martedì 23 luglio 2013

Il giudaismo alla fine del periodo veterotestamentario.

Fu principalmente grazie all'opera di Esdra che la comunità ebraica trovò la sua direzione permanente lungo la via che condusse a quella forma di religione nota col nome di giudaismo. Attraverso le tenebre del IV e in secolo, proseguirono gli sviluppi lungo le linee già tracciate e al tempo della rivolta dei Maccabei, il giudaismo, per quanto ancora in evoluzione, aveva assunto tutti i tratti essenziali che lo avrebbero caratterizzato in seguito. Sebbene non rientri nel nostro scopo proseguire ulteriormente la storia degli Ebrei, non possiamo terminare senza un accenno, per quanto necessariamente sommario, agli sviluppi religiosi del periodo che abbiamo trattato.



La natura e lo sviluppo del primo giudaismo



La comunità ebraica nel periodo postesilico: un riassunto


Per valutare in modo appropriato gli sviluppi religiosi nel periodo postesilico è necessario considerare la natura della comunità restaurata, i problemi che essa dovette affrontare e le soluzioni fornite a questi problemi tramite le opere di Neemia ed Esdra. A questo punto potrebbe rivelarsi utile una breve ricapitolazione delle cose già dette o accennate.


Il problema della nuova comunità


La restaurazione della comunità ebraica dopo l'esilio ovviamente non significò anche una rinascita della nazione israelitica preesilica, con il suo culto e le istituzioni nazionali. Quel sistema era stato distrutto e non si poteva ricreare. La nuova comunità quindi dovette affrontare il problema, assai più grande della mera sopravvivenza fisica, di trovare una forma esterna in cui esistere, una qualche definizione di sé che potesse salvaguardare la sua identità come popolo. Fino ad allora non vi era mai stato un tale problema, perché "Israele" aveva sempre indicato un'unità etnica-nazionale-cultuale ben definita. In origine esso era stato una lega sacra di clan, con i suoi specifici culti, istituzioni, tradizioni e credenze; tutti quelli che erano mèmbri di quella lega, che partecipavano ai suoi culti e prestavano obbedienza alla sua legge sacra, erano Israeliti. In seguito, Israele era divenuto una nazione, alla fine due nazioni, ognuna con i propri culti e istituzioni; essere Israelita significava essere cittadino di una o l'altra di queste nazioni. Dopo che la caduta dello Stato settentrionale aveva lasciato la maggioranza degli Israeliti senza identità nazionale (sebbene ancora entro una area geografica definita), la tradizione nazionale e il nome, erano passati a Giuda, il cui culto alla fine, tramite le riforme del VII secolo, si era concentrato esclusivamente a Gerusalemme. Perciò fino alla fine Israele era rimasto un'entità definibile con limiti geografici e istituzioni nazionali: "Israele" era la visibile comunità di cittadini che prestava fedeltà al dio nazionale, partecipava ai suoi culti e sperava nella realizzazione delle sue promesse.
La caduta di Gerusalemme, che spazzò via la nazione e le sue istituzioni, pose fine a tutto questo. Nonostante il culto di Yahweh proseguisse in vari luoghi in Palestina, non esisteva più una nazione che vi si riunisse intorno, e migliaia di Israeliti, per motivi di distanza, non potevano parteciparvi. Israele, ormai privo di una designazione geografica o nazionale, era senza una chiara identità. In effetti, gli Ebrei deportati non avevano più nulla che li distinguesse come Israeliti se non i loro particolari costumi, niente a cui aggrapparsi per salvare le loro antiche tradizioni, le memorie e la speranza che un giorno sarebbero tornati alla loro terra e avrebbero ripreso la vita come popolo. A dire la verità, questa speranza si realizzò con la restaurazione, ma venne al contempo frustrata. Coloro che ritornarono in Palestina si consideravano il resto purificato d'Israele, che Yahweh aveva liberato dalla schiavitù e aveva reso eredi della realizzazione delle sue promesse. Ma quel futuro promesso, per quanto atteso a breve scadenza, non arrivava; ne poteva ritornare il passato. La nuova comunità non poteva ridar vita alle vecchie istituzioni nazionali ne vivere nell'antica speranza; quando questa speranza fu riposta in Zorobabele, essa venne crudelmente delusa. Ancor meno poteva la comunità, per quanto si aggrappasse alla finzione di una struttura e di un'ascendenza tribale, ricreare le istituzioni ancora più antiche della lega sacra. Sebbene varie di queste istituzioni fossero state tramandate - anche se con adattamenti - l'ordine tribale non esisteva più ormai da lunghissimo tempo. Non si poteva mettere indietro l'orologio.
Con la ricostruzione del Tempio, Israele - o piuttosto la comunità ebraica che si considerava il vero resto d'Israele - divenne nuovamente una comunità cultuale. Come abbiamo visto, questa fu la sua salvezza. Un vero Israelita poteva ora essere identificato come membro di quella comunità. Ma da sola questa non era una base adeguata per la sopravvivenza d'Israele. Se la comunità fosse stata tenuta insieme semplicemente dalla riattivazione delle tradizioni di culto ereditate dall'antica religione di Stato, molte delle cui basi teologiche si erano perse o forzatamente alterate, il risultato sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, una fossilizzazione, nella peggiore, l'infiltrazione di elementi pagani. Inoltre, gli Ebrei che vivevano lontano da Gerusalemme non potevano partecipare attivamente al culto; se tale partecipazione fosse stata l'unica caratteristica di un Ebreo, presto o tardi essi si sarebbero allontanati, oppure, come era accaduto in Egitto, avrebbero istituito culti locali di dubbia origine. In entrambi i casi non avrebbero più fatto parte d'Israele. Con le antiche forme ormai dimenticate, le speranze frustrate e il morale a terra, se voleva sopravvivere Israele doveva trovare un qualche elemento nel proprio retaggio attorno a cui raccogliersi. E lo trovò nella sua legge.


