martedì 10 dicembre 2013

Spiritualità del Levitico


Dio diffonde la sua santità


1. Il culto


Dio ha fatto uscire Israele dalla schiavitù d'Egitto per creare poi una stabile relazione con lui, per dimorare presso di lui e renderlo partecipe della sua santità. Il Dio Santo, presente in mezzo al popolo, comunica agli uomini la sua santità. Questa dichiarazione sintetizza il significato del culto di Israele e del libro del Levitico. La santità è una qualità attribuita a Dio, con la quale si vuole annunciare il suo essere totalmente altro rispetto a questo mondo. Che cosa significa santità? In che senso Egli è santo?In primo luogo detiene un'autorità universale e assoluta; domina interamente su tutti e su tutto e perciò il sentimento provato da chi si avvicina a Lui è tremore (Sal 99,1; Gen 18,27, Es 20,18-19) ma anche gioia profonda (Sal 97,1). Il tremore deriva dall’ammirazione della sua sovranità e la gioia dal rilevare la grande differenza che c'é tra Lui e gli altri sovrani. Egli si propone soltanto ciò che è bene: «Tu hai stabilito ciò che è retto; diritto e giustizia hai operato in Giacobbe» (Sal 98,4). Il Dio della Bibbia è del tutto etico. Egli è luce e in lui non vi sono tenebre (cf 1 Gv 1,5). «Ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall'alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c'é variazione né ombra di cambiamento» (Gc 1,17). Egli stesso fa risaltare la sua diversità di comportamento da quello degli uomini quando, rivolgendosi al suo popolo che meriterebbe una grave punizione, dichiara: «Non darò sfogo all'ardore della mia ira, perché sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te e non verrò a te nell'ardore della mia ira» (Os 11,9). In altre parole, mentre l'uomo agisce lasciandosi condizionare dalle sue passioni, Dio opera seguendo un rigoroso criterio di giustizia e di rettitudine. Il suo modo di essere e d'agire lo rende un Dio molto affidabile. Se santità corrisponde a piena affidabilità, è ovvio che il sentimento conseguente sia la fiducia in Lui e l'abbandono a Lui: «É in Lui che gioisce il nostro cuore e nel suo santo nome noi confidiamo» (Sal 33,21). «Gloriatevi del suo santo nome: gioisca il cuore di chi cerca il Signore... Ricordate le meraviglie che ha compiuto» (Sal 105, 3.5). Egli vuole arricchire anche gli uomini della sua stessa santità ed, allora, il suo popolo deve essere totalmente altro rispetto alle nazioni circostanti: «Vi ho separato dagli altri popoli, perché siete miei» (Lv 19,26). Il messaggio del Levitico si accorda bene con quello centrale del libro dell’Esodo: il popolo liberato dalla schiavitù passa «dalla servitù al servizio» (come si è espresso G. Auzou). Il servizio si esprime in primo luogo nel culto ma la nuova identità di Israele non si risolve in esso. Israele viene chiamato da Dio ad essere un «regno sacerdotale» e una «nazione santa» (Es 19,6). Se tutto il popolo può esercitare il sacerdozio, questo significa che è tutta la sua vita a diventare culto, servizio divino, attività santa. Offrendo i suoi comandamenti, Dio spiega quale sia il modo con il quale può esercitare il sacerdozio.  «Il diritto biblico unisce diritto sacro e diritto profano. Tutto fa parte del servizio che il regno sacerdotale e la nazione santa rendono al suo Dio. Sparisce in questo modo – in principio almeno – la distinzione fra sacro e profano. Tutto diventa sacro, e non solo gli atti prettamente cultuali»[1]. L'esortazione alla santità, ripetuta più volte nel Levitico (cf 11,14; 19,2; 20,7), viene ripresa dalla lettera di Pietro: «Come figli obbedienti, non conformatevi ai desideri di un tempo, quando eravate nell’ignoranza, ma, come il Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta. Poiché sta scritto: Sarete santi, perché io sono santo. E se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri» (1 Pt 1,14; Cf 1 Ts 4,3-8). Anche in questo caso,  la santità stabilisce una separazione o distinzione (rende stranieri al mondo), ma di nuovo questa consiste in una vita etica. Israele sa che, nel passato, si sono verificate grandi manifestazioni di Dio, come la liberazione dall'Egitto o la sua rivelazione sul monte Sinai, ma normalmente l'uomo non incontra il Signore in questo modo. In via ordinaria la sua presenza è discreta, non visibile e  lo si può incontrare soltanto in un cammino di fede. Il momento più significativo è il culto e il luogo deputato all'incontro è la tenda del convegno, ove il culto si svolge. «Il Signore chiamò Mosé, gli parlò dalla tenda del convegno e disse: "Parla agli israeliti dicendo…"» (Lv 1,1). Il libro del Levitico comincia con queste parole che ho citato. Dopo il Sinai, Dio parla dalla tenda del Convegno. Pone la sua tenda, la sua abitazione, tra le altre che compongono l'accampamento di Israele. Possiamo dire: il Signore intende abitare tra gli uomini e camminare assieme a loro: «Sono andato vagando sotto una tenda in un padiglione» (1 Sm 7, 6-7). Anche oggi il Signore vuole manifestarsi nella nostra vita ed accompagnarci nelle vicende della nostra epoca. La tenda in cui lo incontriamo è Gesù Cristo Risorto, presente nella sua Chiesa, che ha promesso di restare con noi «ogni giorno fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). La primitiva comunità cristiana si mostrava capace di vivere il Vangelo in modo radicale poiché attingeva forza dal culto, nella frequentazione del tempio: «Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio…» (At 2,46; 5,12). I cristiani, volendo aderire a Gesù, ponevano Dio al primo posto, e collocando Dio al primo posto, assegnavano un valore primario al culto. Non può svilupparsi in una vera vita di fede che non tragga la sua linfa dal culto. Dio irradia in noi la Sua Santità cominciando da sé, dalla sua opera e dalla sua azione sacramentale. Come il popolo di Israele si stringeva attorno alla tenda del convegno, non ci stringiamo attorno al Cristo risorto e veniamo trasformati in modo da essere «santi e immacolati davanti a lui nella carità» (Ef 1,4).


Lettera e spirito

Nonostante la prospettiva attraente che ho delineato, il libro del Levitico non suscita molto entusiasmo ma solleva piuttosto  delle difficoltà. Il sentimento di ripulsa sorge dal fatto che nel testo troviamo continui riferimenti a sacrifici cruenti nel tempio e l'imposizione di norme di purità sacrale che ci sono estranee. Certamente i sacrifici cruenti non devono avere alcuna rilevanza per il cristiano, dal momento che sono stati aboliti (cf Eb 10,9) ma non dobbiamo forse, andando oltre le forme storiche in cui si sono espressi, coltivare anche da parte nostra i sentimenti religiosi che furono la base di queste creazioni? Dobbiamo cogliere la dimensione dello spirito presente nella lettera di questi documenti. Ce lo suggerisce la Lettera agli Ebrei, dove il suo autore trae un elevato insegnamento teologico e morale sul sacerdozio di Cristo, proprio esaminando in profondità il significato e l'uso di queste forme religiose antiche. Nell'ambito della rivelazione biblica, la normativa cultuale, riportata in gran parte nel Levitico, non è per nulla secondaria ma, al contrario, detiene un valore primario. Ci troviamo nel cuore della Legge mosaica. Veniamo a conoscere quale sia stato lo scopo della costituzione del popolo di Dio: rendere possibile la partecipazione alla santità di Dio. Poiché essa interessa tutte le sfere dell'esistenza, nel libro del Levitico non troviamo soltanto norme riguardanti il culto ma anche norme di carattere sociale di grande rilevanza e che sorgano da motivazioni religiose (Lv 19,17-19)


