giovedì 14 agosto 2014

L'amico della parola. Spiritualità biblica di Gregorio di Nissa


Capitolo 3. L’esperienza della parola


Come accostare la Sacra Scrittura



La Sacra Scrittura incise in profondità in Gregorio; lo fece passare da una fede debole ad una solida, caratterizzata da un forte impegno a favore dei fratelli. È quanto abbiamo osservato nel capitolo precedente.
In questa sezione, vorrei mostrare in che modo egli si sia accostato alla Bibbia, con quale spirito l’abbia accolta, meditata e annunciata; in quali maniere abbia cercato di comprenderla e spiegarla.
L’apprendimento della Sacra Scrittura era considerato un impegno normale per tutti i battezzati. Clemente di Roma (un autore del I sec.), rivolgendosi ai cristiani di Corinto, osserva: «Le provviste di Cristo vi bastavano e custodivate con cura le sue parole, le tenevate salde nell’intimo» (2,1 p. 183); ancora: «Vi siete curvati sulle sacre Scritture, quelle vere, quelle trasmesse mediante lo Spirito santo» (45,2 p. 245). Da parte sua, Origene, un maestro di Alessandria d’Egitto, così si rivolgeva ai fedeli: «Se vieni con frequenza in Chiesa, porgi l’orecchio alle letture divine, ricevi la spiegazione dei comandamenti celesti, lo spirito si rafforzerà per le parole e i pensieri divini» (Origene, Omelie sul Levitico IX, 7, CTP 221-222). In questi passi la lettura divina coincide con la proclamazione della parola in ambito liturgico ma Origene non s’accontenta di chiedere assiduità alla predicazione ma esorta i fedeli a riprendere la lettura della Bibbia a livello personale: «Auspichiamo che, dopo aver ascoltato queste cose, vi applichiate non solo ad ascoltare in chiesa le parole di Dio, ma anche a metterle in pratica nelle vostre case e a meditare giorno e notte la Legge del Signore; là c’è il Cristo e ovunque è presente a chi lo cerca» (Origene, Omelie sul Levitico IX, 5, CTP 216-217). Potremmo moltiplicare testimonianze di questo genere.


La forza della Sacra Scrittura


Perché veniva data tanta importanza alla Sacra Scrittura? La Bibbia, purché accostata in modo adeguato, non era considerata un semplice strumento culturale. Si era certi che essa non comunicasse delle semplici informazioni, ma la grazia di Dio.
Esiste un’analogia tra l’opera di Gesù, Parola di Dio fatta carne, e l’azione che la Scrittura Santa opera in noi. Le grazie che il Signore ci concede nell’ascolto della sua parola, sono simili ai benefici che Egli ha compiuto a favore degli uomini nel corso della sua esistenza terrena. I segni prodigiosi che il racconto evangelico attribuisce a Gesù, corrispondono ad opere attuali compiute nella Chiesa dal Risorto. Allora guariva ed oggi la sua parola guarisce. La Parola è energia creativa: non si limita a comunicare informazioni ma opera cambiamenti. Nel Cantico dei Cantici, il giovane invita la sua amata ad alzarsi e recarsi da lui; ora lo stesso invito il Cristo lo rivolge sempre alla sua Chiesa, quindi ad ogni persona che ne fa parte, e il Signore è sempre in grado di attuare ciò che si propone.
Il Verbo, per rianimare gli affranti, si accosta alle finestre [della casa] e grida alla Chiesa: «Alzati dalla tua caduta tu che sei precipitata nel vischio del peccato, catturata nei lacci del serpente, stesa a terra, prostrata dalla disubbidienza. Alzati! Rimettiti in piedi dalla tua caduta ma fa' anche molto di più, avanza crescendo nel bene impegnandoti nella gara della virtù» (CC V, p. 99).
Il Signore ci ridesta, ci stimola a procedere verso il meglio, ad avanzare superando di continuo nuove tappe di maturazione.
Nella vita, spesso, siamo nella condizione di quel paralitico che fu rimesso in piedi da Gesù; a volte siamo desiderosi del bene ma incapaci di compierlo, altre volte invece siamo stanchi e presi da sconforto. Gesù, con il suo comando, che è «asserzione efficace», diventa capace di guarirci dall’abbattimento e di rimetterci in piedi:
Il Signore non solo gli fece sollevare quel lettuccio pesante, ma gli ordinò anche di camminare. Mi sembra che il Verbo suggerisca di procedere verso la perfezione e di avanzare superando di continuo nuove tappe. Gli disse: «Alzati e vieni!». Con quanta energia egli comanda! Veramente la parola di Dio è asserzione efficace, come attestano i salmi «Ecco tuona con voce potente», oppure: «Egli parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste». Anche in questa circostanza egli ordina alla sposa prostrata: «Alzati, vieni» e il comando si realizza immediatamente. Non appena ha accolto la forza di quella parola, si alza, avanza, si avvicina alla luce come viene indicato dalle parole di Colui che la chiama (ivi). 
Il raffronto con il paralitico guarito ci fa comprendere come la Parola ci accompagni in tutto il corso della vita, ci consenta di guadagnare la nostra umanità. Ogni nostra ripresa dipende in primo luogo dalla sua azione solidale.
Meditare sulla Sacra Scrittura era un avvicinarsi a Dio e un farsi illuminare da lui. Gregorio condivide questo modo di pensare. «La Scrittura ispirata da Dio, come la chiama il divino apostolo, è Scrittura dello Spirito Santo, e l'intento di essa è l’utilità degli uomini. Dice: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio ed è utile”, e svariata e multiforme è l’utilità, come dice l'apostolo: essa concerne l’ammaestramento, la riprensione, la correzione, l’educazione nella giustizia» (CE III, 69, 8.9.11, p. 449). Subito dopo, però, precisa: «Ma ottenere siffatto guadagno non lo può, ad una prima lettura, il primo che capita…» (ivi).
Come ottenere allora il guadagno sperato? Come evitare la sorte che accade al primo che capita?



