lunedì 14 novembre 2016

Segni e parole di Gesù

Azioni significative

Un uomo parla non soltanto con la parola ma anche con le sue azioni e con tutto se stesso. Gesù ha parlato del Regno di Dio con tutto quello insegnava ma soprattutto per come agiva, per ciò che Egli era.
Solidarizzare con i poveri e gli esclusi era già quello un modo di parlare con chiarezza, diceva che Dio è sollecito soprattutto nei confronti dei più disagiati. Del resto è logico prestare soccorso a chi sta male più degli altri. Questo, per Gesù, è il modo di sentire di Dio.
Esaminiamo ora altre azioni che ebbero lo scopo di servire quali segni indicatori. Gesù per risvegliare l'attenzione al suo messaggio e per mostrare che Egli vi credeva con tutto se stesso, fece azioni inconsuete, anche se non eccentriche o trasgressive, che destavano un certo stupore.
1. Né lui né i suoi discepoli partecipavano ai digiuni rituali a cui si sottoponevano altri gruppi religiosi, come quello dei farisei. La cosa irritava i più zelanti. Non sarebbe stato più opportuno che chi si presentava come un maestro religioso mostrasse zelo anche in queste pratiche? Perché sconcertare proprio le persone più devote che avrebbero potuto spalleggiarlo?
Gesù voleva far conoscere la preziosità del dono che Dio stava facendo agli uomini, quello della sua persona. I profeti avevano insegnato che Dio è lo sposo del suo popolo; a differenza delle divinità pagane, non aveva preso con sé alcuna sposa ma aveva scelto il popolo come sua consorte. Adesso, dal momento che il Messia viene, l'alleanza matrimoniale fra Dio e il suo popolo è stabilita di nuovo. La festa nuziale si svolgerà al compimento del Regno ma intanto Gesù celebra con i discepoli la festa di preparazione a queste nozze. Anche oggi un giovane che sta per sposarsi, festeggia insieme con gli amici l'evento prossimo. Gesù non digiuna e non fa digiunare proprio per questo stesso motivo. Non disprezza la pratica del digiuno in sé (da recuperare in altre situazioni) ma è più interessato a segnalare la novità che Dio sta introducendo. Mentre si trova sulla terra, allestisce delle anticipazioni gioiose del banchetto futuro.
2. Egli amava sedere a mensa con i peccatori ed anche questa prassi, irritava le persone religiose. Gli avversari lo denigravano come mangione e beone (Lc 7,34; Mt 11,19). Gesù, tuttavia, non è in combutta con i malvagi né accetta la trasgressione come se fosse segno di maggior intelligenza. Mentre non attenua per nulla la malignità dell'agire disonesto, ritiene di poter recuperare anche le persone più compromesse con il peccato. Quanto più uno è sprofondato nel suo male, tanto più è urgente riconquistarlo. Gli iniqui fanno parte della categoria degli uomini che stanno peggio, ai quali Dio rivolge una premurosa attenzione prioritaria, perché è buono e non può rinnegare se stesso. Per questo Gesù banchetta con i peccatori, distinguendosi in modo netto da Giovanni Battista. Agendo in questo modo, manifesta una nuova comprensione di Dio stesso. La misericordia che Egli avverte nei confronti dei peccatori è la stessa carità che il Padre prova nei loro confronti.
3. Un altro segno del Regno sta nel numero degli apostoli. Gesù ne scelse dodici, come furono i capostipiti del popolo d'Israele. È molto probabile che volesse porre un segno per significare la sua volontà di rinnovare il popolo di Dio. Il suo intento non era quello di sostituire l'antico popolo con un altro ma quello di rigenerare l'antico. Israele rimane il ceppo santo; è tale perché scelto da Dio, a prescindere dai suoi meriti. La chiamata di Dio è irrevocabile. I pagani che avrebbero creduto in Gesù, attraverso di lui, si sarebbero innestati nell'antico tronco. Chi si innesta nel Cristo, si radica in Israele.
4. Molto particolare è il modo con cui recluta i discepoli. Gli allievi ebrei sceglievano loro il maestro, il rabbi cui affidarsi. In Gesù avviene il contrario: è lui a scegliere chi dovrà seguirlo. Offre la sua istruzione anche alle donne e, negli spostamenti, era accompagnato anche da loro, al suo seguito. Egli esercita piena autorità sui discepoli e la sua chiamata possiede una forza creativa. Crea dei discepoli più che formarli o istruirli. Dal momento in cui sono stati chiamati, Gesù diventa il centro della loro esistenza. Non è possibile, ad esempio, sostituirlo con un altro maestro. Spesso un giovane ebreo passava da un maestro ad un altro e questo passaggio era consigliato dal precedente. Gesù deve rimane per loro un Maestro unico ed incomparabile.
I discepoli dei rabbini li frequentavano per imparare la Bibbia ma i discepoli di Gesù imparano Gesù. Egli vale al pari della Legge. La Legge non deve più essere osservata come essa è risuonata per secoli, ma per come Gesù la interpreta. Essa ha ancora tutto il suo valore perché Gesù la accredita e la ringiovanisce, ma essa deve passare al vaglio del suo giudizio. Questo era inaudito: o si acconsentiva alla sua interpretazione come quella più autentica o si doveva rifiutarlo di netto come un trasgressore.
Sebbene si ponga di fronte discepoli con grande autorevolezza, Gesù non si comporta nei loro confronti con piglio autoritario. Anzi, mentre i rabbini si facevano servire dai discepoli, Gesù si abbassa al loro servizio (G. Lohfink, Gesù di Nazaret, cit, pp. 92-93).


