinenza. Come dice giustamente il beato Paolo: Chi non è sposata ha cura delle cose del Signore, del come potrebbe piacere al Signore per essere santa di corpo e di spirito (1 Cor 7,32-34). Molte, però, ritenendo secondario l'ascolto della Parola, pensano di far cosa molto gradita se vi prestano l'orecchio per poco tempo: ma da queste bisogna tenersi lontani» (Metodio, 1,1 cit., pp. 38-39).
«In Isaia i giusti sono chiamati salici che crescono sulla sponda dell'acqua corrente (Is 44,4). La giovane pianta della verginità si protende verso l'alto con vigore e bellezza solo quando l'uomo giusto che si è dedicato alle sue cure e alla sua crescita la bagna coi dolcissimi ruscelli del Cristo e l'asperge con la Sapienza. Infatti come la pianta del salice verdeggia e si sviluppa naturalmente grazie all'acqua, così la verginità fiorisce e sboccia continuamente se viene alimentata dalla sacra dottrina affinché uno possa appendervi la sua cetra» (Metodio, 4,3 cit., p. 79).
Nel secolo XVII, in san Francesco de Sales ritroviamo dei suggerimenti che son praticamente identici a quelli dei Padri:
«... pensa e leggi spesso cose sante, perché la Parola di Dio è casta e rende casti coloro che vi si compiacciono; sicché Davide la paragona al topazio, pietra preziosa, che ha la proprietà di calmare l’ardore della concupiscenza» (Francesco di Sales, Filotea XIII).
«... datti alla lettura dei Libri santi più di quanto non sei solita fare, confessati e comunicati più spesso, con umiltà e sincerità parla di tutte queste suggestioni e tentazioni al tuo direttore spirituale, se ti è possibile» (Francesco di Sales, Filotea XXI).


Amicizia


Il vergine e la vergine, vivendo in comunità o anche da soli, riescono meglio nel loro compito di realizzare un amore pieno, se vivono l’esperienza dell’amicizia. Il cristianesimo ha ereditato dalla Bibbia e dalla riflessione classica greco-romana una stima profonda per il bene dell'amicizia.
Il biblista (e cardinale) Albert Vanhoye così parla del rapporto amichevole e affettuoso che sussisteva tra san Paolo e i suoi cristiani: «...nel brano della Prima Lettera ai Tessalonicesi che stiamo esaminando, egli dice ai fedeli: «Voi siete il mio vanto, la mia gloria». Qui possiamo notare come Paolo non si lasci guidare da una mentalità ristretta o da una coscienza scrupolosa, ma abbia un cuore largo. Perciò non pensa che ciò che viene dato ai suoi fedeli sia tolto a Cristo; anzi, sa che Cristo stesso stabilisce i legami più forti tra le persone, e che questi legami costituiranno un motivo di speranza, di gioia e di gloria nel momento decisivo della venuta finale del Signore. Noi spesso dimentichiamo questa prospettiva di Paolo, sottovalutando i legami affettivi e assumendo un atteggiamento di prudenza, che crediamo spirituale, ma che in realtà non è fedele al Cuore di Cristo. Il Cuore di Cristo ci spinge ad amare, non a diffidare dei sentimenti. Per questo Paolo non esita a vantarsi, a gloriarsi dei fedeli a cui è rivolto il suo apostolato, perché in definitiva il suo è un gloriarsi nel Signore. Anche la sua relazione con i suoi fedeli è opera del Signore» (Albert Vanhoye, La vocazione e il pensiero di san Paolo, ADP, Roma 2013, p. 77).
Oggi l’eros sembra assorbire tutto l’ambito dell’affettività; spetta allora alla spiritualità cristiana, rifondare questo valore tanto necessario per qualificare l’esistenza umana e impedire una sua desertificazione.
La spiritualità monastica, e in particolare quella cistercense (l’autore più emblematico è Aelredo di Rievaulx), è stata la più disponibile ad aprirsi a questa esperienza.
Aelredo ha lasciato un trattato sull’amicizia (De spiritali amicitia) nel quale espone alcuni criteri per vivere questa esperienza nella sapienza evangelica. Percorriamo alcune delle tematiche esposte.