Povertà e splendore della Sacra Scrittura


Cosciente del carattere religioso della lettura biblica, Gregorio vive due atteggiamenti che sembrano porsi in una certa tensione tra loro, quello dell’accessibilità estrema e quello della segretezza; troviamo un Dio pronto a rendersi conoscibile e a familiarizzare con noi, e nel contempo, un Dio che ci trascende e di fronte al quale possiamo sentirci smarriti.
Vediamo un esempio. Nel commentare il libro del Cantico dei Cantici, Gregorio proclama un aspetto qualificante del mistero di Dio: «Sembra che la bellezza divina, pur provocando anche terrore, eserciti una mirabile attrazione…» e subito aggiunge: «… quella Bellezza pura appare come una forza tremenda e inesorabile!» (VI, p. 120). Sono enunciate due caratteristiche del Sacro fra quelle che verranno individuate da R. Otto. Nell’udire la Parola, dovremo sentirci attratti perché Dio è bellezza pura ma anche pieni di rispetto nei suoi confronti perché Egli è una forza tremenda. A Mosè che s’avvicina al roveto in fiamme con eccessiva franchezza, Dio chiede di togliersi i calzari perché sta calcando una terra santa (Cf Es 3,5). Ai miseri che erano stati convocati dalla strada ed erano stati spinti ad entrare alla festa di nozze, il padrone chiede che indossino un abito nuziale adeguato (Cf  Mt 22,10-12). Non si può procedere nel mondo di Dio con la disinvoltura con la quale percorriamo il nostro. Non ne siamo i padroni e neppure, di per sé, abbiamo il diritto che ci venga messo a disposizione.
Il credente, che è abbastanza sensibile da avvertire la trascendenza divina, è preso da vertigine, come capita a chi osserva un abisso ai propri piedi:
Ora, ciò che sente normalmente colui che con la punta del piede tasta la barriera di roccia inclinata verso l'abisso, e non vi trova né un appoggio per il piede né un appiglio per la mano -, ecco, questo è ciò che, a mio parere, prova l'anima che oltrepassa la zona accessibile dei concetti propri della dimensione temporale, nella ricerca della natura che precede il tempo ed è oltre la dimensione temporale. Non avendo nulla a cui aggrapparsi, … essa è presa da vertigine, si trova priva di qualunque mezzo e ritorna a ciò che le è affine (Qo VII, 8, p. 397).
Ciò che si prova nei confronti del mistero di Dio, lo si può avvertire anche al semplice annuncio della parola di Dio. Commentando la sesta beatitudine – Beati i puri di cuore perché vedranno Dio – Gregorio ricorre di nuovo all’esperienza delle vertigini:
Lo stesso senso di vertigine, tipico di chi da un tale punto di osservazione si sporga in basso, da quella grande altezza, a vedere il mare nell'abisso, prova ora la mia anima, trovandosi sospesa in alto sopra questo grande detto del Signore: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. (Beat VI, I, p. 289).
Ascoltando le parole di Dio, Gregorio prova fascino ma anche imbarazzo e per questo invita i suoi fedeli ad avvicinarsi con rispetto, con quello dovuto a qualcosa di grande e di per sé inaccessibile. Bisogna lasciare ogni eccessiva confidenza. Il provare un senso di vertigine non è forse un’esperienza traumatica che spinge piuttosto ad evitare il contatto con il Signore? Non è questo lo scopo a cui mira Gregorio ma vuole soltanto impedire, come ho detto, che si nutra un’eccessiva confidenza che sconfina nella presunzione.
Come mai corriamo il rischio di comportarci con eccessiva disinvoltura? Questo accade perché la Sacra Scrittura si presenta in un aspetto familiare, perfino dimesso, ed è priva di radiosità esteriore. Dio non si manifesta in segni strabilianti ma, nel comunicarsi, si adegua alla nostra limitata capacità di comprensione.
Rievoca la vicenda di Mosè al roveto: «Dio infatti è la verità che allora si manifestò a Mosè grazie a quella indicibile, soprannaturale illuminazione». Egli tuttavia non sperimentò soltanto lo splendore della parola ma anche la sua umiltà, perché essa si abbassa (kàteisi) fino all’uomo. Tale abbassamento viene segnalato dal fatto che lo splendore della verità proviene da un «cespuglio terreno» (VM II, 19-20, p. 73). Il credente non deve guardare alla povertà del cespuglio ma farsi illuminare dalla luce che lo pervade. La Scrittura è nello stesso tempo uno strumento misero e luminoso.
La Parola ha detto quanto corrispondeva alla mia capacità di comprendere, non quanto è la realtà che è manifestata dalla Parola…. I discorsi su Dio della Sacra Scrittura, che ci vengono esposti da quanti sono ispirati dallo Spirito Santo, sono sublimi e grandi in proporzione alla nostra intelligenza, anzi sono al di sopra di ogni grandezza, ma non attingono la vera grandezza (Beatit VII, 1, p. 325).
Esiste infatti un’analogia tra la povertà della Scrittura e il carattere di umiliazione volontaria attuata dal Signore nella sua incarnazione. «La Parola condiscende (synkatabàinei) al basso livello del nostro ascolto, la Parola che è discesa fino a noi perché noi non eravamo capaci di innalzarci fino a lei. Attraverso le parole e i nomi a noi noti, esprime i misteri divini, con l’ausilio delle voci proprie della lingua di tutti i giorni» (Beat II, 2.1, p. 169).
Un velo viene posto sul volto dei presuntuosi mentre a coloro che s’accostano con lo spirito adeguato, è rivelata la gloria divina. «Davanti ai sensi dell'anima di coloro che con atteggiamento troppo corporeo si accostano alla Scrittura l'apostolo dice che è stato posto il velo, mentre ai sensi di quelli che volgono il loro esame alla realtà intelligibile viene rivelata la gloria riposta nello scritto» (CE III, 69, 8.9.11, p. 449).
Intento ad affermare la necessità di una nuova disposizione d’animo, Gregorio si serve molto di frequente dell’immagine della salita (ánodos). Ogni volta che ci predisponiamo all’ascolto, dobbiamo essere propensi ad affrontare una salita verso un monte al quale Dio ci chiama. Il salire implica l’abbandono di una prospettiva abituale dentro la quale siamo immersi e la graduale disponibilità ad uscirne fuori; implica la volontà di esporsi alla luce, lasciando l’ombra del peccato; il desiderio di farci guarire dal Signore che ci attende come medico: «Se potremo salire sulla cima, troveremo colui che cura ogni malattia e ogni debolezza, colui che assume le nostre infermità e prende su di sé le malattie» (Beat I, 1, p.133). Chi intraprende questa salita, trova il Signore come medico e non come giudice. Allora non dobbiamo rinunciare atterriti o accampando la scusa della nostra indegnità ma «aggrapparci saldamente alla parola che ci tiene per mano» (Beat VI, 1 p. 291). Anziché respingerci, il Signore ci accompagna all’interno del suo mistero tenendoci per mano.
Vi può essere chi, al contrario, preferisce rimanere immerso nell’ombra del peccato senza nutrire alcuna disponibilità ad accoglierne il messaggio. Questi non soltanto non alimenterà quel senso di rispetto di cui ho parlato, ma troverà addirittura strane o ridicole le parole del Signore e il contenuto della Scrittura (cf. Beat III, 2, p. 193).
A motivo del suo stile dimesso, la Parola spesso non viene colta e stimata nel suo valore e diventa, perfino, oggetto di disprezzo. Diffidenza e rifiuto però non diminuiscono la Parola in se stessa ma denunciano piuttosto la nostra meschinità (CF. Beat III, 2, p. 195). Il Signore infatti parla sempre in modo umile, mai in modo meschino. «Sforziamoci piuttosto di vedere il più possibile la ricchezza nascosta in profondità nella Parola, in modo che appaia chiaramente quale grande differenza esiste tra la mente carnale e terrena e quella sublime e celeste» (ivi).
A sua volta, il credente non ancora maturato nelle fede, non giungerà al punto di disprezzarle o deriderle, ma sarà tentato di coglierle come paradossali o impossibili, al punto da rimanere perplesso e incredulo di fronte alle loro richieste. Ciò nonostante, nessun suggerimento della Bibbia oltrepassa la misura della capacità umana. Dio «né ordina di volare agli esseri cui non ha dato per natura ali, né di vivere sott’acqua a quanti ha assegnato in sorte la vita sulla terraferma» (Beat VI, 2, p. 295).




