martedì 11 marzo 2014

Trasfigurazione di Gesù



«Si trasfigurò davanti a loro» dice semplicemente Marco e, con un po' di goffaggine, quasi balbettando dinanzi al mistero aggiunge: «Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (9,2s). Matteo dispone già di parole più impegnative: «II suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (17,2). Luca è l'unico ad aver indicato già in precedenza lo scopo della salita: «Salì sul monte a pregare», e da lì spiega poi l'avvenimento di cui i tre discepoli diventano testimoni: «E, mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (9,29). La trasfigurazione è un avvenimento di preghiera; diventa visibile ciò che accade nel dialogo di Gesù con il Padre: i’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce. Ciò che Egli è nel suo intimo e ciò che Pietro aveva cercato di dire nella sua confessione - si rende percepibile in questo momento anche ai sensi: l'essere di Gesù nella luce di Dio, il suo proprio essere luce come Figlio.
Qui diventano visibili il riferimento alla figura di Mosè e la differenza: «Quando Mosè scese dal monte Sinai [...] non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con il Signore» (Es 34,29). Attraverso la conversazione con Dio, la luce di Dio si irradia su di lui e lo rende a sua volta raggiante. Tuttavia, si tratta, per così dire, di un raggio che lo raggiunge dall'esterno, e ora fa risplendere anche lui. Gesù, invece, risplende dall'interno, i non riceve solo luce, ma è Egli stesso Luce da Luce.
L'abito di Gesù, bianco come la luce durante la trasfigurazione, parla tuttavia anche del nostro futuro. Nella letteratura apocalittica le vesti bianche sono espressione della creatura celeste - le vesti degli angeli e degli eletti. Così, l'Apocalisse di Giovanni parla delle vesti candide che verranno indossate dai salvati (cfr. soprattutto 7,9.13; 19,14). Essa, però, ci dice anche qualcosa di nuovo: le vesti degli eletti sono candide perché essi le hanno lavate nel sangue dell'Agnello (cfr. Ap 7,14) - vuol dire: perché mediante il battesimo sono stati uniti alla passione di Gesù e la sua passione è la purificazione che ci restituisce la veste originaria, perduta nel peccato (cfr. Lc 15,22!). Mediante il battesimo siamo con Gesù rivestiti di luce e siamo diventati noi stessi luce.
Ora appaiono Mosè ed Elia e parlano con Gesù. Ciò che il Risorto spiegherà ai discepoli sulla via di Emmaus è qui un'apparizione visibile. La Legge e i Profeti parlano con Gesù, parlano di Gesù. Soltanto Luca driferisce - almeno in un breve accenno - di che cosa conversavano i due grandi testimoni di Dio con Gesù: «Apparsi nella loro gloria, parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (9,31). Il loro argomento di conversazione è la croce, intesa tuttavia in senso ampio come esodo di Gesù, che doveva aver luogo a Gerusalemme. La croce di Gesù è esodo, un uscire da questa vita, un attraversare il «Mar Rosso» della passione e un passare nella gloria, nella quale tuttavia restano sempre impresse le stimmate.
In tal modo si chiarisce che il tema fondamentale della Legge e dei Profeti è la «speranza di Israele» - l'esodo che libera definitivamente; che il contenuto di questa speranza è il sofferente Figlio dell'uomo e servo di Dio che, soffrendo, apre la porta verso la libertà e la novità. Mosè ed Elia sono essi stessi figure e testimoni della passione. Parlano con il Trasfigurato di ciò che hanno detto sulla terra, della passione di Gesù; ma, mentre ne parlano con il Trasfigurato, diventa palese che questa passione porta salvezza; che è permeata dalla gloria di Dio, che la passione viene trasformata in luce, in libertà e gioia.
A questo punto dobbiamo anticipare la conversazione che i tre discepoli intrattengono con Gesù durante la discesa dal «monte alto». Gesù parla con loro della sua futura risurrezione dai morti che, appunto, include la croce come precedente passaggio. I discepoli, invece, pongono domande sul ritorno di Elia annunciato dagli scribi. Gesù dice loro: «Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell'uomo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. Orbene, io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come di lui sta scritto» (Mc 9,9-13). Gesù conferma così, da una parte, l'attesa del ritorno di Elia, ma dall'altra completa e corregge al contempo l'immagine che ci si era fatti di quell'evento. Identifica tacitamente l'Elia che ritorna con Giovanni Battista: nell'attività del Battista ha avuto luogo un ritorno di Elia.