Miracoli


Azioni rivelatrici della sua persona, oltre a quelle che ho appena ricordato, sono i suoi miracoli. Vediamo un esempio significativo.
Mentre si trovava in una casa privata a Cafarnao e stava insegnando, gli presentarono un paralitico steso sul suo misero giaciglio. I portatori s'aspettavano che lo guarisse, come aveva fatto altre volte. Al contrario Gesù subito gli accordò il perdono dei peccati. Si sentì autorizzato a fare ciò che soltanto Dio avrebbe potuto fare, perché riteneva che Egli, in qualità di Figlio dell'uomo, potesse agire in nome di Dio. «Il perdono dei peccati era una funzione riservata solo a Dio e lo stesso Messia ne era escluso. Il disinvolto comportamento di Gesù doveva pertanto essere considerato come un vulnus inferto al sistema religioso ufficiale e alla lunga non poteva essere tollerato» (R. Penna, Gesù di Nazaret, cit., p. 101).
Gesù non vuole trascurare la malattia dell'infermo né prendersi gioco dei portatori ma, con il suo agire e con il suo parlare, segnala prima di tutto che ogni uomo è affetto da una infermità ancora più paralizzante di quella fisica, della quale non se ne avvede neppure e che tende, così, a trascurare. Dio vede ad un livello di profondità che trascende il nostro sguardo. Il cuore umano è un abisso che soltanto Dio può guarire. Presi da problemi più immediati, non scorgiamo la vera causa delle nostre sofferenze e perciò non sappiamo che cosa sia opportuno chiedere a Dio.
L'episodio della guarigione del paralitico è molto illuminante. Ci mostra che Gesù guarisce per solidarietà, buono e compassionevole com'è. Se detiene il potere di guarire, esercitando una facoltà che è propria del Creatore, può anche perdonare. Il primo fatto dimostra la verità dell'altro. Nell'uno e nell'altro caso, agisce a nome di Dio. Incontrando Lui, il paralitico incontra Dio che si china su di lui. Il Regno di Dio è presente perché l'uomo guarisce a livello in tutte le componenti della sua persona. Lo sguardo, tuttavia, non deve fissarsi sul presente ma allargarsi al futuro: un giorno l'umanità sarà liberata e guarita dai suoi mali. Dio sta creando un nuovo mondo del quale ogni singola guarigione è soltanto un segno parziale.