Atteggiamenti spirituali



Per ottenere una lettura proficua della Bibbia, non basta leggerla come si fa con qualsiasi libro. È un libro dello Spirito e per ricevere l’illuminazione dello Spirito è necessario creare una sintonia spirituale tra il lettore e il testo. Il problema della mancanza di sintonia è avvertito già nella Bibbia. Il profeta Geremia così segnala: «Gli esperti della Legge non mi hanno conosciuto» (Ger 2,8). Altro è la competenza biblica e altro è il vero spirito di ricerca di Dio. Lo stesso problema riaffiora nell’esperienza di Gesù. Discutendo con gli avversari, dice loro: “Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. Ma voi non volete venire da me per avere la vita” (Gv 5,39-40). Si può essere grandi conoscitori del testo, ma, ciò nonostante, persone lontane da Dio. Gregorio è cosciente di questa problematica.
Riconosce che il primo passo verso una comprensione proficua lo può compiere soltanto il Signore: «Le nostre orecchie hanno bisogno delle dita di Gesù affinché, al tocco del vero Verbo, la capacità di ascolto della nostra anima sia liberata da ogni sozzura» (Qo 8, 1 p. 405). Il credente ha bisogno di vedere e di ascoltare il Signore ma la vista può essere attenuata e l’udito affievolito. In entrambi i casi, l’impedimento dipende dal cattivo comportamento. Il peccato deve essere eliminato perché la sensibilità dello spirito possa attivarsi in modo corretto e proficuo. Senza una purificazione permanente, il credente non avverte la forza della parola e la meditazione della Scrittura perde efficacia.