Il significato dei sacrifici

Il testo del Levitico parla di una molteplicità di sacrifici (olocausto, oblazione, di espiazione-riparazione, di comunione). Ogni forma presenta uno scopo specifico e una normativa apposita. Prima di osservarli in modo dettagliato, forse dobbiamo chiederci quale fosse il significato che gli uomini antichi attribuivano al sacrificio. Questa pratica religiosa ha interessato tutti i popoli e Israele l'ha attinta dalla cultura comune dell'umanità dell'epoca.Lo scopo generale era quello di stringere una relazione con la divinità[2]. Gli antichi pensavano che le divinità si nutrisero realmente delle carni degli animali sacrificati e degli altri doni presentati. Per questo il momento essenziale dell'atto del sacrificio stava nel bruciare l'offerta, perché allora l'offerente la vedeva salire al cielo, presso le divinità, sotto forma di fumo. Dio gradiva il profumo dell'offerta, come a noi piace odorare i profumi che esalano dalla cucina. Gli uomini offrivano un dono ma erano condizionati da una motivazione di interesse. Do ut des, è la formula lapidaria che esprime bene questo sentimento o questa necessità: dono nella speranza di ricevere un contraccambio. A queste motivazioni se ne poteva aggiungere un’altra: la carne costituisce un ottimo alimento già di per sé, ma la carne di un animale sacrificato avrebbe incrementato ancor di più la vita di chi poteva nutrirsi di questa offerta. Anche il culto di Israele si è mosso lungo queste motivazioni? Probabilmente, sì! (Gdc 6,19-24; Es 25,30) Nella Bibbia, però, troviamo dei forti elementi correttivi di questa convinzione. Vediamone alcuni. 1. Prima di tutto è Dio a prevenire l'iniziativa degli uomini. Nel comandamento che instaura il culto nel libro dell'Esodo, sembra che sia Dio a mettersi in cerca di loro; sia lui a stabilire un momento, un luogo e una modalità con la quale può comunicare loro la sua benedizione: «Farai  per me un altare di terra e sopra di esso offrirai i tuoi olocausti...; in ogni luogo dove io vorrò far ricordare il mio nome, verrò a te e ti benedirò» (Es 20,24). Dio sorprende tutti ed arricchisce in maniera gratuita, colmando di stupore riconoscente. Non è possibile pensare che Dio abbia bisogno degli uomini ma piuttosto che goda di esercitare la sua estrema generosità, come viene precisato in un testo di Sofonia: «Il Signore tuo Dio, in mezzo a te, è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof  3,17). Altri testi si oppongono in modo diretto all'idea che Dio sia interessato ad ottenere i nostri beni, ne abbia bisogno e subisca un danno se non viene onorato. Nel salmo 16, secondo la versione dei LXX, l'orante attesta: «Ho detto al Signore: il mio Signore sei tu, non hai bisogno dei miei beni» (Sal 16,2 LXX). Il salmo 50 in modo ancora più esplicito, dichiara: «Non prenderò vitelli dalla tua casa né capri dai tuoi ovili. Sono mie tutte le bestie della foresta, animali a migliaia sui monti. Se avessi fame, non te lo direi. Mangerò forse la carne dei tori? Berrò forse il sangue dei capri?» (Sal 50, 8-13). Dio non cerca gli uomini per qualche motivo di interesse ma perché vuole essere benefico e generoso nei loro confronti. Lo fa capire in modo preciso il racconto del sogno avuto da Giacobbe, mentre era in cammino per sfuggire alla vendetta del fratello Esaù. Il patriarca è prevenuto dalla provvidenza di Dio e il luogo nel quale lo ha incontra, o meglio nel quale è stato trovato da lui, diventerà in seguito luogo di culto. «Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: "Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo". Ebbe timore e disse: "Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo". La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità» (Gen 28, 16-18). Il patriarca esprime una grande sorpresa. Dio gli si è mostrato amico, oltre ogni su aspettativa. Quel luogo della visita di Dio, diventa uno spazio di culto. Dopo essere stato preceduto dalla iniziativa di Dio, Giacobbe esprime la sua adorazione nella forma di un voto. «Giacobbe fece questo voto: «Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretto come stele, sarà una casa di Dio; di quanto mi darai, io ti offrirò la decima"» (Gen 28,20-22). Il patriarca viene presentato come un modello esemplare per il futuro culto che avrebbero espresso i suoi discendenti. Non possiamo non rilevare come la disposizione di Dio sia totalmente gratuita mente l'atteggiamento del patriarca sia pervaso da chiari elementi opportunità. Del resto difficilmente poteva essere altrimenti. Soltanto il Signore può essere totalmente gratuito da sempre e, nell’uomo, il sentimento di gratuità è una faticosa conquista e in ogni caso l'uomo ha sempre da guadagnare nell'aderire a Dio. 2. Un altro elemento correttivo sta nell'attribuire più valore al sentimento che alla preziosità del dono offerto. Il Levitico presuppone infatti che ci fossero delle persone le quali, dal punto di vista materiale, potevano offrire ben poco, come  tortore o colombi (Lv 14,21-22). Almeno in questi casi, era ben chiaro che l'atteggiamento interiore di adesione a Dio era molto più importante del valore delle cose offerte. «Poca cosa è per te ogni sacrificio, e meno ancora ogni grasso offerto a te in olocausto; ma chi teme il Signore è sempre grande» (Gdt 16,16). Quando Gesù offrirà se stesso, sarà la sua volontà di donarsi, a rendere preziosa agli occhi di Dio la sua offerta (cf. Eb 10,10). 3. In seguito emerse la convinzione che si potevano offrire a Dio doni migliori dei sacrifici. In Israele, «il re era incaricato del culto così come era responsabile della giustizia»[3]. I profeti sollevarono, allora, delle critiche severe, quando videro che i sovrani adempivano bene una delle loro funzioni, quella di promuovere il culto nel tempio ma trascuravano l’altro compito principale, quello di favorire la giustizia. Vivere rettamente costituiva l’atto di culto migliore davanti a Dio. Questa convinzione non si affermò senza contrasto e in ogni caso i sacrifici non vennero mai aboliti. Osserviamo come affiori questa diversità di opinioni. Incontriamo dei credenti che esprimono la loro volontà di offrire a Dio dei sacrifici, soprattutto per ringraziarlo in modo degno. L'offerente più convinto compare nel salmo 66: «Entrerò nella tua casa con olocausti, a te scioglierò i miei voti, promessi nel momento dell'angoscia... Ti offrirò grossi animali in olocausto» (13.15). Allo stesso modo si esprimno altri fedeli (Sal 26,6; Sal 116,17). Differentemente, l'autore del salmo 50, dopo aver criticato l'opinione che Dio abbia bisogno di essere nutrito dalle carni dei sacrifici e aver richiamato la necessità della coerenza tra culto e vita, auspica una nuova forma di culto: «Offri a Dio come sacrificio la lode e sciogli all'Altissimo i tuoi voti; invocami nel giorno dell'angoscia: ti libererò e tu mi darai gloria» (Sal 50,14-15). In questo testo, la preghiera, in cui compaiono espressioni di lode o di supplica, viene preferita ai sacrifici cruenti. Qui rileviamo un nuovo modo di pensare che attenua l'entusiasmo troppo forte di altri fedeli per le forme consuete, senza però auspicare il loro annullamento. Il testo del salmo 51, invece, offre spazio ad entrambe le opinioni. La forma tradizionale emerge là dove il salmista si augura che, al termine dell'esilio, a ricostruzione avvenuta delle mura di Gerusalemme, sia ripristinato anche l'uso di offrire sacrifici nel tempio. Tuttavia, dal momento che questo culto non poteva essere esercitato in terra d'esilio, il salmista accoglie ben volentieri un altro genere di offerta: «Uno spirito contito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto, tu, o Dio, non disprezzi» (Sal 51,19). Un passo del libro di Daniele si muove nella stessa direzione: «Ora non abbiamo più né olocausto, né sacrificio... né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori, come miglia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te  ti sia gradito...» (Dn 3, 38-40). Queste analisi sommarie, mostrano come il culto sacrificale incontrasse dei ridimensionamenti. Alcune delle perplessità che noi abbiamo di fronte ai sacrifici cruenti, erano già state contemplate nella Bibbia.
Il significato del sacrificio per noi, oggi
Qual è il senso, allora, che possiamo attribuire al sacrificio? In realtà la domanda che ci rivolgiamo può essere formulata in questo modo: come possiamo trasporre per noi, nel nostro tempo, il contenuto spirituale espresso in quei riti che per noi ora sono insignificanti? Il sacrificio rappresenta un dono che noi facciamo a Dio. Tutto il valore del nostro donare, però, è di per sé molto limitato. Più che donare a Lui, noi restituiamo, poiché tutte le cose che doniamo a Dio, infatti, le abbiamo già ricevute in precedenza da lui. Inoltre non possiamo realmente solidarizzare con lui soccorrendolo in certe sue necessità, perché egli già possiede tutto. Possiamo allora offrire realmente qualcosa?  Ci dobbiamo rassegnare soltanto a rilevare l'enorme differenza tra il dono di Dio e il nostro dono di ricambio? Davide, animato dallo Spirito Santo, non volle offrire a Dio qualcosa che non gli costasse nulla (2 Sam 24,24). Le cose preziose da offrire che  possono costarci molto non le troviamo passando in rassegna i migliori sentimenti né i migliori doni. Le troviamo quando, distogliendo lo sguardo dalle corse intorno a noi, lo dirigiamo verso noi stessi. Qui troviamo una materia per il sacrificio che può essere molto pregevole. Il dono massimo che possiamo offrire a Dio è la consegna a lui della nostra volontà nell'atto dell'obbedienza. Nulla è nostro e ci appartiene in modo vivo come il nostro volere. Anzi soltanto la nostra volontà ci appartiene, anche la stessa possibilità di volere (il libero arbitrio), è un dono di Dio. È il Signore il creatore è il garante della nostra libertà tuttavia l'esercizio del volere dipende anche da noi. Ora il sacrificio migliore che possiamo offrire a Dio è l'esercizio della nostra obbedienza, vissuta con un sentimento di gioia, di riconoscenza, di fiducia, di abbandono al Signore. In questo tipo di sacrificio troviamo l'essenza della spiritualità ed l'atteggiamento che rende concordi tra loro Antico e Nuovo Testamento. È l'insegnamento che il profeta Samuele rivolge al re Saul: «Il Signore gradisce forse gli olocausti di sacrifici quanto l'obbedienza alla voce del Signore? Ecco obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è meglio del grasso egli arieti» (1 Sam 15,22). Che cosa significa in fin dei conti imparare l'obbedienza? Significa che Dio desidera e vuole la nostra maturazione e il nostro ritorno ad essere conformi alla sua immagine. Egli non ci priva di nulla ma ci restituisce a noi stessi. Il culto è l'atto con cui con la nostra persona aderiamo a Dio, ci incolliamo a lui per non perderci nel nulla ma continuare a vivere, anzi per guadagnare pienezza di vita. «A te stringe l'anima mia che la tua destra mi sostiene» (Sal 63,9). È ciò che Dio ricorda Geremia proponendogli il segno della cintura: «Come questa cintura aderisce ai fianchi di un uomo, così io volli che aderisse a me tutta la casa di Israele perché fossero mio popolo, mia fama, mia lode e mia gloria, ma non mi ascoltarono» (Ger 13,11). Ecco, in questo sta il significato del culto. Se Dio ci arricchisce in modo straordinario anche per un piccolo dono che gli abbiamo offerto, quanto più riverserà su di noi la ricchezza della sua grazia quando gli avremmo offerto un dono più impegnativo! «Apri la tua bocca, la voglio riempire!… Se il mio popolo mi ascoltasse! Se Israele camminasse per le mie vie! Lo nutrirei con fiore di frumento, lo sazierei con miele dalla roccia» (Sal 81,11 ss).  Pensiamo al sacrificio di Abramo a proposito di Isacco e alla promessa con cui Dio intendeva ricompensarlo (Gen 22,16). Ma dovremmo piuttosto pensare all'obbedienza di Gesù e al risarcimento ottenuto dal Padre con la sua resurrezione. Un dono fatto a Dio, anche quando sia offerto nello spirito di gratuità più sincero, ottiene sempre molto di più di quanto si rinuncia e di quanto si spera di ottenere. «Il Signore è uno che ripaga e ti restituirà sette volte tanto» (Sir 35,13; cf 2 Cor 9,6.10).