Il significato dei miracoli


Il miracolo rievocato mette a fuoco un aspetto fondamentale di Gesù, il quale non è propriamente un guaritore. C'erano guaritori sia in Israele, come pressi i santuari dei pagani. Gesù riconosceva che anche altri personalità religiose compivano degli esorcismi efficaci (Cf Mt 12,27; Lc 11,19). Non soffre per la concorrenza di altri. Egli però agisce in modo del tutto diverso e per uno scopo diverso. Guarisce pronunciando una parola creativa o compiendo un gesto creatore. «Si deve osservare che, in modo decisivo, i miracoli di Gesù sono rappresentati differentemente da quelli della cultura a lui circostante: egli fa raramente uso di strumenti; guarisce per contatto o con una semplice parola. Non usa mai lingue straniere o formule magiche, amuleti, droghe o tecniche...» (Charles E. Carlston, «Gesù Cristo», in Il Dizionario della Bibbia, Zanichelli, Bologna 2003, p. 383).
Per quanto riguarda la loro storicità, ci sono buoni motivi per ammetterli con sicurezza. L'apostolo Pietro parlando ai giudei il giorno di Pentecoste attesta riguardo a Gesù: «Gesù di Nazaret - uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua come voi ben sapete...» (At 2,22). Pietro non potrebbe chiamare in causa i suoi ascoltatori se essi non avessero visto questi prodigi e segni come testimoni. Da per scontato che conoscano o abbiano visto almeno qualcuno dei fatti menzionati o ne avessero sentito parlare. Il dato era ammesso da tutti ma non tutti condividevano la spiegazione che ne dava l'apostolo, ossia che Dio avesse agito per garantire Gesù. I suoi avversari non avrebbero mai ammesso una cosa del genere. Non hanno mai negato che Egli, ad esempio, cacciasse i demoni tramite esorcismi ma, fornendo una spiegazione maligna a questa evidenza, si sono rifiutati di credere in Lui. Chi era ostile a Lui, rimase tale. I miracoli non costringono mai alla fede.
L'essenziale per un credente non sta nel fatto di ammettere i miracoli ma nel condividere il significato che Gesù ne dava: sono dei segni del Regno. Era questo il motivo per cui Egli agiva. Le opere di Gesù hanno senso soltanto se le comprendiamo quali azioni di Dio che intende ora esercitare la sua sovranità e risanare la sua creazione. Molti dei malati guariti da Gesù, forse si saranno ammalati in un'altra circostanza e, di certo, tutti sono morti. Un evento, sia pure prodigioso, il cui significato si esaurisce del tutto nel vantaggio personale per qualcuno, per un tempo limitato, è una cosa molto buona non ha un significato enorme. Ne detiene uno grandissimo se, invece, manifesta ciò che Dio vuol fare per tutti, in maniera risolutiva. Per una persona miracolata, ciò che vale di più è la certezza d'essere amata, l'esperienza d'essere stata soccorsa realmente. É miracolata davvero se l'accaduto che ha vissuto, l'ha cambia per sempre; se pensa che Dio la soccorrerà anche nel futuro e, infine, in modo tale da liberarla dalla necessità di essere soccorsa. Il vero prodigio è scoprire d'essere amati da Dio. Il vero miracolo sarà costituito dal risanamento totale e definitivo degli uomini che avverrà al compimento del Regno. Dio vuole liberare l'umanità da ogni iniquità e da ogni dolore. Questa redenzione si manifesterà al compimento della storia ma comincia realmente già da ora.