La riorganizzazione della comunità attorno alla legge


La religione del periodo postesilico è contrassegnata da un'enorme preoccupazione per l'osservanza della legge. Questo è in effetti il suo tratto caratteristico e ciò che, più di ogni altra cosa, la distingue dalla religione del periodo preesilico. Questo non vuoi dire che fosse una religione nuova, o che rappresentasse l'importazione di nuovi elementi estranei alla fede d'Israele. Piuttosto, essa era caratterizzata da una particolare enfasi, forse unilaterale, ma inevitabile, posta su un elemento che era stato di importanza fondamentale in tutti i periodi. Sin dai giorni della lega tribale la vita collettiva d'Israele era stata regolata dalla legge del patto, la cui osservanza era considerata obbligatoria. La monarchia non mutò la situazione e la legge israelitica non fu mai una vera e propria legge di Stato, ma una legge sacra, in teoria al di sopra dello Stato. Persino Giosia, introducendo la legge deuteronomica come costituzione nazionale, non promulgò alcuna legge statale, ma impegnò lo Stato all'osservanza della legge del patto. Inoltre, i profeti avevano denunciato lo Stato proprio perché vedevano nel suo comportamento amorale e nel paganesimo che esso promuoveva o tollerava una rottura delle clausole del patto.
Naturalmente l'esilio accrebbe l'interesse in questo elemento della religione. Poiché i profeti avevano spiegato la tragedia come una-punizione per il peccato contro la legge di Yahweh, non deve sorprendere che gli Ebrei devoti sentissero che il futuro d'Israele dipendeva da una più rigorosa osservanza di questa legge. Inoltre, essendo ormai scomparsi nazione e culto, c'era poco altro che li contraddistinguesse come Ebrei. Indubbiamente questo contribuisce a spiegare il crescente rilievo di Shabbat, circoncisione e purificazione rituale riscontrabile durante e immediatamente dopo l'esilio. E in effetti, tutti i capi d'Israele, da Ezechiele tramite i profeti della restaurazione fino a Neemia, dimostrarono grande interesse per lo Shabbat, il pagamento delle decime, il Tempio e il suo culto, la purezza cerimoniale e analoghi aspetti. Per loro queste cose non erano banalità esteriori, ma tratti caratterizzanti del purificato Israele per cui essi lavoravano.
Nondimeno, la base della nuova comunità, compreso il clero, non si distingueva per un particolare zelo rivolto alle regole cultuali e cerimoniali. Al contrario, come indicano i rimproveri dei profeti (per es. Malachia), molti erano assai negligenti in tali questioni, e continuarono a esserlo anche dopo che Neemia conferì alla comunità un sicuro status politico. Il nuovo Israele cercava disperatamente qualcosa che lo tenesse unito e che gli desse un'identità distintiva. Questo fu fornito da Esdra con il libro della legge che egli portò da Babilonia e che, con l'autorità concessagli dalla corte persiana, impose alla comunità con un patto solenne. Quest'evento segnò una grande svolta. Prese forma una comunità nuova e ben definita, composta da coloro che erano sottoposti alla legge promulgata da Esdra. Questo, a sua volta, significava un'essenziale ridefinizione del termine "Israele". Israele non sarebbe più stato un'entità nazionale, non sarebbe stato legato ai discendenti delle tribù israelitiche o agli abitanti dell'antico territorio nazionale, ne a una comunità di coloro che in un modo o nell'altro riconoscevano in Yahweh il proprio dio e gli tributavano il culto. Da ora in poi, Israele sarebbe stato (come nella teologia del Cronista) quel resto di Giuda che si era raccolto attorno alla legge. Sarebbe stato membro d'Israele (cioè Ebreo) chi si assumeva l'onere di quella legge.
Ma questa ridefinizione d'Israele significava inevitabilmente la nascita di una religione in cui la legge era fondamentale. Questo, lo ripetiamo, non implicava alcuna rottura con l'antica fede d'Israele, le cui caratteristiche principali erano mantenute, ma un profondo attaccamento di quella fede alla legge. La legge non regolava più semplicemente gli affari di una comunità già costituita; essa aveva creato la comunità! Come principio organizzatore della comunità e linea di demarcazione, la legge assunse sempre maggiore importanza. In origine definizione dell'azione sulla base del patto, divenne essa stessa la base dell'azione, praticamente un sinonimo di patto e summa e sostanza della religione. Il culto venne regolato e sostenuto dalla legge; essere virtuoso e pio significava osservare la legge, le basi della speranza futura risiedevano nell'obbedienza alla legge. Fu questa notevole enfasi posta sulla legge a conferire al giudaismo il suo carattere distintivo.