La molteplicità dei sacrifici e la loro ripetitività

Abbiamo visto qual era il significato dell'atto del sacrificio in se stesso. Il Levitico poi descrive una molteplicità di atti sacrificali ma il rituale dei sacrifici non cambia molto e segue un modello fisso. 
1. Essi, in genere hanno un carattere volontario e sono celebrati con grande gioia e generosità: «Quando qualcuno di voi vorrà presentare...» (Lv 1,2). 
2. L'offerente non compie il rito in qualsiasi luogo ma in quello designato da Dio (Lv 17,1-10; cf Dt 12, 13 [2-12]) e non agisce da solo ma con la collaborazione dei sacerdoti e di altri. Il sacrificio avviene, quindi, in un contesto comunitario. 
3. L'offerente impone la mano sulla vittima e poi la immola. Ogni fedele, quindi, agisce in prima persona e viene coinvolto in modo diretto nella celebrazione. 
4. Il sacerdote subentra poi esercitando il suo ruolo proprio: raccoglie il sangue e compie con esso i gesti purificatori prescritti. Asperge il velo che sta davanti al Santo e versa il sangue alla base dell'altare. 
5. Segue l'atto principale: la vittima offerta viene consumata dal fuoco. Nell'olocausto viene bruciata ogni membra dell'animale ma in altri sacrifici solo il grasso. Nei casi previsti, sacerdoti e fedeli possono mangiare le altri parte dell'animale.  

Riflettiamo ora sui singoli elementi elencati. Hanno grande valore la volontarietà e la generosità. Nel tempo della costruzione del tempio, il re Davide chiede al popolo: «Chi vuole ancora riempire oggi la sua mano per fare offerte al Signore?» (1 Cr 29,5). L'atto di offerta, anzi il culto in genere è caraterizzato da un sentimento di gioia (cf 1 Cr 13,8); la stessa preziosità o sovvrabbondanza di vittime hanno valore se stanno a garantire il carattere di spontaneità e di generosità (cf 1 Cr 29,9; 2 Cr 5,6). Lo stesso atteggiamento viene ripreso nel Nuovo Testamento. Gesù ribadisce la volontarietà dell'atto del porsi alla sua sequela (Lc 14,25-33). San Paolo, organizzando una colletta a favore dei poveri, vuole che sia una vera offerta e non come una grettezza (cf 2 Cor 9,5). Apprezza l'entusiasmo e la generosità dei Macedoni, i quali hanno dato secondo i loro mezzi e anche di là dei loro mezzi, spontaneamente (2 Cor 8,3). L'offerente poi doveva imporre le mani sul capo dell'animale destinato al sacrificio per segnalare che nell’offerta di quel dono egli metteva tutto se stesso. Nella vita di fede è sempre necessario questo momento personale di consapevolezza e di adesione già convinta: «O Dio, sei tu il mio Dio» (Sal 63,2). Il credente deve formulare questo pensiero: mi trovo all'interno di una comunità, sono fra tante persone ma non vengo trascinato da loro, non obbedisco ad un flusso impersonale. Non esiste vera relazione di fede che non sgorghi dalla profondità della persona e dalla sua libertà. In questo contesto emerge anche un altro aspetto. L'offerente, partendo da un' istanza che nasce dalla profondità del cuore, da una scelta personale, esprime la sua fede in un ambito comunitario. Ciò interessa anche la nostra fede cristiana. «È impossibile credere da soli. La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è rapporto isolato tra l’”io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al “noi”, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa. La forma dialogata del Credo, usata nella liturgia battesimale, ce lo ricorda. Il credere si esprime come risposta a un invito, ad una parola che deve essere ascoltata e non procede da me, e per questo si inserisce all’interno di un dialogo, non può essere una mera confessione che nasce dal singolo. È possibile rispondere in prima persona, “credo”, solo perché si appartiene a una comunione grande, solo perché si dice anche “crediamo”»[4]Il fatto che l'offerente sia lui stesso a immolare l'animale, è un altro particolare che ci ricorda l'opportunità che ogni persona nella comunità sia coinvolta nel servizio a Dio. Non solo l'adesione al Signore deve provenire da una scelta personale convinta ma bisogna anche che nella celebrazione cultuale, ogni componente del popolo di Dio svolga il suo ruolo. Non soltanto nel rito ma anche in tutta la vita della comunità. Ognuno deve svolgere la sua funzione specifica. «Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta al servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 4,11). Dopo l'uccisione della vittima, il sacerdote ne versava il sangue alla base  dell'altare. Compare l'importanza del sangue come espressione della vita stessa dell'animale e viene sacrificato (Lv 17,11). Sia il sangue, sia il suo versamento alla base dell'altare, sono gesti che vengono ripresi e approfonditi nell'ambito del nuovo testamento. È la lettera agli Ebrei a rilevare l'importanza del sangue: «Secondo la legge, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue, e senza spargimento di sangue non esiste perdono. Era dunque necessario che le cose raffiguranti le realtà celesti, fossero purificate con tali mezzi» (Eb 9,22-23). Qual è la realtà celeste a cui allude il passo citato? Essa veniva già esposta al versetto dodici: «Cristo è entrato una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 9,11-12). Gli uomini hanno offerto a Dio la vita di animali che erano in realtà un dono che egli aveva già concesso loro perché potessero nutrirsi e vivere. Dio invece, ha donato agli uomini se stesso nel suo Figlio amato. Questi non ha tolto la vita a nessuno ma ha offerto tutta la sua persona per difendere la causa di Dio e quella degli uomini. La sua fedeltà, espressa in modo concreto nello spargimento del suo sangue, ora rende capaci anche noi di offrire a Dio il nostro sacrificio. Il suo sangue infatti purifica la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente (cf. Eb 9,14). Ecco dove giunge la preziosità del sangue. «Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio» (1 Pt 1,18-21). Il gesto del versamento del sangue alla base dell'altare, viene ripreso e valorizzato dal libro dell'Apocalisse: «Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?». Allora venne data a ciascuno di loro una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro» (Ap 6,9-11). Le anime degli uomini immolati sono state già collocate sotto l'altare. L'autore quindi mette in scena una folta schiera di martiri. Essi rappresentano non soltanto i cristiani uccisi  all'epoca contemporanea all'autore (forse un'allusione ai fedeli uccisi nel corso della persecuzione di Domiziano) ma i martiri di ogni epoca; anzi rappresentano tutti i discepoli di Cristo che hanno versato il loro sangue nella fedeltà eroica esercitata nello svolgimento della loro missione. La supplica ardente e gli uccisi che sollecita l'azione di vendicatrice di Dio, la stessa offerta della loro vita, le loro preghiere e le loro intercessioni hanno un valore sacrificale. La supplica, rivolta nello stile imprecatorio dei salmi, infonde la sicurezza che  tutte le vittime della storia non sono affatto dimenticate da Dio. Anzi rivelano che la preghiera delle vittime, come anche la preghiera della Chiesa, rappresenta una forza determinante della storia. «Al loro ardente desiderio la risposta di Dio è rappresentata dal dono della veste bianca, simbolo della partecipazione personale alla risurrezione. È meglio immaginare che la scena evochi i giusti in genere, uccisi perché attaccati alla loro fede: l'evento di Gesù Cristo è il culmine di questa tragica storia e risposta piena all'umanità in attesa»[5]. Dopo aver osservato questi elementi comuni, vediamo ora le caratteristiche specifiche di alcuni sacrifici particolari.