Invocazione


L’accoglienza vera della Parola presuppone allora due atti: la preghiera e il desiderio di conversione.
Ecco un passo significativo che attesta la necessità della preghiera:
Ci siamo proposti di meditare il significato spirituale del libro ispirato del Cantico dei cantici, ma esso contiene messaggi inesprimibili a parole, nascosti nella tenebra, difficili a comprendersi. Dobbiamo perciò prestare un'attenzione intensa o, meglio ancora, abbiamo bisogno di un aiuto più consistente ottenuto dalla preghiera e dall'assistenza dello Spirito Santo, affinché, dinnanzi alla profusione di tante meraviglie, non ci accada lo stesso inconveniente in cui incorriamo normalmente quando osserviamo le stelle: mentre stiamo ammirando da lontano la loro bellezza non possiamo disporre di nessun congegno per poterle possedere; ci rimane solo la possibilità di godere del loro splendore contemplandole con ammirazione (CC X, p. 169).
L’immagine usata da Gregorio mi sembra molto efficace. Un conto è ammirare le stelle, un conto è possedere la loro luce. Soltanto il Signore, nel corso della lettura può toccare il nostro cuore al punto che essa diventi esperienza d’illuminazione e di compunzione del cuore. Lo stesso vale della predicazione. L’argomentare ricco di Gregorio, sebbene sia capace di sfruttare le tecniche della retorica, diventerebbe vano se la grazia non illuminasse il cuore degli ascoltatori. La Bibbia non è un libro di letteratura ma un progetto d’esistenza. La preghiera è necessaria non soltanto poter comprendere un testo ma anche per poterlo attuare. Le azioni della nostra vita, se non vengono precedute da una preghiera intensa, difficilmente saranno esenti dal peccato (cf. PN, 1, 1-3). «È con questo che ci è dato di custodire inviolato il nostro buon possesso, col fare di Dio il custode dei nostri beni. Quando i miei occhi sono continuamente al Signore, allora diventano inefficaci i lacci dell’avversario, con i quali egli si industria di attentare a quanto di prezioso c’è nell’anima» (Qo VII, 6, p. 383).



Pentimento e apertura del cuore


Insieme alla preghiera, è necessario alimentare uno spirito di pentimento e soltanto tale sentimento permette di comprendere, ossia d’essere afferrati e coinvolti. La spiritualità di Gregorio, come lo è ogni spiritualità autentica, ha un carattere pratico. Come non offre nessuna utilità essere informati su come vivere in modo sano, se poi di fatto si è malati, così non serve nulla sapere molte cose su Dio, senza ospitarlo in se stessi: «Non il conoscere qualcosa su Dio è cosa beata, ma l’avere in se stessi Dio» (Beat VI, 4, p. 303).
Questa prospettiva modifica in profondità il metodo di approccio alla Scrittura perché se è vero che non possiamo cambiare vita soltanto dopo aver accolto l’annuncio della Parola, è anche vero che la nostra comprensione di Dio sarà proporzionale alla radicalità della messa in pratica della sua parola. Soltanto l’attuare, fa comprendere. «La misura che tu puoi contenere della comprensione di Dio è dentro di te» (Beat VI, 4, p. 305); ossia, potremmo dire «dipende da te». «Colui che vuole veramente occuparsi di teologia in modo appropriato deve avere una condotta di vita consona in tutto alla sua fede» (ST, II,14, p. 176).  Questo rimane un principio basilare per quanto riguarda la comprensione autentica della Bibbia.
Osserviamo un altro testo, dove si ripresenta lo stesso avvertimento:
Quando il pensiero in te non è mescolato ad alcun male, è libero dalla passione e separato da ogni bruttura, tu sei beato per la tua vista acuta, perché, essendoti reso puro, hai compreso ciò che non è visibile a coloro che non si sono resi puri, e, tolta la caligine materiale dagli occhi dell’anima, nella pura luminosità del cuore vedi con chiarezza la visione beata (Beat VI, 4, p. 307).
In questo passo il pensiero (loghismòs) ossia la riflessione razionale che chiunque può elaborare a partire dal testo deve corrispondere al possesso di una vista acuta (oxyôpia) la quale presuppone una purificazione di carattere etico. Il raziocinio può comprendere bene il significato storico o letterale del testo, ma solo la vista acuta dispone a convertirsi e a santificarsi grazie alla compunzione.
Gregorio richiama l’atto della respirazione. Chi respira, assume una quantità d’aria quanto può essere accolta nei suoi polmoni e quanta ne assorbe con la sua capacità di inspirazione. Allo stesso il credente assorbe l’ispirazione della Scrittura in base alla forza della sua religiosità. «Coloro che respirano l'aria lo fanno ciascuno secondo la capacità dei propri polmoni, uno inspira più aria, l'altro meno, e neppure colui che ha inspirato molta aria ha messo la totalità dell'elemento aria dentro di sé, ma anche questi ha preso dal tutto quanto ha potuto e il tutto continua a sussistere» (Beat VII, 1, p. 325). L’immagine è efficace. La massa d’aria rappresenta la pienezza dell’ispirazione e il nostro respiro la capacità personale di attingere ad essa.
Ne La vita di Mosé, Gregorio propone lo stesso insegnamento servendosi di un’altra immagine suggestiva. Quando il profeta saliva verso il monte Sinai, man mano si trovava più alto sull’erta, avvertiva in maniera sempre più forte gli squilli di tromba che riecheggiavano sul monte. Quale messaggio dischiude questo ascendere? Il monte rappresenta la teologia, ossia la conoscenza vitale di Dio. Ora la gente comune raggiunge con difficoltà le falde del monte. Questo non avviene per la difficoltà dei concetti ma per la mancanza di sintonia con il modo di pensare di Dio. Se una persona diventa matura nella fede come lo fu Mosé, salendo il monte grazie alla continua purificazione del cuore, avverte la voce di Dio come se parlasse o agisse in lui con maggiore acutezza.
Il monte, che è veramente scosceso e di difficile accesso, indica la teologia, di cui la gente comune con difficoltà raggiunge le radici. Ma se uno come Mosè, può salire per lungo tratto, sostenendo con l'udito le voci delle trombe che, come dice il racconto, diventavano più forti durante la salita. Infatti è veramente una tromba, che percuote l'orecchio, il messaggio sulla natura divina, già forte all'inizio e che alla fine raggiunge l'orecchio con forza molto maggiore. (VM II, 158, p. 151)
Di nuovo la misura della comprensione dipende da noi, non dal nostro acume intellettuale ma dal livello raggiunto per quanto riguarda la nostra vicinanza con Dio. Più saliamo grazie al nostro comportamento di vita, meglio avvertiamo la voce di Dio.
Una locuzione caratteristica ci aiuta a fare sintesi del discorso che ho fatto. Gregorio afferma che l’uomo è dotato dalla nascita dalla capacità di ascoltare la parola di Dio. Egli possiede una potenza d’ascolto (akoustikê dynamis) insita in lui ma questa funzione viene attenuata a misura della lordura del peccato che vi si accumula. La grazia, lavando ogni sporcizia, riattiva in pienezza l’esercizio del nostro udito interiore (Cf. Qo VIII,1 P. 405).