Innanzitutto una definizione. Questo è amicizia: avere le medesime convinzioni, la medesima volontà unita a un sentimento di benevolenza. Se prestiamo attenzione, più che all’elemento unificatore, ossia il comune ideale, al risultato ottenuto sul piano dei rapporti, abbiamo anche quest’altra definizione: «L’amicizia è quella virtù che unisce gli animi con questo vincolo d’amore e di dolcezza e ne fa di più uno solo» (I,21).
Oltre a questi tentativi di precisazione, Aelredo ci lascia dei tratti vivi di esperienza: l’amico è il custode dell’animo, «ne conserverà tutti i segreti in fedele silenzio, correggendo e sopportando, nella misura delle proprie forze, i difetti che vi scorgerà; si rallegrerà nelle sue gioie e si rattristerà nelle sue sofferenze, e sentirà come proprio tutto ciò che riguarda l’amico» (I,20).
Da queste osservazioni, sorge però una difficoltà. Una relazione benevola accompagnata dalle ricerca di interessi reciproci può originarsi anche tra persone malvagie o corrotte che si uniscono per scopi deteriori. Ora Aelredo non rifiuta neppure a questo genere associazioni il nome di amicizia, ma la considera non autentica, proprio perché, non essendo gratuita, non avrà durata; i contraenti, animati da interessi estranei all’amicizia stessa, non potranno rispettare le condizioni che la mantengono viva. L’amicizia autentica, invece, grazie alla ricerca comune di un bene oggettivo, favorisce la crescita morale di ognuno che ha contratto il legame amicale e quindi consolida anche la loro unione (Cf. I,38-45).
Egli dà per scontato che l’amicizia sia un bene. Il problema non sta nel dilemma se accoglierla o rifiutarla, ma piuttosto nella possibilità di riscoprire le condizioni comportamentali che da un sentimento spontaneo la rendono un valore duraturo.
Come ho già accennato, l’amicizia viene bene accolta, anche e soprattutto come sostegno di un cammino spirituale, se manifesta un sostanziale e prezioso requisito, la gratuità: «L'amicizia spirituale, l'unica che diciamo vera, è desiderata non in vista di una qualche utilità mondana, né per una qualsiasi ragione d'ordine estrinseco, bensì in virtù della dignità della propria natura e della disposizione del cuore umano; sicché il suo frutto e la sua ricompensa non sono in nient'altro che in se stessa» (II,45).
Data la difficoltà di stabilire criteri certi di discernimento sulle motivazioni che sostenevano i casi singolari, il segno della sua autenticità veniva posto nella sua durata. Una amicizia autentica sussiste per sempre, mentre il suo venir meno mette a nudo le motivazioni false su cui essa si basava.
Ora il criterio della durata, poi, avvicina l'amicizia alla carità. La perseveranza, infatti, presuppone la capacità conservare un rapporto di benevolenza che spinge al dono totale di sé e a conservare sentimenti d’amore anche quando la reciprocità può incrinarsi (Cf. I,23-26).
Aelredo, comunque, la differenzia dalla carità per il fatto che mentre l’amore deve essere rivolto a tutti, anche ai nemici, l’amicizia nasce solo tra persone legate tra loro da stima reciproca e da benevolenza (Cf I,32). Mentre la carità richiede un'apertura universale, ci induce, cioè, ad agire bene verso ogni essere che incontriamo, la relazione amicale si può sviluppare solo all'interno di una cerchia stretta di persone che si sono scelte reciprocamente. L'amicizia non è rifiuto dell'amore ma una sua modalità di attuazione: Pur amando tutti, la carità sceglie alcuni che vuole avvolgere d'una particolare tenerezza, e anche in questo numero di privilegiati sceglie un piccolo stuolo al quale dona un affetto ancor più speciale.
La differenza o meglio il vantaggio dell'amicizia rispetto all'amore sta proprio nel suo aspetto di piacevolezza: «In una cosa l'amicizia risplende di una speciale prerogativa: tra coloro che sono uniti con il vincolo dell'amicizia tutto diventa piacevole, tutto sicuro, tutto dolce, tutto soave» (II,19).
In essa la carità diventa soave o dolce. Così la componente affettiva o gratificante dell'amicizia non solo viene ammessa ma anche incoraggiata.