L'olocausto

Il senso di Olocausto, (olah, letteralmente "ciò che sale") è reso meglio dalla traduzione greca dei LXX con holokautoma che significa "ciò che è interamente bruciato". L'uso di tale tipo di sacrificio appare nell'episodio della sfida di Elia con i sacerdoti di Baal ( 1 Re 18, 21-39). Questo tipo di sacrificio non era particolarmente costoso ma le regole dei sacrifici garantivano a tutti i fedeli la possibilità di accedere agli atti del culto. Piuttosto si doveva fare attenzione che l'animale fosse senza difetto. «Come ai potenti della terra gli offre il meglio, così bisogna fare con Dio». L'offerente desiderava compiere qualcosa che sarebbe risultato gradito a Dio. Liberata dal circolo del contraccambio (do ut des), questa preoccupazione segnala uno spirito religioso profondo. Essere graditi a Dio è il vero sogno è l'unico interesse dell'uomo di fede. L’autore della lettera agli Ebrei lo esprime nell'augurio-invocazione rivolta a i destinatari dello scritto: «Il Dio della pace vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando ciò che a lui è gradito per mezzo di Gesù Cristo» (Eb 13,21).Parliamo ora nel momento culminante del rito dell'Olocausto. Il sacerdote depone sull'altare le parti dell'animale già ucciso e le brucia totalmente, quale soave profumo per il Signore. Consideriamo l'elemento del fuoco perché esso ha avuto una grande rilevanza nella stessa Sacra Scrittura e poi nella spiritualità. Nel corso del sacrificio con cui venne inaugurato il culto, non appena Mosè e Aronne avevano terminato di benedire il popolo, «un fuoco uscì dalla presenza del Signore» (Lv 9,24). In questo caso è Dio stesso ad inviare il fuoco necessario per bruciare le vittime. Il fatto si ripeterà altre volte, in altre riprese del culto dopo interruzioni forzate (cf 2 Cr 7,1). Questo gesto sta a indicare che Dio gradisce le pratiche religiose del tempio. Il popolo comprende bene il significato di questa azione divina e vi risponde con l'atto di prostrazione, compiuto in grande esultanza. Tuttavia mi pare che la discesa del fuoco detenga anche un altro significato. La vittima veniva bruciata perché essa potesse salire fino a Dio. Trasformata in un filo di fumo, saliva in alto, perdendosi tra le nubi. Ma come può un’offerta compiuta dall'uomo sulla terra possedere la forza per salire in alto presso Dio stesso? Che cosa possiamo fare che sia davvero adeguata alla sua Santità? Quale preghiera potrà essergli gradita, visto che noi non sappiamo neppure che cosa sia conveniente domandare (Rm 8,26). San Paolo insegna che noi, per così dire, possiamo salire fino a Dio perché egli ha inviato fino a noi il suo stesso spirito. Soltanto grazie alla presenza dello Spirito possiamo colmare la distanza che sussiste tra noi e Dio padre. «I segreti di Dio nessuno li ha conosciuti se non lo spirito di Dio. Ora noi abbiamo ricevuto lo spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor 2,11-12). Soltanto grazie al fuoco che scende dall'alto e ci investe, noi possiamo ascendere fino a Dio e formulare una preghiera adeguata, quella propria dei figli. Infatti Dio non vuole ascoltare un qualsiasi parlare, neppure il più profondo e toccante, ma vuole che escano da noi le parole e i sentimenti del suo Unigenito Figlio. Gesù, nella sua vita e nella sua preghiera, è stato condotto dallo Spirito e lo stesso Spirito ora viene comunicato a noi affinché, dopo aver incendiato i nostri cuori, esprimiamo con le nostre labbra la preghiera stessa del Cristo. Talora nel nuovo testamento la mozione interiore dello spirito viene sviluppata nel simbolo del fuoco. «Non ardeva forse il nostro cuore mentre egli conversava con 1 lungo la via quando si spiegava la scrittura? » (Lc 24,32). C'è una corrispondenza tra questa domanda formulata dai discepoli di Emmaus con la traduzione greca di un versetto del salmo 39 che fu molto amato dai Padri della Chiesa. In questo contesto il salmista dichiara: «nella mia meditazione è divampato un fuoco». Non dobbiamo dimenticare che nel Nuovo Testamento il fuoco richiama anche il giudizio e quindi la necessità della purificazione. Questo esercizio di purificazione è associato all’immagine del crogiolo. Dio è fuoco divorante (cf. Eb 12,29) e Cristo Risorto ci scruta con occhi di fuoco (cf Ap 1,14). A confronto della sua santità, anche chi, stoltamente, si riteneva un giusto, si rende conto di quante scorie trattenga ancora in sé e quanto egli sia deturpato. Di fronte allo sguardo di Dio, l’uomo modifica la valutazione che dava di sé, anzi rinuncia a valutarsi (cf 1 Cor 4,3). Si consegna alla fiamma di Dio perché soltanto lui può liberarci da tutte le scorie. Il fuoco dell’olocausto, divenuto ora fuoco dello Spirito, si tramuta in una graduale trasformazione nell’amore. «Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà» (1 Pt 1, 6-7). Nella storia della spiritualità, ricevere il fuoco viene inteso come un lasciarsi afferrare dall’amore di Dio: «Il fuoco che prende un bosco secco difficilmente si spegne; così se il fervore che è in Dio penetra nel cuore [di chi si converte], le sue fiamme non possono essere spente, ed è più potente anche del fuoco» (Isacco Di Ninive, Un’umile speranza, Qiqaion, Magnano 1999, p.222). In ogni caso la purificazione che rende l’uomo un vero olocausto, esige tempo. Si avvera qui il comando che esige che il fuoco dell’olocausto deve essere permanente (Lev 6,6). La liberazione dalle scorie avviene solo con gradualità. Lo attesta Eckhart: «II desiderio di Dio è di donarsi completamente  a noi. Accade lo stesso quando il fuoco vuole attirare il legno verso di sé e introdursi in esso: all'inizio trova che il  legno è dissimile da sé, e per questo ci vuole del tempo. Prima rende il legno caldo e bruciante, e questo fuma e scricchiola, perché è differente dal fuoco. Poi, più il legno arde, più diviene calmo e tranquillo; più è simile al fuoco e più si acquieta, fino a divenire in se stesso completamente fuoco. Perché il fuoco possa assorbire in se stesso il legno, occorre che scompaia ogni disuguaglianza» (Sermoni 11,3, tr. M. Vannini,  Paoline, Milano 2002 p. 164).