I frutti della Parola di Dio



«Infuse più forte il desiderio della libertà»


In che cosa consiste la forza che ci viene infusa dalla parola, la volontà di camminare, anzi di correre o di volare? Gesù si comporta con noi come fece Mosè quando si propose di convincere il popolo ad abbandonare la terra della schiavitù, un luogo che era avvilente ma anche rassicurante; un luogo che umiliava le persone ma offriva loro sicurezze. Avendo visto che il popolo desiderava essere libero ma temeva i rischi della libertà, infuse in loro «più forte il desiderio della libertà» (VM II, 89, p. 109).
Il profeta mise in campo la strategia tipica del desiderio. Il desiderio è ben diverso da un obbligo. Un’ingiunzione, anche se è considerata molto opportuna, proprio perchè costringe, è rifiutata. Il desiderio può essere più esigente ancora di un’imposizione, ma non viene percepito come un fattore estraneo. Inoltre un desiderio, per attuarsi, perdura nel tempo, elabora strategie, supera difficoltà, libera una grande energia. Il bene primario dell’uomo consiste nella sua razionalità ma la forza di un desiderio può soffocare e contraddire qualsiasi istanza razionale, oppure, al contrario, rinvigorirla nel modo più idoneo. Allo stesso modo si comporta con noi la Parola inducendoci a desiderare ciò che sarebbero opportuno che noi facessimo e che potrebbe imporci come semplice obbligo.
La vita umana è una congerie di istanze e aspirazioni. Ogni uomo si trova quindi di fronte a due esigenze di grande rilevanza pratica; deve capire in che cosa consista il bene da perseguire e rimanere costante nel desiderio di ottenerlo. È necessario operare un discernimento tra i beni della vita in modo da individuare quale sia quello autentico, ma questo esercizio di ponderazione spesso viene invalidato da bisogni inconsci di chi vuole valutare. Allora ecco intervenire la Parola!
Dio agisce nell’uomo a cominciare dalla creazione stessa della persona. In che cosa consiste il suo agire? Egli infonde negli uomini il desiderio del vero bene. Potremmo dire: gli stimoli che ci indicano la direzione da seguire sono già stati depositati dentro di noi. Parlando ad un gruppo di asceti, Gregorio spiega che il desiderio di santità che essi hanno manifestato nel scegliere un certo tipo di vita, era in realtà presente in loro da sempre:
«Chi, almeno un poco, si distoglie dagli interessi immediati, e non si fa condizionare dalle forti pulsioni che lo dominano e da una vita vuota, scoprirà la dimensione più autentica della sua persona, purché osservi se stesso con uno sguardo libero ed onesto. Scorgerà l'amore di Dio per noi e il senso della sua creazione. Osservandoti, troverai deposto in te, alla radice del tuo essere, un desiderio vivo per la bellezza e per il valore più grande: diventare simile a quel Prototipo di santità e di felicità del quale ogni uomo è un'imitazione. In noi vibra questa felice e innocente ispirazione d'amore» (FC 1).
Ecco la prima e più forte traccia della parola di Dio in noi: il desiderio della bellezza e del bene. I due valori coincidono in questo senso: il bene ci appare provvisto di una forte attrattiva, come una manifestazione di bellezza. Le altre parole di Dio, quelle che Egli pronuncerà in seguito, ossia la parola della Legge o la stessa manifestazione della Parola nella carne, hanno sempre come primo obiettivo quello di risvegliare questa aspirazione originaria che può assopirsi e disperdersi.
La strategia del desiderio, attivando gli impulsi spirituali più profondi presenti nel cuore dell’uomo, realizza in pienezza la nostra umanità e ci permette di guadagnare la nostra libertà che è il potere d’avere ciò che vogliamo. Nel pensiero di Gregorio il ripristino della libertà è un bene primario. L’uomo deve diventare padrone di se stesso, attuando il bene a cui aspira.
«Colui che fece l’uomo a sua immagine, pose nella natura della sua creatura l’origine di tutte le cose buone, in modo che nessun bene dovesse essere introdotto dall’esterno in noi, ma fosse dentro di noi il potere di avere ciò che vogliamo, traendo il bene dalla nostra natura come da una dispensa interna» (Beat V, 5 p. 269).
Ecco la nostra situazione originaria: riuscire a fare il bene che desideriamo compiere. Non dover più subire il contrasto rilevata da tanti uomini giusti, ed infine da Paolo: non faccio il bene che voglio ma il male che detesto (Cf. Rm 7,18-23). L’uomo diventa libero, e si sente liberato, quando riesce a far emergere ed attuare la sua ispirazione più profonda e dominante. Ecco allora perché il Verbo continua a rivolgere alla Chiesa il suo potente richiamo:
Egli ordina alla sposa prostrata: «Alzati, vieni» e il comando si realizza immediatamente. Non appena ha accolto la forza di quella parola, si alza, avanza, si avvicina alla luce come viene indicato dalle parole di Colui che la chiama (CC V, p. 99).
Il bene, a sua volta non ha padroni, ossia non viene attuato per costrizione, ma per il suo valore intrinseco e per volontà spontanea.
Diventare liberi significa saper dispiegare tutte le potenzialità e le ricchezze comunicate a noi da Dio. Egli è tanto lontano da essere invidioso degli uomini o concorrente della loro libertà, da essersene stato il creatore e il primo garante di essa. Tutta la spiritualità biblica del Nisseno ruota attorno a questa convinzione: l’uomo è nobile proprio perché Dio, a motivo di un amore gratuito e non comprensibile, vuole renderlo partecipe di tutto ciò che possiede. L’uomo di per sé è un nulla ma diventa una creatura estremamente elevata perché Dio lo ammette alla familiarità con sé e lo colloca erede di tutti i suoi beni:
… l'uomo, che è considerato nulla tra le realtà esistenti, cenere, erba, vanità, diviene familiare, venendo adottato in qualità di figlio dal Dio dell'universo. Che cosa si può escogitare che sia degno di questo dono per rendere grazie? L'uomo esce dalla propria natura, divenendo immortale da mortale, incorruttibile da corruttibile, eterno da effimero, e insomma Dio da uomo qual era. Infatti colui che è stato ritenuto degno di diventare figlio di Dio avrà in sé in assoluto la dignità del padre, e diviene erede di tutti i beni paterni. Per amore dell'uomo porta la natura umana, disonorata dal peccato, a essere quasi del suo stesso valore (Beat VII, 2, p. 327)
La convinzione più paradossale ma anche la più normale per Gregorio è proprio questa: per amore dell'uomo porta la natura umana, disonorata dal peccato, a essere quasi del suo stesso valore (homótimon eautô schedòn). Se mi si chiedesse con quale espressione si potrebbe condensare la spiritualità di Gregorio, richiamerei proprio questa frase.
La parola della Scrittura fa emergere ciò che noi siamo in profondità. Detto questo, abbiamo colto il traguardo del nostro percorso umano. Lo possiamo definire variamente: attuazione della nostra aspirazione esistenziale più profonda; conquista della nostra libertà; conformazione a Cristo, assimilazione a Dio. Sono tutti modi diversi di prospettarsi lo stesso bene che è quello del dispiegarsi in noi del disegno creatore di Dio.