I primi sviluppi del giudaismo: le fonti


L'evoluzione di cui abbiamo parlato, guidata dall'opera di Esdra, procedette nel IV e III secolo finché, all'inizio del II, il giudaismo, sebbene ancora in modo fluido, non cominciò ad assumere la sua forma caratteristica. Tuttavia è difficile tracciare questo sviluppo. Poiché le nostre fonti sono scarse, e poche di esse si possono datare con precisione, non si può seguire un'esatta successione cronologica (se mai ve ne fu una). Ma se si mette a confronto la comunità ebraica della fine del V secolo con quella che emerge dalla letteratura del periodo maccabaico si percepisce una certa solidificazione della fede: era nato il fenomeno del giudaismo. Con l'ausilio delle fonti disponibili e una loro cauta interpolazione si può tentare di ricostruirne i punti salienti.
Abbiamo a nostra disposizione la parti più recenti dell'Antico Testamento e i primi scritti ebraici non canonici. Le fonti bibliche per il periodo della restaurazione sono già state citate. Esse comprendono i libri di Isaia (Capitoli 56-66),  Aggeo, Zaccaria (Capitoli 1-8), Malachia e Abdia (probabilmente fine del VI o inizio del v secolo). A questi si possono aggiungere l'opera del Cronista (400 ca.) e i libri di Gioele e Giona (le date sono incerte, ma forse entrambi del IV secolo circa). Inoltre, vi sono alcune sezioni più tarde del libro di Isaia (soprattutto la cosiddetta apocalisse dei Capitoli 24-27) che, per quanto d'incerta datazione, appartengono probabilmente all'inizio del periodo persiano; Zaccaria (Capitoli 9-14), una raccolta tarda ma contenente molto materiale antico; l'Ecclesiaste e il libro di Estera nonché le parti più recenti dei libri dei Salmi e della Sapienza (Proverbi); e infine, naturalmente, il libro di Daniele (166/5 ca.).
Quanto agli scritti ebraici non canonici, i primi fecero la loro apparizione molto prima dello scoppio della rivolta dei Maccabei e aumentarono durante la prima fase della lotta.
Sebbene alcuni, essendo di datazione incerta, debbano essere considerati con cautela, resta un cospicuo corpus di materiale che offre un quadro delle credenze del periodo. Tra i primi scritti non canonici vi sono opere quali Tobia, che potrebbe risalire al IV secolo (frammenti scoperti a Qumràn sono in "aramaico imperiale"), ma che utilizza fonti ancora più antiche (la Saggezza di Ahiqar); l'Ecclesiastico (Saggezza di Ben Sira) che, come indica il prologo, fu scritto intorno al 180; e forse il libro di Giuditta che, per quanto spesso datato alla metà del il secolo, secondo alcuni potrebbe risalire al IV.
Inoltre, sebbene ciò sia oggetto di disputa, il libro dei Giubilei probabilmente risale al periodo precedente ai Maccabei (175 ca.), come anche i più antichi elementi dei Testamenti dei dodici patriarchi 10 e il I Enoc 11. Anche l'Epistola di Geremia (inserita nel libro di Baruc) potrebbe risalire ali'inizio del li secolo, mentre alcune delle aggiunte alla versione greca di Daniele (la Preghiera di Azaria) sembrano adattarsi al periodo dei Maccabei (170 ca.). Infine il primo libro dei Maccabei, sebbene probabilmente scritto alla fine del il secolo, è (come anche in misura minore il secondo) un'ottima fonte per la storia e le credenze degli Ebrei dopo l'inizio della lotta per l'indipendenza. Considerati insieme, questi scritti consentono di farsi un'idea del giudaismo della fine del periodo veterotestamentario.




La religione e la Legge



Non si esagera l'importanza della legge nel giudaismo. Essa fu il fattore fondamentale e unificante attorno al quale vennero organizzati tutti gli altri elementi della religione. Con la sua esaltazione alcune antiche istituzioni furono reinterpretate, altre persero rilevanza e ne nacquero di nuove.



Lo sviluppo di un canone delle Scritture


Di somma importanza è il fatto che la comunità ebraica si costituì sulla base di una legge scritta. A dire il vero, una legge in forma scritta non era una novità per Israele, ne era la prima volta che un codice legislativo aveva occupato ufficialmente una posizione normativa. Sotto Giosia, il Deuteronomio aveva avuto questo ruolo nel regno di Giuda. Nondimeno, la riforma di Esdra, sebbene seguisse il modello di quella di Giosia, differiva da questa per un aspetto importante: la legge di Esdra non fu imposta a una comunità nazionale già ben definita, ma funse da elemento costitutivo nella definizione di una nuova comunità. Poiché l'intera vita della comunità si fondava ed era regolata da quella legge, alla legge fu attribuito un ruolo eccezionalmente importante.
Anche se non sappiamo con certezza quale legge Esdra lesse al popolo, è possibile, come abbiamo già detto, che egli fosse in possesso del Pentateuco completo, i cui principali elementi esistevano da lungo tempo. A ogni modo, il Pentateuco completo era noto a Gerusalemme subito dopo la sua epoca e veniva considerato con una stima superiore a quella di cui godevano le singole parti che lo costituivano: fu presto visto, nelle sezioni sia legali sia narrative, come la legge (Torah) per eccellenza e a esso venne accordato praticamente uno status canonico. Non sappiamo con precisione come e quando ciò ebbe luogo. Probabilmente non avvenne grazie a un unico atto ufficiale, ma a poco a poco il Pentateuco e la legge s'identificarono nel pensiero della comunità e vennero accolti come autorità ultima. Questo avvenne sicuramente nel periodo persiano e prima del definitivo scisma samaritano, visto che i Samaritani consideravano canonico il Pentateuco, ma non il resto dell'Antico Testamento.
L'effettiva canonizzazione del resto dell'Antico Testamento seguì quella del Pentateuco. I libri storici di Giosuè e dei Re (i Profeti Anteriori della Bibbia ebraica) che, con il Deuteronomio, costituivano un unico corpus che descriveva e interpretava la storia d'Israele da Mosè alla caduta di Gerusalemme, devono esser stati presto redatti nel circolo delle Sacre Scritture, senza dubbio sulla scia del Deuteronomio, che venne staccato e collocato col Pentateuco. A essi si aggiunsero i libri profetici, a formare la seconda grande divisione delle Scritture ebraiche (i Profeti Posteriori). I discorsi dei profeti preesilici erano sempre stati considerati assai autorevoli (Ezechia 38, 17; Zaccaria 1, 2-6; 7, 12) e come le loro parole, e quelle dei profeti successivi, furono raccolte nei libri profetici, anche a questi fu accordato status canonico. Questo processo era probabilmente ultimato alla fine del periodo persiano, perché pochi dei discorsi profetici sono più tardi. Sicuramente il canone profetico era già fissato prima del II secolo; ed è questo il motivo per cui Daniele non fu inserito tra i Profeti nella Bibbia ebraica, bensì tra gli Scritti.
Prima del II secolo verosimilmente esistevano anche tutti gli altri libri dell'Antico Testamento (tranne Daniele e forse Ester). I Salmi erano stati raccolti da lungo tempo, probabilmente prima della fine del periodo persiano (nel Salterio non vi sono salmi maccabaici), così come i Proverbi. Anche se erano ancora fluidi i limiti della terza parte del canone ebraico, e se - come indica un confronto tra la Bibbia ebraica e la versione dei Settanta - non esisteva ancora un'unica forma fissa del canone, è chiaro che entro la fine del periodo veterotestamentario era emerso un corpus definito di Sacre Scritture. Ma, sebbene tutti questi scritti fossero tenuti in gran conto, il Pentateuco, come Libro della Legge, continuava a occupare una posizione preminente ed eccezionalmente autorevole.
La canonizzazione della legge diede al giudaismo una norma di gran lunga più assoluta e tangibile di quelle che l'avevano preceduta. Poiché i comandamenti di Dio erano affermati nella legge una volta per tutte, con validità eterna, il suo volere in ogni situazione si poteva determinare da essa; altri mezzi che avevano lo stesso scopo vennero superati o soppressi. Questo sicuramente spiega perché gradualmente cessò la profezia: la legge aveva, di fatto, usurpato le sue funzioni rendendola superflua. Anche se i profeti del passato venivano riveriti e le loro parole erano considerate autorevoli, la legge in effetti non lasciava spazio a spontanee manifestazioni profetiche del volere divino. La profezia avrebbe assunto la forma di pseudoepigrafi (cioè profezie attribuite a eroi del lontano passato). Sebbene gli Ebrei sperassero in un tempo in cui sarebbero riapparsi i profeti (1 Maccabei 4, 46; 14, 41), essi erano ben consci del fatto che l'età delle profezie era terminata (1 Maccabei 9, 27): per apprendere il volere divino bisognava consultare il Libro della Legge (1 Maccabei 3, 48).