L’oblazione


L'olocausto era considerato il sacrificio più importante. Oltre a quello, è possibile anche fare un dono che non comporta l'uccisione di animali, ossia l'oblazione (minchà). L'oblazione era un' offerta di prodotti del suolo: fior di farina e olio accompagnati da incenso; focacce azzime impastate con olio e altri preparati culinari simili.  Una parte veniva bruciata sull'altare come memoriale, il resto spettava ad Aronne e ai suoi figli. L'oblazione non doveva mai essere lievitata, essendo il lievito simbolo di corruzione, né doveva mancare sulle offerte il sale dell'alleanza a cui si attribuiva valore purificatorio. Portando un' offerta, il fedele voleva ricordarsi del Signore, come suo memoriale  (Lv 2,2), fare qualcosa che fosse di gradimento al Signore, compiuto in suo onore (Lev 2,9. 12). Gli offerenti sentivano la necessità di ringraziare il Signore per i doni che costantemente elargiva loro attraverso i beni della creazione, come faceva Abele (Gen 4,4). In seguito, gli israeliti offrivano le primizie del suolo per riconoscere che se, potevano godere dei prodotti della terra, questo era stato reso possibile dall'amore di Dio perché li avevano ricevuti da lui. Egli è stato il loro Creatore ma anche il loro Redentore. Dio ha creato i beni della terra mettendo a loro disposizione e li ha liberati dall'Egitto perché potesse goderne realmente (Dt 26,1-12). L'offerta delle primizie nasce da un sentimento fondamentale per la fede e lo alimenta : riconoscere che il Signore ama in modo concreto, in modo permanente e che questo amore lo si può verificare di fatto anche al presente. Questa consapevolezza, quando è convinta, suscita un sentimento di gloria di sollievo e apre alla condivisione con gli altri dei nostri beni. Come si riceve, così si dona anche agli altri: posso elargire perché sono sicuro che riceverò ancora. Non ha bisogno di trattenere per me o di accumulare. Non devo garantirmi fino a diventare indifferente verso gli altri. Quale può essere, ora, l'oblazione del cristiano? In primo luogo è alimentare il ricordo di Dio, un ricordo riconoscente. Tutti noi dobbiamo a Dio noi stessi due volte: siamo stati creati e redenti. Abbiamo ricevuto l'esistenza e la pienezza della vita. Siamo venuti al mondo ma ancora di più siano stati rigenerati nell'acqua e dello Spirito Santo (cf Gv 3,5). Anzi, «nessun vantaggio per noi essere nati, se lui non ci avesse redenti» (Preconio pasquale). La redenzione, un dono molto più rilevante del primo, ci aiuta ad apprezzare meglio la stessa vita. La redenzione restituisce l'integrità della creazione e rende possibile un'esistenza vivibile e piena. Ora che siamo stati salvati dei mali dell'esistenza, ringraziamo per il dono della vita. La prima oblazione è dunque per noi cristiani il senso di riconoscenza, alimentato dal ricordo del Signore. La seconda oblazione consiste nella preghiera esplicita di ringraziamento. Il dono della vita lo riceviamo concretamente nella possibilità quotidiana di alimentarci. Gesù prega prima del pasto. Riconosce che gli uomini ricevono la vita da Dio Padre in continuazione. Il cibo è frutto del lavoro dell'uomo ma l'uomo può solo trasformare una materia che riceve da Dio, prima che cominci ogni sua fatica. Nella Bibbia l'alimento, il frutto della terra, è inteso come una testimonianza perenne dell'amore generoso di Dio (At 14,14). Mentre gli uomini trascurano il ricordo di Dio e tendono a porlo ai margini della loro esistenza, Dio continua a dare prova di sé e della sua generosità. La preghiera di riconoscenza, prima di ogni pasto, è un atto in controtendenza. Il credente non mangia soltanto ma, mentre si alimenta, conosce la gioia di essere amato si predispone a condividere con gli altri i doni ricevuti. Gesù ha associato il ringraziamento per la vita fisica al ringraziamento per quella pienezza di vita che ha come caratteristica specifica di essere eterna. Eterna  non significa soltanto immortale, ma un'esistenza qualificata da una ricchezza insondabile. Gesù prende il pane nelle sue mani, ringrazia Dio, condivide il pane insieme agli altri uomini suoi fratelli ma ringrazia soprattutto di poter diventare per loro un pane, un cibo che alimenta, sazia ma anche guarisce. La prima medicina sta in una sana alimentazione e il pane del Signore guarisce perfino dalla morte. Il suo gesto unisce creazione e redenzione. Noi non riceviamo soltanto l'alimento per questa vita ma anche un cibo di vita eterna. Ora introduciamo il discorso sulla terza forma di oblazione del cristiano. Gesù ringraziando il Padre per il pane si predispone a diventare lui stesso cibo, pane per noi. La vita fisica che alimenta per il suo sostentamento vuole che diventi un dono per gli altri. Questo sentimento del Signore rende possibile comprendere il senso più profondo della nostra oblazione, della minchà del cristiano. Il meglio che possiamo offrire a Dio è noi stessi, la nostra persona che si dona a lui a vantaggio dei fratelli. L'atteggiamento interiore del quale stiamo parlando, lo troviamo esposto nel modo più esplicito nel salmo 40. Tuttavia perché questo salmo è stato ripreso dall'autore della Lettera agli Ebrei e applicato a Cristo, è opportuno rimeditarlo all'interno di questa nuova interpretazione. Il salmista intende ringraziare Dio per i benefici innumerevoli ricevuti dal lui. A questo scopo si reca al tempio animato dall'intenzione di offrire un sacrificio di lode. L'offerente però sembra mostrare una certa esitazione. Egli vuole compiere un gesto di ringraziamento che susciti il gradimento Dio. Si trova come di fronte ad un bivio: da una parte sussiste la tradizione dell'offerta d'oblazioni o di olocausti, dall'altra i profeti hanno insegnato un po' che Dio preferisce doni di altro genere. L'offerta più grande che egli può donare a Dio è la disponibilità piena ad obbedire a lui. L'ho già rilevato più volte nel corso di queste riflessioni. Il salmista, allora, oltre ai doni da offrire, porta con sé uno scritto in cui dichiara il fermo proposito di obbedire al Signore. Dichiara di voler sottostare alla volontà di Dio, nell'adempimento dei precetti. La sua non è una sottomissione forzata, provocata dalla paura, e neppure una soluzione escogitata per conseguire un secondo fine. Corrisponde piuttosto ad un suo vivo desiderio (questo io desidero) e questo suo desiderio corrisponde alla sua stessa persona. È un' aspirazione radicata in lui, come se egli non fosse altro che questo desiderio. Mai si è passati in modo più chiaro dall'offerta di cose o di animali all'offerta e al dono di se stessi. Per l'autore della Lettera agli Ebrei, non si trova nei testi biblici nulla di meglio che ci apra alla interiorità di Gesù e alla sua spiritualità. Il salmista anticipa quello che sarà l'atteggiamento di Gesù. La scelta che il salmista si propone nel recarsi al tempio, Gesù se la propone nel cielo, proprio nel momento in cui decide di svuotarsi di se stesso, per entrare in questo mondo. Il Padre gli crea un corpo con il quale egli, vivendo in questa vita mortale, possa offrire se stesso a Lui, a vantaggio degli uomini. Ora l'offerta migliore possibile in assoluto è questa disponibilità alla generosità estrema attuata dal Figlio di Dio. Parlando alla maniera umana, possiamo dire che il Padre è stato entusiasta e colpito da questa capacità di amore che non è altro che una copia fedelissima della sua bontà. «Cristo ci ha amato gli ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2). L'esistenza di Gesù è stata qualificata da questa grande capacità di vivere l'amore totale per i fratelli. È questo fatto che Dio Padre ha gradito in maniera somma. Questo è stata l'oblazione straordinaria di Gesù, preparata da altre oblazioni simili nell'Antico testamento e seguite da altre ancora che l'hanno imitata nel Nuovo testamento.  In un passo del libro del Siracide viene messo in risalto il fatto che l'uomo giusto, fedele ai comandamenti, vivere un'esistenza che presenta lo stesso valore di un sacrificio: «Chi osserva la legge vale quanto molte offerte; chi adempie i comandamenti offre un sacrificio che salva. Chi ricambia un favore offre fior di farina, chi pratica l'elemosina fa sacrifici di lode. Cosa gradita al Signore e tenersi lontano dalle ingiustizie» (Sir 35,1-5). Nel Nuovo Testamento troviamo suggerimenti analoghi, anche se in questo tempo, più che obbedire alla Legge, si preferisce seguire il modello offerto da Gesù: «Camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato» (Ef 5,2). Paolo, ringraziando i Filippesi per il sostentamento economico ricevuto da loro, non esita a paragonare gli aiuti ricevuti a ad una offerta cultuale: «Sono ricolmo dei vostri doni che sono un piacevole profumo, un sacrificio gradito che piace a Dio» (Fil 4,16). L'autore della Lettera agli Ebrei conferma questo messaggio: «non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perché di tali sacrifici di loro si compiace» (Eb 13,16). Non dobbiamo però con questo trascurare il valore del culto in se stesso e della preghiera. Il sentimento del ringraziamento a Dio per i doni ricevuti conduce l'offerente a donarsi a Dio e ai fratelli. Ringraziando per il pane ricevuto, Cristo si propone di diventare un pane per gli altri. Non è strano allora che la stessa preghiera sia stimata come un'oblazione: «Offriamo continuamente a Dio, per mezzo di Cristo, un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome» (Eb 13,15). Questa lode e questo ringraziamento ci rapiscono in Dio il quale, mediante il suo Spirito, ci farà passare dall'offerta di doni e di preghiere, al sacrificio di noi stessi affinché le nostre persone diventino un dono.
Esemplificazioni
Dal momento che ho fatto riferimento al  valore spirituale dell’olocausto e dell’oblazione, vediamo come il contenuto di questi sacrifici possa coinvolgere la nostra vita. La cosa più costosa per una persona è sempre quella di convertire se stessa. Togliere da noi tutto ciò che ci separa da Dio o può affievolire la nostra comunione d'amicizia con lui! Spesso preferiamo impegnarci in azioni che sono più eclatanti, che sono soltanto apparentemente più impegnative e generoso mentre rifiutiamo di donare a Dio quello che ci chiede in realtà e che ci può sembrare invece, una cosa da nulla. Dio preferisce la monetina della nostra conversione, all'offerta molto risonante di tante attività appariscenti che spesso sono svolte per soddisfare il nostro ego. Donargli l'impegno che costa i liberarci da una tendenza negativa (quale la facilità a chiedere al risentimento, quale la ricerca di una posizione di vantaggio, l'attaccamento al denaro, le concessioni alla sensualità) è come offrire l'obolo della vedova. Insignificante agli occhi degli uomini ma preziosa davanti a Dio Padre (Mc 12,41-44). Dio richiede da noi un cambiamento di rotta al punto di navigazione dove abbiamo deviato: «Con ciò con cui hai perso i beni, con quello stesso devi riacquistarli. Tu devi a Dio una monetina? Non accetterà da te una perla al suo posto» (Isacco di Ninive, Un’umile speranza, p. 124)Facendo qualche altra osservazione sul sacrificio costoso, possiamo pensare al valore di doni che sono irrilevanti sul piano della produttività, in quanto non sono immediatamente traducibili in risultati visibili a livello pastorale o sociale, ma possono essere fecondi in profondità. Mi riferisco, a titolo di esempio, al valore della castità e della continenza, scelti nella promessa del celibato o nel volto di verginità. Ugualmente sono fecondi a livello del ministero, non certo a livello visibile, la sopportazione di una malattia, la sottomissione alle vicende dolorose della vita che si prestano all'improvviso; [la vita stessa di un eremita, condotta nel silenzio e nella dimenticanza di sé]. Sulle vicende dolorose della vita, osserva Isacco di Ninive: «Amico della virtù non è colui che opera diligentemente cose belle, ma colui che accoglie con gioia le cose cattive che hanno comunione con lui» ( Isacco di Ninive, Un’umile speranza, p. 135). In conclusione, è possibile offrire a Dio sacrifici di valore. Tuttavia anche in questo caso dobbiamo sempre ricordare che restituiamo a lui ciò che egli ci ha dato in precedenza. Noi offriamo qualcuno tra i beni che ci ha dato, ma Lui ci dona sempre in cambio se stesso, anzi ha già cominciato a donare se stesso a noi quando ha risvegliato in noi  il desiderio del donare.