Il fenomeno delle passioni


Ora che abbiamo individuato il traguardo, dobbiamo fare attenzione alle tappe da percorrere per conseguirlo e agli eventuali ostacoli da superare. Possiamo riprendere il discorso dall’inizio: chi riceve l’invito di camminare è un uomo infermo come il paralitico. In che cosa consiste, fuori metafora, la nostra malattia diagnosticata come paralisi e come possiamo guarire?
Dentro di noi non dimora soltanto il desiderio del bene ma una molteplicità di aspirazioni e d’impulsi. Ci troviamo nella necessità di operare un discernimento e un certo riordino. Il linguaggio usato da Gregorio per parlare di queste energie purtroppo si presta all’equivoco. Egli chiama passioni sia gli impulsi vitali di per se stessi, sia le manifestazione negative di queste energie vitali; possono essere considerate quali “particolarità della nostra natura” oppure “malattia della nostra volontà” (cf CE III, 63, 29, p. 437). Nonostante l’imprecisione del linguaggio, egli mostra una chiarezza di fondo per quanto riguarda l’analisi del fenomeno. Gli impulsi non sono di per sé negativi perché l’istinto passionale appartiene alla nostra umanità concreta. Possono trascinarci al male ma anche confermare le nostre scelte positive. Del resto Gregorio non poteva disprezzare e condannare la passionalità in se stessa perché, come riconosce, era stata vissuta da Gesù (Qo VII,5, p. 377). Il Vangelo gli attribuisce varie passioni. Esse poi confermano e consolidano il bene a livello della nostra umanità. Bisogna quindi evitare ogni estremismo che nega la passionalità, né proporsi un ideale astratto:
Il Signore chiama beati non coloro che vivono al di fuori della passioni - non è infatti possibile nella vita materiale realizzare una vita immateriale in tutto e per tutto e senza passione.... Non prescrive infatti l'assoluta assenza di passione alla natura umana; neppure si addice a un giusto legislatore ordinare quanto supera il limite della natura: sarebbe come se uno trasferisse gli esseri acquatici a vivere nell'aria o, al contrario, nell'acqua quanto vive nell'aria; è giusto invece che la legge si adatti alla capacità propria dell'uomo e secondo natura (Beat II, 3.3 p. 183).
Tuttavia la presenza in noi delle passioni costituisce da sempre la sfida per chi Fsi propone un comportamento maturo e delle relazioni positive con gli altri. A questo livello, Gregorio si muove come cristiano ma anche come è un uomo civilizzato del mondo tardo antico. Una delle cure principali del filosofo era quella d’insegnare a discernere le passioni non soltanto in modo teorico ma anche aiutando il discepolo a riconoscerle nel loro emergere. Non è strano allora che egli, a sua volta, cerchi di educare o guarire i suoi fedeli. La sua comunità è la sua scuola filosofica e la sua clinica; il cristianesimo diventa filosofia per le masse. L’insegnamento del Vangelo è allora una medicina.
Quando la collera ribolle all'interno, o, a causa del rancore, sfibra il vigore e i pensieri dell'anima, oppure quando una cattiva condotta di vita fa nascere la belva dell'invidia o qualche altro male del genere, colui che sente che la sua anima nutre dentro di sé una belva si serve al momento opportuno del farmaco che distrugge le passioni. Questa medicina è l'insegnamento del Vangelo, affinché, uccisi questi mali, subentri la guarigione per chi era malato. (Qo VI,7 p. 341)
In questo passo, come fa altrove, utilizza le sue nozioni di medicina. Il tema del dominio delle passioni (apatheia, impassibilità) è strettamente collegato a quello della libertà che ho trattato in precedenza.