Tempio, culto e legge


L'esaltazione della legge non implicava alcuna perdita d'interesse nel culto, ma piuttosto aveva come conseguenza una grande diligenza nella sua esecuzione: dopotutto, lo richiedeva la legge! Nondimeno la situazione rendeva inevitabili certi adattamenti e mutamenti. Il Tempio non era più il santuario dinastico della casa di Davide, in cui il re, per mezzo dei suoi sacerdoti, eseguiva sacrifici e altri rituali secondo il costume e la tradizione. Tranne per il fatto che era stato privilegiato dalla corte persiana e obbligato a offrire preghiere per il benessere del re (Esdra 6, 10), non si trattava in alcun senso di un culto di Stato. Ne era il santuario del popolo d'Israele nel modo in cui era stato in passato, se non nella finzione. Esso apparteneva, invece, alla nuova comunità d'Israele e del suo culto era responsabile quella comunità nel suo insieme. Presumibilmente la tradizione cultuale del Tempio preesilico venne proseguita con gli adattamenti e le alterazioni resi necessari dalla nuova situazione. Di particolare importanza era il giorno annuale dell'espiazione, che cadeva (Levitico 23, 27-32) cinque giorni prima della Festa dei Tabernacoli e che divenne il vero inizio dell'anno cultuale. Il suo rituale (Levitico 16), elaborato a partire da diversi riti antichi, dava espressione a quel!'acuto senso del peccato che gli Ebrei postesilici percepivano in un modo forse impossibile ai loro avi. Il grande castigo dell'esilio e la condizione attuale d'Israele ricordavano costantemente l'enormità della trasgressione dei comandi divini e, poiché l'accresciuta cura per la legge aumentava il timore di violarla, producevano l'esigenza profonda di una continua espiazione.
Al culto presiedeva il sommo sacerdote, che era capo spirituale della comunità e, progressivamente, anche suo principe secolare. L'uffìcio del sommo sacerdozio era ereditario nella casa di Sadoc, la stirpe sacerdotale del Tempio preesilico che vantava discendenza diretta da Aronne tramite Eleazaro e Finees (1 Cronache 6, 1-15). Anche altri sacerdoti si dichiaravano discendenti di Aronne, sebbene sicuramente in molti casi le genealogie fossero in gran parte inventate. La discendenza da Aronne era molto importante perché la richiedeva la legge. Nel v secolo, i sacerdoti che non potevano dimostrare il loro lignaggio (e dopo lo sradicamento dell'esilio sicuramente erano in molti) correvano il rischio di essere esclusi dall'ufficio (Esdra 2, 61 -63; Neemia 7, 63-65), e nei secoli successivi incontriamo il dogma del sacerdozio di Aronne stabilito dall'etemo patto con Dio (Ecclesiastico 45, 6-24; vedi 1 Maccabei 2, 54).
Accanto ai sacerdoti vi era il clero minore, che si dichiarava discendente da Levi, anche se, ancora una volta, le origini erano sicuramente miste". Senza dubbio alcuni dei suoi membri discendevano dai sacerdoti dei templi dichiarati illegali da Giosia (2 Re 23, 8 sg.) che, sebbene teoricamente avessero diritto a un posto di pari importanza tra il clero del Tempio (Deuteronomio 18, 6-8), erano infine stati costretti ad accettare una posizione subordinata come celebranti (vedi Ezechiele 44, 9-16). Tra il clero minore vi erano anche cantori, portinai (1 Cronache 25 sg.) e servitori (Esdra 8, 20; Neemia 3, 31 ecc.), in tutto quindi un clero di notevoli dimensioni. Tutti, quali che fossero le loro origini, erano considerati Leviti. Culto e clero erano sostentati da decime e doni, più una tassa annuale per il Tempio (vedi Neemia 10, 32-39) integrati, almeno periodicamente, con sovvenzioni statali. Tali cose erano state assai trascurate prima dell'arrivo di Neemia, ma i suoi sforzi e quelli di Esdra presumibilmente furono sufficienti a regolare la questione, in modo che fosse fornito un supporto adeguato in conformità con la legge.
Come abbiamo detto, il culto era considerato con estrema serietà. È difficile esagerare la devozione con cui gli Ebrei più pii lo tenevano in conto, o la loro preoccupazione che esso fosse eseguito secondo la legge (Tobia 1, 3-8; Ecclesiastico 7, 29-31; 35, 1-11). Prova sufficiente è la loro tenace resistenza quando Antioco lo contaminò. Ciononostante, il culto non era la forza che motivava il giudaismo. Esso trovava sostegno nelle clausole della legge e da questa era regolato, invece che esserlo - come un tempo -dalla tradizione e dalla consuetudine; occupava quindi una posizione subordinata rispetto alla legge. La legge non descriveva, come un tempo, la pratica esistente; essa prescriveva la pratica. Sebbene fosse svolto con gioia, il culto non era tanto un'espressione spontanea della vita nazionale, quanto un adempimento della legge. Inoltre, come la legge acquistava importanza, il sacerdote, per quanto onorato fosse il suo ufficio, perdeva il suo ruolo preminente. Ali'antica funzione levitica di dispensare la Torah (cioè l'insegnamento sulla base della legge del patto) si sostituì l'ormai più importante compito d'insegnare la legge stessa. Ma poiché questa funzione poteva essere adempiuta da chiunque fosse esperto nella legge, essa non rimase monopolio del clero. Il sacerdote, in quanto tale, divenne sempre più un funzionario, la cui importanza, per quanto grande, passò in secondo piano rispetto a quella del dottore della legge.