A sorprendere maggiormente in questa convinzione è il fatto che gli elementi di gratifica propri dell'amicizia non vengano rifiutati, ma, al contrario valorizzati come un aiuto per vivere meglio l'agape. La presenza della piacevolezza non rappresenta un dissolvimento dell'autenticità dell’amore. Se l’amicizia, rispetto ad essa, perde in estensione, guadagna in spontaneità ed, infine, può richiedere lo stesso spirito di sacrificio proprio dell'agape. L’amore non vale solo quando è unilaterale, ossia quando è tanto generoso da riversarsi su qualcuno anche senza contraccambio, oppure quando presenta solo il carattere della mortificazione di sé - atteggiamenti che compaiono nel nobile amore verso il nemico -, ma anche quando vige all’interno di una circolazione d’affetto, in cui sboccia il piacere dell’incontro, la soavità dell’amarsi.
La relazione amicale di interscambio, se di per sé non rappresenta il vertice estremo a cui può pervenire l’agape, offre l’idea di quello che dovrebbe essere il vivere cristiano normale: uno sperimentare la leggerezza della comunione sincera. La vita comune non è destinata ad essere soltanto massima penitenza ma anche realizzazione umana più compiuta, luogo del donare, anche faticoso, ma anche luogo del comunicare nella piacevolezza.
Interessanti, poi, sono le motivazioni teologiche che sorreggono l’impegno del cristiano nel volere realizzare il bene dell’amicizia.
Come ho già rilevato, essa è un bene naturale che sgorga dall’intenzione stessa del Creatore. Dio, che non ha bisogno d’altro per essere completo nella sua beatitudine, vuole lasciare nelle creature una traccia del suo essere uno. Mentre siamo soliti fondare la comunione umana come riflesso del mistero trinitario, Aelredo preferisce fondarla sull’unità di Dio, forse perché essa è come lo scopo delle differenze personali: «Volle che tutte le sue creature vivessero in pace e si unissero in comunità, e tutte, così, ricevessero da lui, che è sommamente e semplicemente Uno, una qualche traccia di unità» (I,52).
Per questo crea diverse specie in ogni genere di essere, quasi per persuadere ognuno di essi a fare amicizia tra di loro. Anche per quanto riguarda l’umanità, Dio creò una coppia di essere di pari dignità proprio perché l’uguaglianza in dignità li conducesse all’amicizia. L’essere umano, quindi, è destinato alla comunione. La coppia, più ancora che del piacere dell’unione, è destinata a godere della soavità della relazione amicale. Il compito dell’uomo, dopo la dispersione in seguito alla caduta, è quello di salvaguardare questo bene dato originariamente da Dio.
Un rapporto vero di amicizia, il quale richiede sempre di essere fondato e di crescere nell'amore autentico, è un dono creato da Cristo nella nostra esistenza, un dono tale che, se viene esercitato, ci avvicina a Lui. Anzi attraverso la benevolenza dell'amico è Cristo stesso a rendere attuale per noi la sua amicizia. Il Signore Gesù ci ama attraverso la benevolenza dell’amico e, viceversa, infonde in noi l’amore che nutriamo verso l’altro. Il rapporto amicale è infine un'immagine della comunione futura nella città celeste (II,26).


Il distacco


Nel vivere l’amicizia è necessario custodire gli affetti del cuore. Nessun autore di spiritualità come Francesco di Sales è più chiaro e più determinato nel rilevare e combattere gli affetti scomposti che possono insorgere nelle persone.
Prima di tutto si preoccupa di eliminare in origine ogni affetto smodato; in questo luogo ci vuole attenzione alle parole lusinghiere: «Che cosa fare per combattere gli amori futili, le stranezze, le pazzie, le brutture cui ho accennato? Appena ne avverti i primi sintomi, volgiti subito dall’altra parte e, respingendo nel modo più assoluto quelle stupidità, corri presso la Croce del Salvatore, afferra la sua corona di spine e cingine il tuo cuore di modo che quelle piccole volpi non possano avvicinarsi.
Sta bene attenta a non scendere a patti con il nemico; non dire: lo ascolterò, ma poi non farò nulla di quanto mi suggerirà; gli presterò orecchio, ma gli rifiuterò il cuore. Filotea, in tali circostanze, devi essere intransigente: il cuore e le orecchie sono collegati, e com’è impossibile arrestare un torrente che scende a valle dalla montagna, così è difficile impedire che l’amore entrato in un orecchio non scenda presto nel cuore... Proteggiamo dunque scrupolosamente le nostre orecchie dai colpi d’aria delle parole inutili; in caso contrario ben presto il nostro cuore ne sarà contagiato.