Perennità dei miracoli


I Vangeli ci dicono che Gesù non ha compiuto soltanto esorcismi o guarigioni ma anche prodigi sulla natura e risuscitamenti da morte. In questo modo si mostra signore della creazione. È come se la Sapienza che aveva collaborato con Dio per creare il mondo fosse presente in Lui. Anche per quanto riguarda questo tipo di miracoli, lo scopo non è quello di dar spettacolo di sé o assicurarsi una posizione privilegiata nella società. Essi sono a loro volta, come gli altri prodigi, un segno del regno. Se Gesù dichiara di poter rinnovare il mondo, lo può fare perché ne è il Signore.
Un esempio lo troviamo nel racconto della tempesta calmata. Mentre il lago è in burrasca e i discepoli sono presi da terrore, Gesù minaccia la massa d'acqua. La minaccia come se la tempesta fosse una chiara manifestazione demoniaca, il riaffacciarsi nella storia della forza distruttiva del caos. Fattasi bonaccia, i discepoli vengono presi da grande timore e si interrogano: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» Importante in questo caso è rilevare come il miracolo diventi una manifestazione del vero essere di colui che realizza il Regno di Dio in terra. Gesù è ben più di un taumaturgo; è figlio di Dio in un senso del tutto particolare. A regnare sovrano sugli elementi della creazione può essere soltanto una persona che appartiene alla sfera divina e rende presente Dio stesso (E. Cuvillier, Evangelo secondo Marco, Qiqajon, Magnano (BI) 2011, p. 137). Siamo di fronte ad una nuova manifestazione di Dio nella persona di Gesù. I miracoli sulla natura non trasformano la sua vita in un percorso trionfale. Egli dovrà lo stesso affrontare il rifiuto e la morte. Però è molto diverso che a soffrire sia un uomo coerente al suo credo, un eroe della solidarietà o sia invece il Figlio stesso di Dio, che di per sé sarebbe stato esente da ogni travaglio. Ancora una volta Gesù manifestando se stesso, rivela Dio e la sua infinita generosità.
I racconti di miracoli ci comunicano anche un altro messaggio. Il Vangelo, annunciando che il Regno può essere sperimentato già al presente, cioè al presente di qualsiasi ascoltatore che crede sulla base di tali testimonianze. Gli evangelisti hanno raccontato i prodigi in modo che essi, mentre sono stati azioni di Cristo in terra, siano colti anche come azioni attuali del Cristo Risorto. I testimoni dei miracoli di Gesù, in ultima analisi, non sono soltanto i suoi contemporanei ma siamo noi.
Da ricercatori sulla storia ci chiediamo: Gesù, in quel tempo, avrà calmato davvero la bufera sul lago, avrà riportato la bonaccia? Se lo potessimo accertare con sicurezza, non rimarremo comunque abbastanza indifferenti? Credere, invece, offre l'inaudita possibilità di sperimentare Dio come presente nella nostra vita. Può capitare a chiunque di trovarsi in cattive acque e avere la sensazione di sprofondare, forse in modo definitivo. Allora gridando al Signore, come fece Pietro sulle onde del lago e cercando d'afferrare la sua mano solida, supererà ciò che per lui sarebbe stato impossibile affrontare da solo. É possibile dire: se accadde a Pietro, può accadere anche a me, ora, oppure viceversa. Se accadde a me, è già accaduto anche a Pietro e capiterà ancora. Gli eventi del Vangelo sono come uno specchio e l'uomo di ogni generazione deve rivedersi nelle sue pagine. Le conclusioni storiche, scientifiche, essendo di per sé sempre oggetto di discussione e rivedibili, non offrono la certezza dell'esperienza vissuta nella fede.


Parole


Gesù, nei suoi spostamenti da un villaggio all’altro, insegnava e istruiva chiunque si ponesse in ascolto di lui. Parlava anche nel corso delle riunioni liturgiche in sinagoga, nel giorno di Sabato. Era un maestro autorevole, profondo e piacevole. Immagini e parabole, arricchite con similitudini tratte dalla vita e dal mondo naturale, rendevano più fruibile il suo discorso, ma sapeva affrontare contraddittori accesi e non era possibile spuntarla nei dibattiti con lui.
Comunicava con le singole persone, a somiglianza del pastore che conosce le pecore ad una ad una, ma non si sottraeva neppure all’assalto della folla sofferente, senza tuttavia dare alcun peso al fatto d’essere cercato e di essere diventato famoso (Mc 6,31-33). Non modificava il contenuto del suo messaggio pur di estendere il gruppo dei seguaci (Gv 6,67).
Colpiva molto l’autorevolezza del suo insegnamento, il peso che attribuiva ai suoi precetti. Dava l’impressione che ascoltando lui, si ascoltasse Dio stesso. Per questo non introduce mai il discorso, avvertendo “Così dice il Signore…”, come se dovesse fare soltanto il portavoce del pensiero altrui, secondo l’uso normale dei profeti, ma usa, invece una formula che è esclusiva a Lui: “In verità io vi dico…”. Tuttavia Egli vive sempre in relazione con Dio e, assentire al suo messaggio, era accogliere il Padre che l’aveva inviato; rifiutarlo era disobbedire a Dio.
Non si poteva andare a sentirlo per semplice curiosità, evitando poi di pronunciarsi. Chi lo ascoltava doveva scegliere. Il Regno di Dio cresce quando gli uomini accettano il suo messaggio e si dispongono ad assumere il suo stile di vita. L’unica cosa essenziale è cambiare mentalità, essere dispiaciuti del male compiuto, provare grande gioia nell’essere suoi amici, condividere il suo stile di vita. Non è possibile diventare suoi discepoli per casualità, per influsso culturale o sociale, per forza d’inerzia. Non si deve trascurare neppure il fatto che, più di frequente di quanto siamo propensi ad ammettere, accompagnava le sue esortazioni con richiami al giudizio di Dio paventando il rischio d’essere disapprovati da Lui.