Sinagoga, scriba e maestro di saggezza



Il nuovo ruolo della legge represse certe antiche istituzioni e funzioni, ma ne esaltò delle altre e ne creò di nuove. Una nuova istituzione fu la sinagoga, un luogo per il culto pubblico, accanto al Tempio e al suo culto, destinato a sopravvivergli. Sebbene la sinagoga sia chiaramente attestata per la prima volta verso la fine del nostro periodo, le sue origini sono sicuramente più antiche, per quanto oscure e impossibili da ricostruire. Ma il fatto stesso che migliaia di Ebrei, per motivi di lontananza, non avevano accesso al culto del Tempio e avevano la proibizione secondo la legge d'instaurare culti locali, rese inevitabile lo sviluppo di una tale istituzione. Persino in epoca preesilica si radunavano gruppi per udire l'ammaestramento dei Leviti e i profeti attiravano cerchie di discepoli. Durante l'esilio a quanto pare gli Ebrei si riunivano dove potevano per pregare e ascoltare i loro maestri e profeti (Ezechiele 8, 1 ; 14, 1 ; 33, 30 sg.). Possiamo supporre che tali riunioni proseguissero, poiché è inconcepibile che gli Ebrei della Diaspora possano essere rimasti tali senza una qualche forma di culto pubblico2'. E simili esigenze dovevano avere i seguaci della comunità ebraica in Palestina, troppo distanti da Gerusalemme per partecipare regolarmente al culto. Possiamo ipotizzare che, come la legge divenne canonica, dei gruppi cominciarono a riunirsi a livello locale per udirne l'esposizione. A poco a poco sorsero sinagoghe organizzate con culto regolare dello Shabbat, il cui fulcro era la lettura e la spiegazione della legge. Alla fine dei secoli precristiani esse si trovavano in ogni città.
Come la legge acquistava importanza, aumentava l'importanza della sua corretta interpretazione e applicazione. All'inizio non esisteva alcun testo standard del Pentateuco e quindi non sempre era possibile essere certi di cosa richiedesse la legge22. Inoltre, una legge non sempre si accordava a un'altra e la sua applicazione in casi particolari non era sempre chiara. Questo richiedeva lo sviluppo di principi ermeneutici per un'ulteriore definizione e interpretazione della legge, per poterla effettivamente applicare a tutti gli aspetti della vita. Per rispondere a quest'esigenza sorse una classe di scribi che si dedicava allo studio della legge e tramandava le proprie conoscenze ai discepoli. L'origine di questa classe è ancora una volta oscura, ma presumibilmente essa si sviluppò di pari passo con la canonizzazione della Scrittura. Alla fine del nostro periodo è ben attestata la presenza di scribi: Ben Sira era uno scriba con una scuola di discepoli (Ecclesiastico 38, 24-34; 51, 23). Anche se l'imponente legge orale dei Farisei è successiva, era iniziato il processo per creare un "argine" attorno alla legge (Pirke Aboth 1,1), per timore di violarla inavvertitamente. La Scrittura veniva spiegata alla luce della Scrittura (Giubilei 4, 30; 33, 15 sg.) e alle sue istruzioni venivano date definizioni dettagliate (come per la definizione del precetto dello Shabbat in Giubilei 50, 6-13) e adattamenti a situazioni particolari (come la sospensione del precetto dello Shabbat in caso di autodifesa in 1 Maccabei 2, 29-41).
Allo zelo per la legge si accompagnò una viva preoccupazione pratica i per un comportamento retto, ben illustrata nella letteratura sapienziale. In verità, dobbiamo abbandonare l'idea che quella saggezza sia uno sviluppo postesilico, o che vi fu in quel periodo un momento in cui la vita d'Israele era dominata da una classe di maestri di saggezza. La tradizione sapienziale in Israele è antichissima e risale almeno al X secolo. Tuttavia, dopo l'esilio, essa godette di grande favore popolare e, nel periodo del giudaismo emergente, ebbe come conseguenza la creazione di un considerevole corpus letterario che esponeva la natura di una vita retta. La Bibbia ci offre il libro dei Proverbi (redatto in questo periodo, anche se gran ( parte del suo materiale è molto più antico), l'indagatore e leggermente scettico Ecclesiaste e molti dei Salmi più tardi (Salmi I; 49; 112; 119, ecc.). Inoltre, vi sono libri quali Tobia, Ecclesiastico (Saggezza di Ben Sira) e, oltre la fine del nostro periodo, Sapienza.
Questa tradizione sapienziale era intemazionale, come era sempre stata. Un ottimo esempio è il libro di Tobia, costruito sul racconto di Ahiqar, una raccolta di saggezza aramaica forse risalente al VI secolo (era nota a Elefantina nel V), con antecedenti ancora più antichi nella letteratura gnomica accadica. Poco sorprendente, in considerazione delle sue origini cosmopolite, è il fatto che molta sapienza ebraica appaia quasi secolare, offrendo astuti consigli per ottenere il successo e la felicità senza alcuna apparente motivazione religiosa. Ma quest'immagine è ingannevole, perché è evidente che i maestri ebrei adattarono la tradizione sapienziale rendendola un mezzo per descrivere la vita retta secondo la legge. Per loro, la summa della saggezza era temere Dio e osservare la legge; la saggezza era un sinonimo della legge. Quest'identificazione, esplicita nel rescritto concesso a Esdra (Esdra 7, 25) è espressa così tante volte e in maniera così sistematica che documentarla sarebbe tedioso. Si trova nei Salmi (Salmi 1; 37, 30 sg.; Ili, 10; 112, 1; 119, 97-104; et passim), nei Proverbi (Proverbi 1, 7; 30, 2 sg., ecc.), in altri punti della Bibbia (Giobbe 28, 28; Ecclesiaste 12, 13 sg.) e ugualmente in Ben Sira (Ecclesiastico 1, 14, 18, 20, 26, et passim) e in altri scritti ebraici. In effetti scriba e maestro di saggezza erano probabilmente mèmbri della stessa classe; Ben Sira era sicuramente entrambi (Ecclesiastico 38, 24, 33 sg.; 39, 1-11). Lo scriba sapiente aveva una professione onorata di cui essere orgoglioso (Ecclesiastico 38, 24-34). Studiare la legge, meditare su di essa e applicarla nella vita era il più alto privilegio e la somma virtù (vedi Salmi 1; 19, 7-14; 119).