Lotta nobile e gravosa


La ricerca di questo stato non è una semplice opportunità lasciata alla libera scelta ma un’esigenza basilare. A seconda di come ci si rapporta nei confronti di esse, la nostra umanità impoverisce o s’arricchisce, fino a superare se stessa. L’uomo in balia delle passioni subisce un vero stravolgimento della sua persona: «Chi si lascia prendere dall’ira, finisce col diventare un tutt’uno con essa; chi si lascia vincere dal desiderio, si consegna al piacere; chi viene preso dalla viltà o dalla paura o da qualche altra passione, si conforma ad esse» (CC. IV p. 76). Fortunatamente è vero anche il contrario: «chi acconsente alla pazienza, alla purezza, allo spirito di pacificazione… imprime nella sua personalità ognuna di queste doti e trova la pace nell’assenza di ogni turbamento, grazie alla stabilità della sua persona» (ivi). Se l’uomo si lascia abbandonare del tutto alle passioni negative, finisce con l’annientare la sua stessa umanità. Su questo argomento, il Nisseno è estremamente serio: «Quando ci si sia assimilati alla passione e ci sia trasformati nel male che si sta impadronendo di noi, persa la nostra forma naturale, diventiamo fiere» (ST, II, 14, p. 183).
La ricerca dell’impassibilità non soltanto distingue l’uomo maturo dalla persona che si trova ancora in uno stato di formazione, ma distingue anche il vero credente dal sedicente tale. Il vero spirito di fede non si esprime soltanto nel compiere opere positive, nel fornire delle prestazioni encomiabili ma, prima di tutto, nella trasformazione di se stessi. Senza la correzione di se stessi, condotta in modo continuo, la persona che pur aveva dato una buona immagine di sé, non soltanto smetterà di agire in modo etico ma diventerà operatrice di male. Nel Commento al Pater, immagina che Dio dica all’orante che lo invoca come padre: «Se tu fossi mio figlio, avresti dovuto manifestare le mie qualità divine nella tua vita. In te non ritrovo l’immagine della mia natura; tu ne sei agli antipodi» (PN 2, 4 p. 77). Sebbene il contenuto di questa dichiarazione sia piuttosto perentorio, il suo significato di fondo è vero. Il cristiano diventa una persona animata dalla carità non quando compie delle gesta encomiabili, ma quando elimina da sé il male. Nel valutare le persone, gli uomini danno grande importanza alle abilità professionali o alle prestazioni nel campo della solidarietà o della cultura. Dio dà importanza soltanto alla presenza in noi della vera carità la quale implica, come condizione necessaria, l’eliminazione di ogni sentimento che si contrappone ad essa:
Come la luce in una caverna scaccia le tenebre, la tua volontà in me [o Dio] fa finalmente sparire ogni moto pernicioso o traviato, la temperanza arresta lo smodato slancio dello spirito verso le passioni, l'umiltà scaccia la superbia, la modestia guarisce la malattia dell'orgoglio, l'amore, bene supremo, espelle tutti i mali nemici dell'anima. Così spariranno avversione, invidia, risentimento, tendenza alla collera, suscettibilità, macchinazione, ipocrisia, ricordo delle offese, desiderio di ferire, il ribollire del sangue nel cuore, lo sguardo malvagio: tutta questa ridda di mali abbandona colui che comincia ad amare. (PN 4, 2, p. 95).