Il sacrificio d'espiazione

È un atto cultuale compiuto per ottenere il perdono dei peccati e rappresenta il momento centrale della celebrazione del grande giorno dell'espiazione:  Yom Kippur (Lv 16). Il significato di espiazione (asam), nella Bibbia, è molto diverso da come veniva intesa nell’antichità e da come la intendiamo ora. Gli antichi la facevano consistere nello sforzo di trarre dalla propria parte la potenza misteriosa e spesso funesta delle divinità, per guadagnare il loro appoggio. Ritenendo d’essere minacciati dall'ira (spesso ingiustificata) e dell'invidia degli dèi, cercavano di ingraziarsi le divinità con atti di culto, con riti di purificazione, perfino con sacrifici umani o di animali. Venivano persino sacrificati delinquenti comuni proprio per conquistarsi il favore delle divinità. Per noi l’espiazione, più semplicemente, è scontare una colpa attraverso la pena o il castigo. È quanto pensiamo dovrebbe pagare una persona colpevole per un atto criminoso o per un danno provocato. Dal punto di vista del colpevole, è la sopportazione coatta di una sofferenza che viene inflitta a scopo punitivo. Talora la condanna per l’espiazione, può ridursi in realtà ad una vendetta, ammantata di giustizia. Vediamo ora il concetto biblico. Il peccato, traducendosi in un atto di malizia che deteriora i rapporti col prossimo, apre un contenzioso tra persone umane ma anche tra Dio e l'uomo. Ogni volta che una persona danneggia un'altra, colpisce anche Dio che si sente coinvolto. Nei rapporti tra gli uomini, la riparazione è necessaria e corrisponde ad un risarcimento adeguato al danno (Lv 5,20-24). Ma come rapportarsi con Dio? Come dare una riparazione a Lui e ottenere il suo perdono? Qui interviene l'espiazione, che possiamo paragonare ad una multa. Essa viene a sostituire una punizione che risulterebbe troppo dura. Il rito di espiazione viene allora introdotto non per placare Dio (che non nutre mai sentimenti d’ostilità), ma per dare all'uomo un'occasione di ravvedersi. Il Signore non prova sentimenti ostili verso gli uomini, neppure verso i colpevoli, ma sono gli uomini a dover mettersi in un giusto rapporto con Lui. Dio si colloca in primo luogo dalla parte della vittima (soprattutto se ha subito violenza), come nel caso di Abele ma anche dalla parte dell'aggressore, come nel caso di Caino. Infatti anche l’aggressore può diventare vittima a sua volta, perchè rischia la vendetta da parte di severi giustizieri. Il sacrificio d'espiazione è un dono fatto  agli uomini, per dare loro la possibilità di cambiare vita e a correggersi.La proibizione data al sacerdote di entrare nel santuario, ossia nel luogo più sacro del tempio, con eccessiva dimestichezza (Lv 16,2), è il segno che permane una frattura con Dio, provocata dal peccato. Nel grande giorno dell'espiazione, si attua un segno particolare: il sacerdote impone le mani sul capo di un capro, confessa su di esso tutte le colpe degli Israeliti, le riversa sopra di esso e poi lo manda via nel deserto (Lv 16,20-22). Questo gesto vuole significare che la richiesta di perdono, espressa dal sacerdote come rappresentante del popolo, è stata esaudita e che i peccati non pesano più su di esso. Sono stati come portati via, annullati. Tutti questi segni potrebbero sembrare delle scappatoie improprie, se in quel giorno tutto il popolo non dovesse umiliarsi, riconoscendo le proprie colpe e astenendosi dal lavoro. Il Giorno dell'espiazione diventa un giorno di riflessione per tornare al Signore, con un degno cambiamento di vita. Il perdono viene concesso a chi si sforza di correggersi. Gli uomini riparano il male fatto semplicemente proponendosi di correggersi e agire con rettitudine, obbedendo alla volontà di Dio. Al contrario di altri sacrifici, il risarcimento è obbligatorio, nei confronti del prossimo e di Dio. Si evidenzia l'attenzione che tutti gli israeliti possano compierlo: «Se non ha mezzi per procurarsi una pecora o una capra, porterà al Signore due tortore o due colombi... Se non ha mezzi per due tortore o due colombi, porterà un decimo di efa di fior di farina» (Lv 5, 7 e 11). Non bisogna confondere il concetto di espiazione con quello di rappresentanza e neppure confonderlo con la punizione, che invece viene evitata o attenuta da un’espiazione.  Nel  corso della storia, come i sacrifici spirituali (quali l’obbedienza o il pentimento) erano stati preferiti a quelli cruenti, l’espiazione ottenuta con gli olocausti fu affiancata da quella realizzata mediante dei comportamenti positivi: «Chi onora il padre espia i peccati»; «L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina espia i peccati» (Sir 3,30). «Cosa gradita al Signore è tenersi lontano dalla malvagità, sacrificio di espiazione è tenersi lontano dall’ingiustizia» (Sir 35,5). Ancora di più: qualcuno, grazie al suo comportamento particolarmente retto, può ottenere il perdono a favore del popolo o di altri. «Fineès... per la sua fermezza quando il popolo si ribellò, per la bontà coraggiosa della sua anima, egli fece espiazione per Israele» (Sir 45,23). In quest’ultimo passo emerge il concetto di rappresentanza: una sola persona agisce bene, ma lo fa a vantaggio di tutti, come se li compendiasse in se stesso. Volere rappresentare altri che si trovano in una condizione sfavorevole, è un gesto di grande generosità e solidarietà. Attribuire a tutti i meriti accumulati da uno solo, è un grande favore che Dio concede agli uomini. Uno dei personaggi che s’impegna a rappresentare la moltitudine (del popolo o dell’umanità) e che con la sua estrema fedeltà a Dio, ottiene il perdono a loro vantaggio è il Servo di Dio, di cui parla Isaia (cap. 53). Il suo impegno è molto più radicale ed incisivo di quello di Fineès: «Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione (asam), vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore» (Is 53,10). Il servo vive una situazione che è quella che avrebbe dovuto sperimentare tutto il popolo se Dio lo avesse punito con giustizia. Proprio lui, l’innocente, incontra  la persecuzione per la sua fedeltà a Dio. «Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato» (Is 53,4). Ora i meriti della sua fedeltà vanno a vantaggio di tutta la nazione. Gli evangelisti annunciano che il ruolo del Servo è stato preso volontariamente da Gesù. Secondo il Vangelo di Marco, Egli stesso assume la sua fedeltà a Dio nella persecuzione, in quella che sta già subendo ma soprattutto in quella che subirà durante la passione, come impegno per riscattare l’umanità. La sua missione, compresa la sua morte, andrà a vantaggio di tutti. «Il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 11; cf Mt 20.27). In seguito il riscatto operato da Gesù viene indicato come una vera espiazione (ilasmos) (cf. Rm 3,25; Eb 2,17; 1 Gv 2,2 e 4,19). È uno dei modi per comprendere il significato salvifico della morte di Gesù, un fatto misterioso e paradossale. San Paolo riflette anche sul significato di rappresentanza. Già Adamo era una figura collettiva oltre che personale. Gesù davanti a Dio Padre rappresenta tutti gli uomini che sono “uno” in lui. Se nel passato la concezione dell’unità della stirpe degli uomini aveva procurato loro un grave danno, a motivo della colpa di Adamo, ora, invece, si trasforma in una possibilità dal valore incommensurabile: tutti diverremo partecipi della stessa gloria di Cristo. «Il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti» (Rm 5,15). Osservando il sacrificio d’espiazione, sembra che ottenere il perdono fosse estremamente facile. In realtà i riti devono essere accompagnati da un cambiamento reale del sentimento e del comportamento dell’offerente. È il cammino di conversione ad assicurarci il perdono. Se ciò non avviene, l’uomo corre il rischio di sperimentare la severità della pedagogia divina. Su questo aspetto, il libro del Levitico è molto radicale. Quanto Dio è pronto a perdonare, altrettanto è pronto a perseguire il ribelle ostinato (Lv 26,14-33). In ogni caso rimane impensabile che Egli tronchi in modo definitivo la sua alleanza, abbandoni l’umanità a se stessa e se ne disgusti: «Io non li rigetterò e non mi stancherò di loro fino al punto di annientarli del tutto e di rompere la mia alleanza con loro, poiché io sono il Signore, loro Dio» (Lv 26,44). Per quanto la sua pedagogia possa essere severa, la sua misericordia la supera immensamente. Da parte sua Gesù, pur esprimendosi talora in minacce e severi ammonimenti (Mt 11,21-24; 18,7; Lc 6,24-26), normalmente preferisce rappresentare la benevolenza di Dio. Vuole convincere con la benevolenza più che con l’accusa, al punto da essere frainteso come un connivente del peccato (Lc 7,34). 