Religiosità, rettitudine e la legge


Per l'Ebreo essenza di ogni rettitudine era osservare la legge. Questo non significa che la religione fosse mero legalismo, perché si osserva ovunque una profonda pietà devozionale, un grande senso etico e una toccante fede e stupore dinanzi a Dio. La legge, dobbiamo ricordarlo, dava espressione all'ideale di Israele come popolo santo di Dio; per realizzare quell'ideale, per rispondere a quella chiamata, esso doveva osservare la legge in ogni dettaglio. Non si può negare che in una tale enfasi sui particolari si nascondesse il pericolo di una perdita di prospettiva, d'identificare il futile con l'importante e di far divenire la religione semplice conformità alla regole e il discorso religioso tedioso sofisma. Naturalmente il giudaismo non sfuggì completamente a questo pericolo. Ma la conformità meccanica non fu mai lo scopo dei migliori maestri della legge. Insistendo sui dettagli dell'obbedienza, essi non intendevano conferire pari valore alle minuzie e alle questioni più gravi, ma piuttosto sottolineare che qualsiasi trasgressione alla legge, per quanto piccola, era seria (vedi IV Maccabei 5, 19-21). In ogni cosa - nelle questioni capitali, in quelle d'affari, persino nelle maniere - bisognava ricordare Dio e il suo patto (Ecclesiastico 41,17-23), vale a dire la legge.
La legge era profondamente etica e coglieva e conservava quella nota morale fondamentale nella fede d'Israele sin dall'inizio. Questo si potrebbe documentare all'infinito. I maestri ebrei esaltavano continuamente il comportamento retto (Salmi 34, 11-16; 37, 28; Proverbi 16, 11; 20, 10; Tobia 4,14), il rispetto per i genitori (Tobia 4, 3; Ecclesiastico 3, 1-16), la sobrietà, la castità e la moderazione (Tobia 4, 12, 14 sg.; Ecclesiastico 31, 25-31), la misericordia e le elemosine (per es. Proverbi 19, 17; 22, 22 sg.; Tobia 4,10 sg.. 16; 12, 8-10; Ecclesiastico 4, 1-10; 29, 1, 8 sg.). Essi invitavano gli uomini ad amare Dio e i vicini e a perdonare coloro che li avevano offesi (T. Gad 6; T. Ben. 3, 3 sg.): «Ciò che non puoi soffrire tu, non farlo a nessun altro» (Tobia 4, 15). Ben lungi dall'incoraggiare l'aspetto esteriore della religione, essi dichiaravano i sacrifici dell'empio un abominio per Dio (Salmi 50, 7-23; Proverbi 15, 8; 21, 3, 27; Ecclesiastico 1, 8 sg.; 34, 18-26), affermando che egli richiedeva innanzitutto uno spirito obbediente e penitente (Salmi 40, 6-8; 51, 16 sg.; ecc.). Dobbiamo aggiungere che gli Ebrei devoti non consideravano un peso l'osservanza della legge. Al contrario, provavano per essa una gran gioia e amore (Salmi 1, 2; 19, 7-14; 119, 14-16, 47 sg., et passim; Ecclesiastico 1, 11 sg.). Essa forniva luce e guida nella vita (Salmi 119, 105; ecc.); chi accettava il suo giogo trovava protezione, pace e felicità (Ecclesiastico 6, 23-31). In effetti l'Ebreo, con immenso orgoglio, considerava la legge il segno distintivo della propria identità (Salmi 147, 19 sg.). Quell'orgoglio, anche se non sempre gradevole, suscitava una lealtà tale che un Ebreo sarebbe morto piuttosto che tradire e diede al popolo ebraico il coraggio di resistere sotto lo scudiscio di Antioco.
Non si può osservare la pietà devozionale del primo giudaismo e immaginare che la religione della legge fosse solo una cosa esteriore. Ad esempio i Salmi più tardi (Salmi 19, 7-14; 25; 51; 106) abbondano di umili confessioni di peccati, con una brama per la misericordia e il perdono divino, il desiderio della purificazione del cuore dinanzi a Dio, insieme a (Salmi 25; 37; 40; 123; 124) reiterate espressioni di pazienza nell'afflizione, d'incrollabile fiducia nella salvezza di Dio e gratitudine per la sua pietà. Altri testi del periodo rivelano le medesime caratteristiche: il senso del peso dei peccati (Esdra 9, 6-15; Neemia 9, 6-37; Tobia 3, 1-6), il desiderio di esserne liberati (Ecclesiastico 22, 27-23, 6), la devozione personale e la fiducia nell'efficacia della preghiera (Tobia 8; Ecclesiastico 38, 1-15; Preghiera di Avaria), insieme alla lode di Dio per le opere della creazione e la provvidenza (Ecclesiastico 39, 12-35). Caratteristico della religiosità postesilica è l'ideale di mansuetudine e umiltà: l'uomo pio è colui che, con sottomissione e completa fiducia, accetta le prove che Dio gli impone. Forse il concetto del Servo Sofferente contribuì notevolmente alla creazione di quest'ideale. Esso è abbastanza evidente nei salmi più tardi, dove il devoto fedele è «povero», «bisognoso», «umile», «mansueto» (Salmi 9, 18; 10, 17; 25, 9; 34, 2, 6; 37, 11; 40, 17; 69, 32 sg.; ecc.) e anche nella letteratura deuterocanonica del periodo (Ecclesiastico 1, 22-30; 2, 1-11; 3, 17-20). Ciononostante, la devozione ebraica non consisteva solo in atteggiamenti interiori, opere di carità, o nella diligente esecuzione dei doveri religiosi, bensì nell'osservare la legge: pietà, opere di bene e doveri religiosi dipendevano dalla legge. L'essenza della religione era amare la legge e obbedirle (Salmi 1; 19, 7-14; 119; Ecclesiastico 2, 16; 39, 1-11); la persona che agiva in questo modo poteva definirsi "religiosa".