Giovanni era venuto per riunire Israele, per prepararlo all'avvento del Messia. Se però il Messia è Egli stesso il sofferente Figlio dell'uomo e solo così apre la via verso la salvezza, allora anche l'attività preparatoria di Elia deve stare in qualche modo sotto il segno della passione. E infatti: «Hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come di lui sta scritto» (Mc 9,13). Qui Gesù ricorda, da una parte, l'effettivo destino del Battista, ma dall'altra, con il riferimento alla Scrittura, allude forse anche a tradizioni esistenti, che predicevano il martirio di Elia; Elia veniva considerato «l'unico a essere sfuggito al martirio durante la persecuzione; al suo ritorno [...] deve subire anch'egli la morte» (Pesch, Markusevangelium II, p. 80).
L'attesa della salvezza e la passione vengono pertanto comunemente associate tra loro, sviluppando così un'immagine della redenzione che, in fondo, è conforme alla Scrittura, ma che possiede una novità travolgente rispetto alle aspettative esistenti: la Scrittura andava e va continuamente riletta con il Cristo sofferente. Sempre di nuovo dobbiamo lasciarci introdurre dal Signore nel suo dialogo con Mosè ed Elia, continuamente dobbiamo imparare di nuovo a partire da Lui, il Risorto, a comprendere la Scrittura.
Torniamo al racconto stesso della trasfigurazione. I tre discepoli sono sconvolti dalla grandezza dell'apparizione: il «timore di Dio» li pervade, come abbiamo visto in altri momenti in cui avvertono la vicinanza di Dio in Gesù, intuiscono la propria miseria e sono quasi paralizzati dalla paura. «Erano stati presi dallo spavento» ci dice Marco (9,6). E tuttavia Pietro prende la parola, anche se nel suo stordimento, «non sapeva [...] che cosa dire» (9,6): «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!» (9,5).
Di queste parole per così dire estatiche, pronunciate nel timore ma anche nella gioia della vicinanza di Dio, si è discusso molto. Hanno forse a che fare con la festa delle Capanne, nel cui ultimo giorno ebbe luogo l'apparizione? (Hartmut...)
Il rapporto con la festa delle Capanne diventa convincente se si considera l'interpretazione messianica di questa festa nel giudaismo all'epoca di Gesù. Jean Daniélou ha approfondito questo aspetto in maniera convincente, collegandolo alla testimonianza dei Padri, in cui le tradizioni ebraiche erano senz'altro ancora note e venivano reinterpretate nel contesto cristiano. La festa delle Capanne presenta la medesima tridimensionalità caratteristica - come abbiamo già potuto vedere - delle grandi feste giudaiche in generale: una festa tratta originariamente dalla religione naturale diventa al tempo stesso una festa dei ricordi storici delle azioni salvifìche di Dio, e il ricordo diventa speranza di salvezza definitiva. Creazione - storia - speranza si collegano tra loro. Se durante la festa naturale delle Capanne con la sua offerta dell'acqua si era implorata la pioggia necessaria in una terra arida, la festa diviene ben presto il ricordo della peregrinazione di Israele nel deserto, dove gli ebrei avevano vissuto nelle tende (capanne, sukkot) (cfr. Lv 23,43). Daniélou cita prima Riesenfeld: «Le capanne furono concepite non solo come ricordo della protezione divina nel deserto, ma [ciò che è importante] anche come una prefigurazione dei sukkot [divini] nei quali i giusti avrebbero abitato nel secolo a venire. Sembra, quindi, che con il rito più caratteristico della festa delle Capanne, così come questa era celebrata nei tempi del giudaismo, era collegato un significato escatologico molto preciso» (p. 451). Nel Nuovo Testamento, ritroviamo in Luca il discorso delle eterne tende dei giusti nella vita futura (16,9). «L'epifania della gloria di Gesù» così Daniélou «è interpretata da Pietro come il segno che i tempi messianici sono arrivati. E uno dei caratteri dei tempi messianici era il soggiorno dei giusti nelle tende di cui quelle della festa delle Capanne erano figura» (p. 459). L'esperienza della trasfigurazione durante la festa delle Capanne permise a Pietro di riconoscere, nella sua estasi, «che le realtà prefigurate dai riti della festa erano realizzate [...]. La scena della trasfigurazione indica dunque che i tempi messianici sono venuti» (p. 459). Solo durante la discesa dal monte Pietro dovrà imparare ancora in modo nuovo a comprendere che l'epoca messianica è innanzitutto l'epoca della croce e che la trasfigurazione - il diventare luce in virtù del Signore e con Lui - comporta il nostro essere arsi dalla luce della passione.