Discorso del monte


L’insegnamento tipico di Gesù è condensato nel cosiddetto Discorso del monte (Mt 5-7), un vero compendio della buona novella.
Lo seguiamo brevemente seguendo l’inquadramento che ne da l’evangelista Matteo. Gesù pronuncia questo discorso, rivolto alla folla e ai discepoli, in quanto Figlio di Dio (3,16-17) la cui autorità è superiore a quella degli scribi (7,28-29) o anche di Mosè (5,21-48). A differenza di quest'ultimo, non riceve una Legge, ma enuncia una parola dotata di autorità.
Il discorso comincia con la proclamazione delle Beatitudini. Si potrebbero tradurre con la parola felicitazioni.

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3-10).

Chi sono i beati, che ricevono le congratulazioni di Cristo? Le persone che sono aperte a Dio e cercano di fare la sua volontà. Rattristate per tutte le iniquità che vengono commesse, cercano, al contrario, di purificare sempre di più il loro cuore. Non avendo possibilità di autodifesa e avendo rinunciato liberamente ad ogni rivalsa, subiscono facilmente la derisione e anche persecuzioni fisiche, proprio perché cercano Dio e seguono Gesù. Tutti costoro sono approvati e apprezzati da Dio, sono da Lui benedetti e alla fine erediteranno il regno nella sua pienezza.
Le Beatitudini annunciano in primo luogo l’opera di Dio, parlano di ciò che Egli sta operando nel mondo ma soprattutto preannunciano il rovesciamento delle condizioni che avverrà nel futuro, quando il Regno si compirà. Per intanto, rivelano, comunque la gioia inestimabile connessa alla certezza che gli eventi profetizzati sono in corso di realizzazione.
Le persone a cui le beatitudini fanno riferimento formano la nuova comunità, che è "sale della terra" e "luce del mondo" (5,13-16).

Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli (Mt 5,13-16).

Sale e luce indicano qualcosa di particolare, qualcosa di grande e d’attraente che distingue dagli altri, ma elargito affinché sia posto a servizio di tutti. La comunità (la Chiesa) appartiene al Regno ma il Regno è più grande di essa. I discepoli possono esercitare un influsso benefico sugli uomini e, grazie al loro comportamento, chiamano altri a glorificare Dio.
Dopo questa introduzione, Gesù espone le sue richieste specifiche. La Legge mosaica possiede una validità perenne: i discepoli non devono trasgredirla ma adempierla con una fedeltà maggiore: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Ciò nonostante, le Scritture trovano compimento in lui ed è Lui a conferire il vero senso alla Legge e alle profezie.
In seguito, Gesù chiarisce che cosa intenda per fedeltà alla Legge e in che modo Egli dia compimento ad essa. Le sue affermazioni si sviluppano in due proposizioni: nella prima ribadisce la validità dell’antico comando ma nella seconda parte spiega come esso vada compreso e attuato meglio.
Ecco il primo caso: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere... Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna» (Mt 5,21-22). Cristo, quindi, non condanna soltanto l’eliminazione fisica di un altro, secondo quanto era già stato richiesto da Mosè, ma esige anche la purezza totale del cuore, che, in questo caso, corrisponde all’eliminazione d’ogni sentimento di astio e di disprezzo verso gli altri.
Lo stesso discorso può essere ripetuto per quanto riguarda l’adulterio: «Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27-28). L’adulterio si commette già con il desiderio cupido (spogliare una donna con gli occhi o viceversa). Se l’unico motivo per il quale non si compie il male è soltanto l’impossibilità pratica di farlo, il peccato già è compiuto nei fondali del cuore sotto la forma del desiderio iniquo. L’adulterio dello sguardo è ben conosciuto dalle vittime dello stalking.
Un adulterio di fatto era compiuto, per via legale, da chi cambiava moglie per puro arbitrio: «Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all'adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio» (Mt 5,31-32). Gesù ancora una volta condanna l’intenzione nascosta nel cuore, oltre che le azioni palesi. Nel proibire il divorzio, estende un’intenzione già presente nella profezia poiché nell’Antico Testamento la legislazione aveva conosciuto uno sviluppo che prepara il Vangelo (Mal 2,16). A Gesù sta a cuore salvaguardare la relazione affettiva che è di fatto un bene di estrema importanza per la vita e la serenità delle persone.
L'amore per il nemico, oggetto dell’ultima affermazione, è visto come un'imitazione della generosità di Dio: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 44-45).
Questo comando ha suscitato reazioni e applicazioni di vario genere. Gesù in primo luogo sta riferendosi ai rapporti all’interno della comunità. Nelle relazioni è meglio rinunciare al diritto che prevede un risarcimento proporzionale al torto subito (legge del taglione). È più importante avere l’animo sgombro dall’astio, che riuscire a spuntarla sull’altro. È importante anche disarmare il fratello, mostrandogli la nostra purezza di intenzioni nei suoi confronti. Far vacillare nell'altro la certezza che alla violenza bisogna rispondere con la violenza.
La maggiore rettitudine richiesta dal Maestro ha un doppio centro: coinvolge il comportamento verso gli altri ma anche verso Dio. Finora abbiamo visto quale sia l’atteggiamento da tenere verso il prossimo 5,21-48), ma, nel seguito del discorso, Gesù chiarisce come dobbiamo comportarci nei confronti di Dio (6,1-7,12). Non svolge una trattazione teorica ma offre degli esempi pratici. Ribadisce il valore di alcune pratiche giudaiche, come l’elemosina, la preghiera e il digiuno, purché non siano adempiute per ostentazione e per secondi fini (Mt 6,1-6). Connesso a questo discorso, sta la richiesta a non attaccarsi alla ricchezza (Mt 6,19-24). La catechesi sulla preghiera presenta un maggior sviluppo ma l’atteggiamento fondamentale sta nell’abbandono fiducioso a Dio Padre. Il distacco dalla ricchezza e il sentimento di fiducia nella preghiera presuppongono che il discepolo confidi nella provvidenza di Dio.
L'impronta essenziale di tutti i comandi impartiti è l'amore (5,44-45; 7,12). Infatti per i discepoli amare come Dio ama significa essere perfetti (5,48), cioè dedicarsi con tutto il cuore a compiere la volontà di Dio come è stata interpretata da Gesù (7,21). I discepoli saggi sono quelli che ascoltano e fanno ciò che Gesù ha insegnato (7,24-27).