L'assolutizzazione della legge


L'elevazione della legge appena descritta non rappresentò, come abbiamo cercato di chiarire, una rottura con l'antica religione d'Israele, ma un raccogliersi di quella religione attorno a uno dei suoi principali elementi. Quest'enfasi provocò una diminuzione dell'importanza di altri aspetti e un certo mutamento nell'intera struttura. In particolare, si nota una tendenza a liberare la legge dal contesto del patto, a cui in origine apparteneva, e a considerarla come qualcosa di eterno e immutabile. Questo significava un certo indebolimento di quel vivace senso della storia così caratteristico dell'antico Israele.
Nella letteratura più tarda si avverte una marcata attenuazione del concetto di patto e una tendenza a separarlo da una specifica connessione con gli eventi dell'esodo e del Sinai. Già nello strato sacerdotale del Pentateuco il termine "patto" non è più limitato all'evento costitutivo della storia d'Israele, sulla base del quale venne data la legge, ma è utilizzato in riferimento a vari rapporti tra Dio e l'uomo; diventa praticamente un sinonimo per alcune delle sue eterne e immutabili promesse. Così leggiamo di patti eterni con Noè (Genesi 9, 1-17), Abramo (Genesi 17) e Pinees (Numeri 25, 11-13). Nel racconto sacerdotale degli eventi del Sinai, l'accento non è posto assolutamente sul patto, ma sulla concessione della legge3". Analogamente, la letteratura più tarda conosce patti con Levi (Malachia 2, 4 sg., 8), Aronne (Ecclesiastico 45, 6 sg.), Finees (1 Maccabei 2, 54) e, naturalmente. Àbramo e Noè (Ecclesiastico 44, 17-21). È evidente un'attenuazione del concetto del patto.
La legge stessa, sebbene si ritenesse fosse stata concessa tramite Mosè, era considerata come qualcosa di assoluto e di eterno. Si possono osservare tracce di questo concetto nella più tarda letteratura biblica (per es. Salmi 119, 89, 160) e in Ben Sira (Ecclesiastico 16, 26-17, 24), ma l'apice si trova sicuramente nei Giubilei, in cui molte istituzioni disposte dalla legge vengono fatte risalire a tempi primordiali. Così lo Shabbat era celebrato dagli angeli e reiezione d'Israele annunciata al momento della Creazione (Giubilei 2, 15-33); la legge levitica della purezza si applicava nel caso di Eva (Giubilei 3, 8-14); la Festa delle Settimane era celebrata da Noè (Giubilei 6, 17 sg.) e quella dei Tabernacoli da Abramo (Giubilei 16, 20-31), che insegnò il rituale sacrificale a Isacco (Giubilei 21, 1-20), e così via. La legge appare quindi come una cosa eterna, dall'autorità assoluta, esistente prima del Sinai e prima d'Israele. Tutto è scritto nelle tavole celesti (Giubilei 3, 10; 4, 5; 5, 13, ecc.).
Come abbiamo accennato, tutto ciò indica una liberazione della religione dal contesto della storia. Non che, naturalmente, Israele dimenticasse gli eventi storici che l'avevano fatto nascere! Al contrario, esso li ricordava e li riaffermava ritualmente, come avviene ancora oggi. Ma la legge, separata dal suo contesto originale e resa soprastorica e assolutamente valida, da definizione degli obblighi della comunità sulla base del patto storico si trasformò nella base stessa degli obblighi e nella definizione del loro contenuto. La legge praticamente usurpò il posto del patto storico come base della fede, o, piuttosto, divenne quasi un suo sinonimo (per es. 2 Cronache 6, 11 ; Ecclesiastico 28, 7; 1 Maccabei 2, 27, 50). Violare la legge significava violare il patto (per es. 1 Maccabei 1, 14 sg.; Giubilei 15, 26); osservare il patto voleva dire osservare la legge. Si trovano persino brani in cui la legge è antecedente al patto: per esempio Ecclesiastico 44, 19-21, in cui ad Abramo è concesso il patto e le sue promesse perché egli ha osservato la legge ed è stato fedele (vedi i Maccabei 2, 51-60). Qui la legge cessa di essere la definizione della risposta indispensabile agli atti benigni di Dio e diventa lo strumento tramite cui gli uomini possono ottenere il favore divino e diventare degni delle promesse.
Sicuramente questo generò una profonda serietà morale e un gran senso della responsabilità individuale, ampiamente illustrati dall'eroismo con cui gli Ebrei devoti resistettero ad Antioco. Ogni Ebreo si sentiva obbligato a osservare il patto tramite la sua personale fedeltà alla legge. Ma questo ebbe come conseguenza una grande enfasi sugli obblighi dell'uomo e un'inevitabile diminuzione d'importanza della grazia divina. Nonostante la grazia di Dio non venisse mai dimenticata e continuassero gli appelli alla sua misericordia, in pratica la religione consisteva nell'adempiere agli obblighi della legge. Questo significava che il giudaismo correva il pericolo di cadere nel legalismo: cioè di diventare una religione in cui la posizione dell'uomo dinanzi a Dio è determinata esclusivamente dalle sue opere.
Anche se è improbabile che un Ebreo serio si vantasse di osservare la legge alla perfezione (vedi Ecclesiastico 8, 5), la rettitudine tramite la legge era considerata un fine, ottenibile, a cui tendere. Inoltre, si credeva che Dio avrebbe ricompensato con il suo favore coloro che a questo riguardo fossero stati fedeli (una fede che, come vedremo, avrebbe suscitato delle domande). Emerse anche il concetto che le buone azioni accrescevano il proprio merito dinanzi a Dio. Anche se si possono trovare accenni di questo pensiero nella letteratura biblica più tarda (per es. Neemia 13, 14, 22, 31), essi divennero assai frequenti negli scritti non canonici (per es. Tobia 4, 9; Ecclesiastico 3, 3 sg., 14; 29, 11-13; T. Levi 13, 5 sg.).
Non sta a noi discutere se questo indicasse una stima troppo ottimistica delle capacità dell'uomo, oppure una comprensione insufficiente della natura del peccato e delle richieste della legge. Sicuramente indica una tendenza verso l'esteriorizzazione della rettitudine che il giudaismo, nonostante la spiritualità dei suoi grandissimi maestri, non tenne mai a freno efficacemente. Per inciso, fu proprio a questo punto che Paolo ruppe radicalmente con la fede dei suoi padri.