2. Solidarietà


Finora abbiamo parlato a lungo del culto e dei sacrifici ma la santità di Dio e vuole espandersi anche nella vita degli uomini. A partire dal capitolo 17, dopo le prescrizioni sul culto e sui sacrifici, inizia l'esposizione di norme che riguardano i rapporti tra persone. Dall'ambito particolare del tempio, si passa alla vita quotidiana. Non troviamo più norme di tipo sacrale, ma suggerimenti di carattere squisitamente morale. Le due parti del libro, nonostante queste profonde differenze, non vanno concepite come separate fra loro ma anzi sono intimamente connesse. Ora la santità, una caratteristica propria di Dio, viene trasferita anche a tutto il popolo. Il Dio santo, santifica: «Io sono il Signore che vi santifica» (Lv 22,31). La sua santità consiste nella sua diversità rispetto al mondo, nell'essere totalmente altro. Il primo carattere di Israele consisterà, a sua volta, nel distinguersi dagli altri popoli per quanto riguarda il comportamento morale. Il popolo di Dio non dovrà agire come si comportavano le genti con cui era entrato a contatto. La santità di Dio inoltre è totale estraneità al male e piena affidabilità. Allo stesso modo, ogni uomo dovrà agire bene, evitare il male ed essere considerato affidabile dal proprio fratello. Gesù insisterà perché i suoi discepoli riprendano questa caratteristica del popolo di Dio al quale anche loro appartenevano: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Anche la prima lettera di Pietro attribuisce ai componenti della Chiesa le caratteristiche tipiche del popolo di Dio: «Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1 Pt 2,9). Quindi anche i cristiani, proprio per aver conosciuto la verità e per aver ricevuto un nuovo essere, devono mostrare uno stile di vita conseguente: «Carissimi, io vi  esorto come stranieri e pellegrini a astenervi da desideri della carne che fanno guerra all'anima. Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita» (1 Pt 2,11-12).  La prima esposizione di norme riguarda il comportamento sessuale. Il Levitico non vuole con ciò affermare che queste siano le più rilevanti. L'autore si rivolge a persone che già conoscevano i precetti del decalogo nella sua interezza. Forse in quel tempo, il popolo era maggiormente esposto ad imitare comportamenti negativi che vedevano verificarsi tra i pagani proprio per quanto riguarda questo aspetto della vita. Gli uomini, riguardo alla sessualità, sono sempre particolarmente deboli ed esposti all'influenza del male. Le impurità, sebbene siano meno gravi di altri atti, come le violenze o le ingiustizie in campo economico, rischiano di coinvolgere molte persone a largo raggio. Proprio a causa di esse, il cuore dell'uomo comincia a farsi dominare dal male e quindi diventano una porta attraverso la quale entrano altri mali nel cuore dell'uomo. Mettono a repentaglio l'autodominio della persona più di altri comportamenti negli quali è meno coinvolta con il suo corpo. Forse per questo le impurità sono elencate per prime tra i propositi di male che, secondo l'insegnamento di Gesù, escono dal cuore dell'uomo (Mc 7,31). San Paolo scrivendo i cristiani che si erano convertiti dal paganesimo, raccomandava in primo luogo la rettitudine anzi la santità nella sfera sessuale. Egli adopera una terminologia, per esempio quella di santificazione, che richiama l'insegnamento esposto nel libro del Levitico: «Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del signore Gesù. Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall'impurità, che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito. Di non ci ha chiamati all'impurità ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo spirito» (1 Ts 4,2-8).Nel capitolo 18 del Levitico incontriamo la proibizione di avere rapporti con consanguinei. Il testa sembra rivolgersi a degli ascoltatori di sesso maschile. È interessante osservare il rischio cui incorrono i trasgressori: chi agisce male verrà espulso dalla terra promessa, come in precedenza erano stati espulsi gli abitanti che la abitavano prima degli ebrei. La terra vomita via da sé chi compie tali azioni abominevoli (Lv 18,27-30).Nel capitolo successivo, la normativa allarga fino al comportamento da tenere in tutti settori della vita. Bisogna abbandonare ogni forma di durezza e a agire nei confronti del prossimo non soltanto con lealtà ma anche con bontà, compassione e mitezza. Il testo soprattutto bandisce l'odio: «Non coverai odio contro il tuo fratello; rimprovererai apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma ama il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,17-18.9). Non basta però evitare l'odio, ma bisogna saper prendersi delle responsabilità per favorire il prossimo ed esercitare delle attenzioni benevoli nei confronti delle persone più svantaggiate: «Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19, 9-10). «Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; non tratterrai il salario del bracciante al tuo servizio fino al mattino dopo. Non maledirai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio. Io sono il Signore» (Lv 19, 13-14). «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,33-34).Altre norme proibiscono qualsiasi forma parzialità degli indizi in tribunale (Lv 19,15). Altre ancora hanno lo scopo evidente di proteggere dagli accessi connessi all'idolatria come le pratiche magiche (Lv 19,31) e i sacrifici umani (Lv 20,1). Prima dell'esilio, gli israeliti si erano macchiati di queste pratiche estremamente riprovevoli. 



3. Le Norme di purità

Per un lettore moderno, la parte più difficile del libro del Levitico è costituito dal concetto di sacro e impuro. In effetti questa concezione per noi è una cosa strana. Il problema non riguarda però soltanto la Bibbia perché queste normative erano diffuse in tutti i popoli dell'antichità. Per la mia riflessione mi basta riproporre alcune distinzioni che spero siano chiarificatrici. Per gli antichi il sacro era una forza cosmica indipendente, superiore alle stesse divinità. Gli dèi e forse neppure Dio erano in grado di dominare del tutto questa energia. Solo presupponendo una mentalità di questo tipo, è possibile comprendere il significato di alcuni episodi biblici che ci appaiono sconcertanti. Quando Uzzà toccò l'arca per impedire che cadesse durante il trasporto, venne colpito a morte all'istante. Era stato fulminato chiaramente da un’energia che emanava da una realtà sacra come era l'Arca (2 Sm 6,7). Gli animali che, per pascolare, salivano sul monte Sinai, nel momento della manifestazione di Dio sulla sua vetta, se oltrepassavano il limite protettivo tracciato, venivano abbattuti a sassate, stando a distanza (Es 19,12-13). Questi animali si erano caricati un’energia potentissima che poteva provocare perfino la morte di chi li avrebbe avvicinati o toccati. Il comportamento rispettoso nei confronti del sacro non appare come una questione morale ma come una precauzione di carattere vitale. Solo in seguito il sacro venne identificato con il Dio santo (Is 6,3). Il giuramento ridestava l'energia terribile del sacro alla quale non sarebbe stato possibile sfuggire (cf Gc 11,29-40; 17,1-3). Chi aveva giurato avrebbe dovuto mantenere l'impegno preso, pena la morte stessa. Anche lo stesso patto con Dio espresso con un giuramento da parte del popolo, si sarebbe rivelato distruttore nei confronti dei trasgressori, se fosse stato violato (Es 24,3-9). Connessa al sacro è l'idea dell'impuro. Nel significato originario, impuro non significava immondo in senso morale. È impuro tutto ciò che, avendo avuto attinenza con il sacro, ha acquistato un’energia che potrebbe danneggiare la vitalità di una persona, depotenziandola. È impuro  il sangue, è impuro l'esercizio della sessualità poiché quando si comunica alle sorgenti della vita, si entra in contatto con il sacro. Ogni relazione con questi eventi, depotenziando le persone, le espone al pericolo. In questo periodo più antico l'impurità era considerata come parte della natura e come tale non era affatto cattiva. Il contatto con l'impuro inevitabile e talora necessario o raccomandabile. I sacerdoti avevano il compito di istruire il popolo su questa questione molto vitale. Benché questo sentire fosse diffuso fra tutti i popoli, come ho detto, in Israele il problema del sacro acquisì una gravità particolare.In seguito il peccato fu posto in relazione con l'impurità perché anch'esso depotenziava la persona al massimo grado. In alcuni settori del giudaismo, il problema dell'impurità divenne quasi ossessivo. A partire dall'epoca in cui l'impurità venne collegata al peccato, il peccatore fu considerato impuro. L'uomo stesso come tale viveva di fatto una situazione di impurità. 