Caratteristiche del discorso


Tornando al contenuto dei suoi discorsi, notiamo come alcune proposte erano esclusive a Lui; nessun profeta l’aveva mai insegnate, come nessun saggio dell’umanità (ad esempio, il comando ad amare i nemici). Altre volte richiama l’insegnamento della Bibbia, per ribadirlo, senza apporre alcuna novità ma semplicemente per applicarlo. Altre volte, invece, corregge il modo comune di intendere la Scrittura: questo compare nelle sentenze che iniziano con il detto “Avete inteso che fu detto agli antichi, ma io vi dico….”. Talora rende più rigorosa l’osservanza della Scrittura, suscitando perplessità. Lo dimostra la proibizione totale del divorzio. Altre volte ancora, invece, il suo insegnamento corrisponde alle massime correnti in ogni civiltà ed è possibile trovare istanze simili in altri uomini religiosi, in pensatori, in persone di cultura attente a vivere con sapienza. Lo attesta la cosiddetta regola d’oro: «Non fare agli altri, ciò che non vorresti ricevere dagli altri». Questa massima era largamente diffusa nell’etica filosofica e in quella religiosa.
Considerando la sublimità delle proposte del Discorso della montagna, qualcuno ha detto che sono state pensate per uomini eletti, per quei pochi che, chiamati da Dio con una grazia particolare, aspiravano alla perfezione. Niente nel Vangelo suggerisce questa distinzione tra gli uditori; ad ascoltare c'è anche la folla. Altri hanno detto che esse, essendo inapplicabili, servono soltanto a farci capire la nostra povertà e ad accettarla. L'unico vantaggio che ci offrono è quello di sentirci peccatori e bisognosi dell'aiuto di Dio. In realtà, non è possibile attribuire a Gesù un secondo fine; ha dato il suo insegnamento, perché lo pratichiamo. Importante però ammettere una gradualità nella pratica dei suoi precetti. Praticare il Vangelo è come camminare sulla strada della carità. Quando si cammina in una strada, innanzitutto bisogna badare a non cadere fuori dai limiti, poi, continuando ad avanzare, in modo più o meno faticoso, si arriverà alla meta. Lo stessa cosa vale in questa questione. C'è un minimo da osservare e questo ci dà la possibilità di restare in carreggiata e poi c'è una meta che si avvicinerà col tempo. L'importante è almeno voler intraprendere il cammino.
I suoi precetti sono troppo pesanti? Avrebbe dovuto lasciarci un po’ in pace? Gesù è come quel maestro che conosce meglio dell’allievo le sue capacità reali. Lo sollecita, lo costringe ad esercitarsi non per assillarlo ma perché dia il meglio di sé. Gesù rinvia alla riprova nel pratico: «Se lasci gravare su di te il giogo che ti ho richiesto, lo percepirai sempre più leggero e, nello stesso tempo, ti sentirai te più robusto» (cf Mt 11, 29-30). Non c’è nulla di quanto ci chiede, che non valga la pena di accoglierlo e ci fa riscoprire il valore reale della nostra umanità. Ci dona la libertà. Molti vorrebbero essere liberi ma rinunciano alla libertà per adagiarsi nelle comodità o nelle sicurezze. Gesù, invece, ci solleva dove non avremmo osato spingerci e dove non saremmo stati capaci giungere.
Le parole di Gesù non possono essere accettate come ci proponiamo di assecondare altre norme morali perché, a nostra discrezione, ci sembrano opportune. Questo sarebbe troppo poco. È vero il contrario: accogliamo il suo insegnamento perché è stato raccomandato da Lui; è la fiducia in lui che ci consente di considerare opportuno un precetto che, a prima vista, ci può sembrare eccessivo o controproducente. Bisogna essere catturati dalla fede, come i pesci all’amo: il pesce afferra l'esca (il gusto delle parole evangeliche) soltanto quando, nello stesso momento, è preso (dal Pescatore).
Bisogna sentirsi affascinati dalla sua persona, presi dalla gioia della scoperta di ciò che Egli è e della ricchezza del Regno. Il suo messaggio è Lui. Ogni parola deriva dalla sua esperienza di Dio. Egli non mira a formare delle persone corrette ma apre agli uomini la possibilità di essere figli di Dio, come è Lui. Il suo insegnamento è un apprendimento della stessa carità di Dio, una scuola di deificazione. Per Gesù l’unico modo possibile per avere una vita riuscita è quello di assomigliare a Dio.