Rigenerazione personale e sociale


L’ottenimento della libertà esige una morte per una nuova nascita. Il cammino verso la libertà interiore non presuppone soltanto la capacità di contrastare in qualche misura il nostro ego, trascinato dalle passioni, ma esige una vera morte interiore in vista di una vera risurrezione. «Come mettere insieme bontà e crudeltà, benevolenza ed efferatezza, ciò che si oppone al male e il suo contrario? I contrari sono inconciliabili: scegliere l’uno vuol dire rifiutare l’altro. Chi è morto non è più in vita, chi gode della vita non conosce la morte. Per avvicinarsi alla bontà divina bisogna assolutamente aver bandito dal cuore ogni durezza» (PN 5, 1 p. 107). «Chi vuole dedicarsi al servizio divino non potrà essere un incenso offerto a Dio se prima non sarà diventato una mirra, vale a dire, se non avrà fatto morire le sue membra terrene» (CC VI, p. 118).
La morte di se stesso non significa l’impossibile annientamento della passionalità. Inoltre la cura delle passioni non comporta neppure in modo esclusivo l’impegno del dominio degli impulsi. L’obiettivo soddisfacente sta nel realizzare una vera trasformazione grazie alla quale la persona può dare corso alla passione in modo positivo. «[Salomone nel Cantico] non ci obbliga a soffocare gli impulsi della carne, a uccidere le nostre membra terrene o a eliminare dal nostro linguaggio le parole che sono attinenti ai nostri istinti» (CC I, p. 38). Nessuno può vivere in maniera umana senza essere trascinato da un amore. Il credente non rinuncia alla passione ma la orienta verso un bene adeguato. Il problema non è la passione in se stessa e neppure la sua intensità ma l’oggetto che diventa il nostro interesse più vivo. L’amore puro s’accorda con la passione. Di conseguenza, «se a rivolgerti questo invito è la stessa Sapienza, amala quanto lo puoi, con tutto il cuore e con tutta la forza, desiderala quanto ne sei capace! Anzi aggiungo un invito ancora più audace: amala con passione» (CC I, p. 35). Il dominio sulla passionalità rimarrà sempre precario e, almeno in parte, mortificante, finché la persona non avrà trovato un oggetto tale da meritare di convogliare tutta l’energia d’amore. La forza della volontà si mostra inadeguata; solo una passione positiva ne vince un’altra negativa.
L’impegno per il dominio delle passioni non è cosa facile anche perché assistiamo sempre, per così dire, ad un allargamento degli oggetti sui quali esse s’affissano. La vittoria su una passione, può aprire il varco all’ingresso di altre. Ad esempio, può accadere che chi ha rinunciato alla gratificazione affettiva della relazione sessuale percepisca un vuoto dentro di sé e tenti di colmarlo mirando ad ottenere ruoli che ci forniscono una certa soddisfazione. Vengono evidenziate due modalità di gratificazione: il desiderio di potere e lo sfoggio di un ascetismo rigido, dove l’uomo diventa addirittura «schiavo del dolore».
...bisogna correggere per quanto è possibile le abitudini più in voga: coloro che pur reagendo con vigore contro i piaceri più turpi ricercano il piacere per altre vie, come ad esempio negli onori e nel desiderio di comandare, si comportano pressappoco come il domestico che, desiderando la libertà, non cerca di liberarsi dalla servitù ma si limita a cambiare i suoi padroni, confondendo questo scambio con la libertà. Anche se non hanno gli stessi padroni, costoro sono tutti schiavi in uguale misura, finché c'è qualcuno che li domina e li comanda esercitando su di loro il suo potere (Virg XVII).
Non bisogna credere che Gregorio, come avevano già fatto altri Padri, sottolineando l’urgenza primaria e costante del dominio di sé, abbia spostato l’attenzione dalla trasformazione del mondo, collegato all’annuncio del Regno, al riscatto esclusivo dell’individuo. La lotta per conseguire la libertà personale non è un abbandono della ricerca del bene collettivo tutto a favore di quello individuale. Al contrario è la persistenza delle passioni scomposte nelle persone a creare gravi squilibri e ad impoverire la società nella sua globalità. Dichiara ad esempio: «Non la naturale condizione umana, bensì la prevaricazione, ha scisso l’umanità in schiavi e padroni» (PN, 5, 9 p. 116). Se gli uomini accogliessero, con il Vangelo, la misericordia proposta da Cristo, il mondo cambierebbe aspetto:
Se questo accadesse, non ci sarebbe più motivo di concepire odio: inerte sarebbe l'invidia, bandito il rancore, la falsità, l'inganno, la guerra, tutte cose che derivano dal desiderio di essere superiori. Una volta scacciata quella incapacità di simpatia, con essa, come una cattiva radice, sono escluse le piante della cattiveria. Con l'eliminazione dei mali subentra il catalogo delle cose buone, pace e giustizia e tutta la serie dei concetti che fanno capo al bene. Che cosa ci sarebbe di più beato che condurre così la vita, non affidando più la sicurezza della nostra vita a catenacci e chiavistelli, ma sentendoci sicuri l'uno dell'altro? Come infatti chi è duro e disumano si rende ostili coloro che ne hanno sperimentato la crudeltà, così al contrario tutti, senza eccezione, diventano benevoli con chi è misericordioso, perché la misericordia genera per natura l’amore in coloro che la ricevono… Che cosa si potrebbe concepire, nella vita, che offra una sicurezza maggiore di questa? (Beatit V, 4, p. 266-267)
Gregorio sogna una società che fonda la sua sicurezza non sulla violenza o sull’autodifesa, ma sull’intensificazione dell’esercizio della solidarietà.


dal libro L'amico della parola. Spiritualità biblica di Gregorio di Nissa 

(San Paolo 2014)