Ricordati che hai consacrato il cuore a Dio, gli hai dato il tuo amore, e sarebbe un sacrilegio sottrargliene anche una briciola soltanto; rinnova la tua offerta con mille propositi e promesse e rimani in quelle come un cervo nel suo rifugio e poi invoca Dio. Egli ti verrà in aiuto: prenderà il tuo amore sotto la sua protezione, per farlo vivere unicamente in Lui».
In seguito Francesco cerca di intervenire nel caso in cui, invece, il sentimento d’affetto, si sia già radicato nel cuore, in profondità. Suggerisce di praticare un allontanamento tra i due amanti:
«Se poi sei già incappata nelle reti di quei futili amori, allora sento l’obbligo di dirti che ti sarà difficile sbarazzartene. Mettiti alla presenza della divina Maestà, riconosci l’enormità della tua miseria, la tua debolezza, la tua vanità; poi con l’impegno massimo di cui sarai capace, detesta quegli amori già iniziati, rinnega la sciocca manifestazione che ne hai fatto, rinuncia a tutte le promesse ricevute e, con una volontà forte e risoluta, decidi nel cuore e risolviti a mai più ricominciare quei giochi e quelle schermaglie d’amore. Se poi ti è possibile allontanarti fisicamente dalla persona coinvolta, sono d’accordissimo, perché, allo stesso modo che coloro i quali sono stati morsi da un serpente, non possono guarire facilmente in presenza di coloro che già sono stati morsi a loro volta, la persona ferita d’amore difficilmente riuscirà a guarire da quella passione, finché sarà vicina a quella ferita dallo stesso morso. Il mutamento del luogo è molto utile per calmare la febbre e l’agitazione causate sia dal dolore che dall’amore.
Ma chi non può allontanarsi? Deve troncare ogni conversazione privata, gli incontri segreti, gli sguardi languidi, i sorrisi e in genere tutti gli scambi e gli ammiccamenti che possono nutrire questo fuoco maleodorante e fuligginoso. Se poi le circostanze esigono che si rivolga la parola al complice, deve essere per dichiarare, con una coraggiosa, breve e seria protesta, il divorzio definitivo che abbiamo giurato. Grido a voce alta, a chiunque sia caduto in questi lacci passionali: taglia, tronca, spezza. Non bisogna perdere tempo a discutere queste futili amicizie; bisogna strapparle non perdere tempo a sciogliere i nodi; bisogna spezzarli è tagliarli; tanto quei cordoni e quei legami non hanno alcun pregio. Non bisogna avere riguardi per un amore che è contrario all’amore di Dio».
Infine il santo Dottore, cerca di rianimare la persona che si sente ferita in seguito all’esperienza vissuta: «Dopo avere in questo modo spezzate le catene di quell’infame schiavitù, è possibile che resti qualche strascico. I marchi e le piaghe dei ferri rimarranno impressi nei piedi, ossia negli affetti. Non fa nulla, Filotea, se tu hai concepito per il tuo male tutto l’orrore che merita; se farai così non sarai più agitata dalle ansie; proverai soltanto un forte orrore per quell’amore infame e per tutto quello ad esso collegato e sarai libera da ogni altro affetto per la persona che hai lasciato; ti rimarrà soltanto un amore purissimo per Iddio.
Se poi, a causa dell’imperfezione del pentimento, rimane in te qualche inclinazione cattiva, procura per la tua anima una solitudine mentale, come ti ho già insegnato, e ritirati in essa con tutte le tue facoltà, e con mille slanci ripetuti dello spirito, rinuncia alle tue inclinazioni, rinnegale con tutte le forze; datti alla lettura dei Libri santi più di quanto non sei solita fare, confessati e comunicati più spesso, con umiltà e sincerità parla di tutte queste suggestioni e tentazioni al tuo direttore spirituale, se ti è possibile; o almeno con qualche anima dalla fede profonda e molto prudente; sta certa che il Signore ti libererà da tutte le passioni, se tu continuerai fedelmente questi esercizi».
 (Francesco di Sales, Filotea, XXI).