All'epoca neotestamentaria, i giusti e le persone più sensibili dal punto di vista religioso, cercavano di tutelarsi dall'impurità dei peccatori. Certamente sulla questione che sto trattando, incontriamo un abisso tra Antico e Nuovo Testamento. Finora ho cercato di mostrare sempre la relazione di continuità, pure nella discontinuità, tra le due Alleanze, ma riguardo a questo argomento, è prevalente la discontinuità se non la rottura. Innanzitutto, a partire da Gesù viene abolita la separazione tra sacro e profano. Tutta la creazione può essere considerata contemporaneamente tutta sacra e tutta profana. L’esistenza umana che è del tutto profana (ossia libera da qualsiasi contaminazione sacrale) diventa anche del tutto santa. L'esistenza, condotta in piena obbedienza a Dio, vissuta nell'amore per Dio e il prossimo, costituisce il vero atto di culto. Ormai incontriamo Dio Padre negli eventi della vita e non in luoghi sacri. Questo modo di pensare è un vero rivolgimento. Non deve esiste più un tempio. Il luogo d'incontro tra Dio e l'uomo è Cristo stesso e, in seguito, la comunità della Chiesa. I sacrifici cruenti sono aboliti perché superati dalla vita di obbedienza fino alla morte condotta da Gesù. Osserviamo ora da vicino la questione degli alimenti. Gli israeliti cercavano di mangiare cibi mondi per restare puri. Era per loro una questione di coscienza (e per non trasgredire queste norme, alcuni affrontarono il martirio con grande coraggio). L’alimentarsi seguendo le norme di purità, tuttavia, non soltanto causava un fraintendimento per quanto riguarda la vera purificazione, ossia quella del cuore, ma favoriva l’insorgere un certo risentimento tra ebrei e non ebrei. Gli ebrei, dopo l'esilio, avevano cercato di distinguersi dai pagani, vivendo in modo più etico. Per difendere la loro diversità, non soltanto vollero sottomettersi con serietà ai comandamenti divini di carattere morale, ma valorizzarono con scrupolosità le norme che li separavano dai pagani. Le regole alimentari servivano a questo scopo. Rifiutare certi cibi, però, si trasforma facilmente in un rifiuto, più o meno marcato, nei confronti di coloro che invece se ne alimentano. Gesù supera le norme del puro e dell'impuro. In Marco vediamo la svolta radicale che Gesù ha dato al concetto di purezza davanti a Dio: non sono le azioni rituali che purificano. Purezza ed impurità si realizzano nel cuore dell'uomo e dipendono dalla condizione del suo cuore (cfr Mc 7,14-23). L'impurità non provocava soltanto una divisione tra ebrei e pagani ma una rottura anche all'interno della stessa società ebraica. Gesù, volendo portare un segno manifesto del regno di Dio che aveva cominciato a introdurre nel mondo, continua ad erodere le barriere che gli uomini avevano frapposto fra loro e lo fa integrando le persone che venivano escluse dalla società. In base alle norme del Levitico, i lebbrosi dovevano restare lontani dalle persone, privi di ogni contatto umano. Le donne che soffrivano di perdite di sangue restavano impure per tutto il tempo in cui si manifesta la loro malattia. Persone che esercitano una professione che li esponeva ad avere contatti con altera gente impura, venivano considerate a loro volta inavvicinabili. Nei confronti dei lebbrosi, Gesù è nello stesso tempo amichevole e cauto. In genere sono loro che si avvicinano a lui, infrangendo le imposizioni dell'isolamento. Quando li vede vicini, Gesù viene preso da compassione. Tutti gli evangelisti notano che gli tocca il lebbroso e poi, una volta che lo ha guarito, lo obbliga a presentarsi ai sacerdoti, che potevano integrarlo in modo ufficiale nella società. Sembra imbattersi in un dilemma: da una parte patisce per la doppia sofferenza della malattia e dell'esclusione sopportata da questi miseri uomini. Il fatto di toccarli li assicura della sua vicinanza con loro. Dall'altra parte è consapevole della necessità delle norme con le quali la comunità cercava salvaguardare la vita di tutti. È chiaro in ogni caso e nel regno di Dio la persona vale in assoluto e che neppure un lebbroso può essere lasciato a se stesso e identificato con il suo male. Quanto al fatto della alla donna emoroissa, cogliamo il seguente messaggio. La donna, che soffriva per le perdite di sangue, lo aveva toccato di nascosto, convinta che bastasse rischiare questo gesto per poter ottenere la guarigione. Spinta da Gesù, ella è costretta a confessare il suo ardimento. Questi sembra quasi trattarla con eccessiva durezza quando la costringe ad esporsi al pubblico, «tutta impaurita e tremante». Il realtà Gesù la rivaluta di fronte a tutti e la propone ad esempio come persona di fede. Inoltre ella viene integrata nuovamente della società. Né lei stessa nei propri confronti, né gli altri, devono più considerarla impura. In questi casi Gesù va oltre le norme di purità. Il regno di Dio non accetta queste separazioni umilianti tra le persone. Gli uomini devono solidarizzare hanno ed accogliere anche chi sembra ributtante. In conclusione, per quanto valore le norme di purità avessero avuto nel tempo in cui furono istituite, per Gesù ora non sono più valide, perché separano gli uomini tra di loro e umiliano i più deboli. Così facendo Gesù offre una nuova interpretazione della Legge ed opera in modo da esporsi alla critica che tende a considerarlo un trasgressore. Anzi peggio: un eversore della normativa stabilita da Dio e un disgregatore dei principi essenziali sui quali si basava la società.  La verità del Vangelo abbatte il muro di divisione tra ebrei e cristiani, come si ripromette di abbattere ogni altra divisione. La normativa dell'astension e dai cibi immondi, mentre aiutava popolo di Israele a sentirsi più legato a Dio e alla sua Legge, dall'altro lo separava nettamente dalle altre nazioni. Molti israeliti cercavano di attenuare le differenze con le quali si distinguevano dagli altri, per evitare il loro risentimento. Così facendo, però correvano il rischio però di perdere la loro identità. 


Il problema venne avvertito con forza all'interno delle comunità cristiane primitive, quando i pagani vennero a far parte di quelle comunità, composte in  un primo tempo soltanto di ebrei. Potevano gli ebrei-cristiani condividere la mensa con i fratelli provenienti dal mondo pagano? Si poteva superare la storica divisione tra i due gruppi? La prima comunità che tentò di realizzare una piena integrazione tra i due gruppi  etnici fu quella di Antiochia, fino a consentire la condivisione della stessa mensa. San Paolo sosteneva con forza che le antiche norme non dovevano essere imposte anche i pagani che si facevano cristiani. Anzi la missione di Gesù aveva reso obsolete tutte queste regole. S. Pietro venne convinto da una visione celeste e soltanto dopo questa esperienza che lo sorprese alquanto, accettò di entrare in casa del centurione pagano Cornelio e di mangiare con lui e la sua famiglia. Gradualmente le norme alimentari vennero superate o almeno non furono più considerate vincolanti per le coscienze. In concomitanza avveniva una riconciliazione tra ebrei e pagani. La fede in Cristo creava un uomo nuovo, cioè una comunità nella quale cominciava un nuovo modo di convivenza fino allora inedito. Questo nuovo modo di pensare e di fare si impose però con grande difficoltà perché toccava questioni di coscienza. Secondo l’esegesi liberale, il cristianesimo sarebbe essenzialmente una morale, una specie di «riarmo»  etico. Ma con ciò non si rende giustizia alla novità del Nuovo Testamento. «La vera novità si intravede, quando negli Atti degli Apostoli Pietro prende posizione di fronte all'obiezione di farisei convertiti alla fede in Cristo, che chiedono di circoncidere i cristiani provenienti dal paganesimo e di ordinare loro di osservare la legge di Mosé. A questo Pietro replica: “Dio non ha fatto alcuna discriminazione tra noi e loro, purificando i loro cuori con la fede” (15,511). La fede purifica il cuore. Essa deriva dal volgersi di Dio verso l'uomo. Non è semplicemente una decisione autonoma degli uomini. La fede nasce, perché le persone vengono toccate interiormente dallo Spirito di Dio, che apre il loro cuore e lo purifica (Cf Gv 15, 3». 

continua


[1] J.-L. Ska, Il cantiere del Pentateuco/2. Aspetti letterari e teologici, EDB, Bologna 2013, p. 138
[2] J.-L. Ska, Il cantiere del Pentateuco..., pp. 124134.
[3] J.-L. Ska, Il cantiere del Pentateuco...., p. 136
[4] Enciclica di Francesco, Lumen fidei, 39