Con il Padre


Gesù parlava sempre di Dio Padre e del suo Regno. Il suo intento era realizzare il progetto di Dio nel mondo e fare tutto il possibile perché si attuasse. La relazione con Dio era il centro della sua vita e costituiva la sua identità più profonda.
Gesù ha vissuto con grande intensità la spiritualità di Israele, attinta dalla famiglia. Da bambino fu circonciso (Lc2,21), offerto a Dio come avveniva per ogni maschio ebreo (Lc 2,22-23). Partecipò ai pellegrinaggi al tempio (Lc 2,41-42) e alla preghiera settimanale in sinagoga. Apprese le preghiere tipiche d’Israele, in modo particolare la recitazione dello Shemà, che consisteva nella ripetizione di un versetto del libro del Deuteronomio (6,4-5): «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze». Dicendo queste parole, ogni israelita confermava la sua fede in Dio ma anche la sua disponibilità a darsi a Lui con fiducia e generosità.
Gesù, mentre accoglieva i principi della fede ebraica che vedevano in Dio un Re e un Padre, li approfondì con una sensibilità propria soltanto a lui. Lo abbiamo visto verificando gli elementi indubbiamente storici della sua esistenza. Ne aggiungo un altro. Gesù, rivolgendosi a Dio, usava l’espressione, molto confidenziale, Abba. Non è un’espressione propria del linguaggio infantile (come papà o papi), ma denota una grande confidenza (R. Penna, Gesù di Nazaret, cit. p. 103).

Dio, non soltanto era Re, ma realizzava in maniera completa la sua regalità proprio per mezzo di Lui. Gesù partecipava alla paternità di Dio e la manifestava accogliendo gli esclusi (gli impuri), i peccatori e privilegiando i poveri. Parlava ed agiva come se Dio parlasse e agisse in Lui, il Figlio. Grazie alla sua identità particolare, Egli si riteneva autorizzato a perdonare i peccati e dare l’interpretazione autentica e decisiva della Legge. I miracoli, con la quale partecipava alla potenza divine del Creatore, confermavano che Egli stava attuando realmente il regno di Dio. In lui s’adempivano le attese messianiche e costituiva, così, la speranza per tutti. 

da Si chiamava Gesù di F. Mosconi, Ancora