A partire da questi collegamenti acquista nuovo significato anche la frase fondamentale del Prologo di Giovanni, dove l'evangelista riassume il mistero di Gesù: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare [letteralmente: pose la tenda] in mezzo a noi» (Gv 1,14). Sì, il Signore ha piantato la tenda del suo corpo in mezzo a noi, inaugurando così l'epoca messianica. Seguendo questa traccia, Gregorio di Nissa ha commentato il rapporto tra la festa delle Capanne e l'incarnazione in un testo magnifico, che parte dalla constatazione che la festa delle Capanne veniva sempre celebrata ma non era compiuta: «La vera festa della costruzione delle Capanne, infatti, non c'era ancora. Ma proprio per questo, conformemente alla parola profetica [allusione al Salmo 118,27], Dio il Signore dell'universo si è rivelato a noi, per compiere la ricostruzione della tenda distrutta della natura umana» (Gregorio di Nissa, De anima, PC 46,132 B; cfr. Daniélou, pp. 464-466).
Con negli occhi questa panoramica, torniamo ora al racconto della trasfigurazione. «Poi si formò una nube che li avvolse nell'ombra e uscì una voce dalla nube: "Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!"» (Me 9,7). La nube sacra è il segno della presenza di Dio stesso, la Shekinah. La nube sopra la tenda della rivelazione indicava la presenza di Dio. Gesù è la tenda sacra sopra la quale si trova la nube della presenza di Dio e dalla quale essa avvolge «nell'ombra» ora anche gli altri. Si ripete la scena del battesimo di Gesù, quando il Padre stesso dalla nube aveva indicato Gesù come Figlio: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in tè mi sono compiaciuto» (Mc 1,11).
A questa solenne proclamazione della dignità filiale si aggiunge però ora l'imperativo: «Ascoltatelo!». Qui torna visibile la relazione con la salita di Mosè sul Si-nai, che all'inizio avevamo visto come sfondo della storia della trasfigurazione. Sul monte, Mosè aveva ricevuto la Torah, la parola d'insegnamento di Dio. Ora, con riferimento a Gesù, ci viene detto: «Ascoltatelo!». Hartmut Gese ha commentato questa scena con perspicace correttezza: «Gesù è diventato la stessa Parola divina della rivelazione. I Vangeli non possono presentarlo in modo più chiaro e più possente: Gesù è la stessa Torah» (p, 81 ). L'apparizione è così terminata, il suo significato più profondo è riassunto in quest'unica parola. I discepoli devono ridiscendere con Gesù e imparare sempre di nuovo: «Ascoltatelo!».
Se impariamo a interpretare così il contenuto del racconto della trasfigurazione - irruzione e inizio dell'epoca messianica -, riusciamo anche a comprendere la parola oscura che Marco inserisce tra la confessione di Pietro e l'insegnamento ai discepoli, da una parte, e il racconto della trasfigurazione, dall'altra: «E diceva loro: "In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza"» (9,1). Che cosa significa? Gesù predice forse che alcuni degli astanti saranno ancora in vita al momento della sua Parusìa, dell'irruzione definitiva del regno di Dio? Oppure preannuncia qualcos'altro?
Rudolf Pesch (II 2, p. 66s) ha osservato in modo convincente che la collocazione di questa parola subito prima della trasfigurazione indica con molta chiarezza il rimando a questo avvenimento. Ad alcuni - che sono poi i tre accompagnatori di Gesù nella salita sul monte - viene promesso che faranno l'esperienza della venuta del regno di Dio «con potenza». Sul monte, i tre discepoli vedono splendere la gloria del regno di Dio in Gesù. Sul monte, la nube sacra di Dio li avvolge nell'ombra. Sul monte - nel dialogo di Gesù trasfigurato con la Legge e i Profeti - essi riconoscono che la vera festa delle Capanne è arrivata. Sul monte apprendono che Gesù stesso è la Torah vivente, Finterà parola di Dio. Sul monte vedono la «potenza» (dynamis) del regno che viene in Cristo.
Tuttavia, proprio nello spaventoso incontro con la gloria di Dio in Gesù devono imparare ciò che Paolo dice ai discepoli di tutti i tempi nella Prima Lettera ai Corinzi: «Noi predichiamo Cristo crocifìsso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (l,23s). Questa «potenza» del regno futuro appare loro nel Gesù trasfigurato che parla con i testimoni dell'Antica Alleanza della «necessità» della sua passione come via verso la gloria (cfr. Lc 24,26s). Vedono così la Parusìa anticipata; vengono così iniziati pian piano all'intera profondità del mistero di Gesù.

Joseph Ratzinger Gesù di Nazaret/1 pp.  357-366