Elementi della teologia del primo giudaismo



La comunità ebraica e il mondo


La situazione in cui si trovarono gli Ebrei inevitabilmente suscitò questioni in precedenza mai particolarmente sentite. Non ultima quella riguardante i rapporti tra la comunità e il mondo dei Gentili. Da una parte, il giudaismo tendeva a ritirarsi dal mondo e richiudersi in se stesso, mostrando talvolta un atteggiamento limitato e persino intollerante. Dall'altra, si avverte una preoccupazione vivace e appassionata per la salvezza delle nazioni, qualcosa di simile a un vero spirito missionario, assente nell'Israele preesilico dove tali idee erano, al massimo, latenti. Tra i due atteggiamenti esisteva una tensione che non venne mai risolta in modo convincente.



Fonti della tensione


Questa tensione affondava le proprie radici nella struttura della fede d'Israele e in sostanza non era nuova. Di fatto si collocava tra la fede monoteistica e la nozione di elezione. Israele aveva sempre ritenuto di essere un popolo speciale, scelto da Dio. Allo stesso tempo, esso aveva accordato al suo Dio - per quanto in maniera poco sistematica - un controllo sopranazionale, universale. Inoltre, credeva che il disegno di Dio fosse di stabilire il proprio dominio sulla Terra. Il fatto che ben presto questo trionfo implicasse la sottomissione di altre nazioni (per es. Salmi 2, 10 sg.; 72, 8-19) significava che era stata posta la questione del rapporto d'Israele con il mondo nell'economia divina, questione resa ancor più inevitabile dalla fede monoteistica. Ma, sebbene fosse abbastanza antica l'idea che la chiamata d'Israele avesse una ripercussione sui popoli del mondo (Genesi 12, 1-3, ecc.), che alcuni immaginassero che Yahweh guidasse gli affari di altre nazioni oltre a Israele (per es. Amos 9, 7) e altri cercassero persino di convenire gli stranieri al suo culto (1 Re 8, 41-43), in epoca preesilica la questione non era stata seriamente affrontata. Israele era una nazione con un culto nazionale; per quanto i residenti stranieri potessero essere assorbiti, non esisteva un impulso attivo al proselitismo.
Come abbiamo detto, l'esilio costrinse a una reinterpretazione della fede d'Israele e a un chiarimento della sua posizione di fronte alle nazioni del mondo e ai loro dèi. Abbiamo descritto come il Deuteroisaia proclamasse l'imminente trionfo del regno divino, invitasse le nazioni ad accettarlo e chiamasse Israele a essere testimone dinanzi al mondo del fatto che Yahweh era Dio. Sebbene egli non immaginasse assolutamente che Israele potesse essere privato della propria posizione eletta, il suo messaggio faceva posto ai Gentili tra il popolo di Yahweh e aveva un carattere decisamente missionario. Questo nobile ideale, ben lungi dall'essere accolto universalmente, non morì, ma venne perpetuato, come vedremo, dai discepoli del grande profeta. La restaurazione, tuttavia, non fornì un clima a esso favorevole. La situazione era troppo deludente e precaria per ammettere una tale larghezza di vedute. La comunità doveva lottare per la propria identità come "Israele" contro la gente di Samaria e altri residenti nel paese, la cui purezza religiosa era dubbia. Un mare di popoli pagani o semipagani la circondava da ogni lato. Era necessario tracciare delle evidenti linee di demarcazione perché la piccola comunità non si dissolvesse perdendo il suo carattere distintivo, come correva già il pericolo di perdere la propria lingua. Come abbiamo visto, era stato questo pericolo a spingere Neemia ed Esdra alle loro energiche misure separatistiche.
Da un punto di vista superficiale, potrebbe sembrare che la riorganizzazione della comunità voluta da Esdra ponesse il sigillo dell'esclusivismo e condannasse il giudaismo a un irrevocabile ritirarsi in se stesso. Sì e no. Essa servì a ridefinire più nettamente che mai la posizione d'Israele di fronte al mondo, ma al contempo la rese più fluida. Il nuovo Israele era contemporaneamente più ristretto e più vasto di quello antico: più ristretto, perché non tutti i discendenti dell'antico Israele potevano dichiarare di farne parte, ma solo quelli che osservavano la legge promulgata da Esdra; più vasto, perché - visto che la legge non lo proibiva, ma anzi ne teneva conto - fondamentalmente nulla vietava ai non Israeliti desiderosi di assumersi l'onere della legge di entrare nella comunità. La tensione tra universalismo e particolarismo, quindi, continuò, con l'appassionato desiderio per la conversione finale dei Gentili che andava di pari passo con quello di non dover mai trattare con loro. Questa tensione non sparì mai, ma quest'ultimo atteggiamento, forse comprensibilmente, ebbe in parte la meglio.



Tendenze particolaristiche: l'ideale del popolo santo


La natura stessa della comunità ebraica rese inevitabile un rigido separatismo. Il fatto che essa si fondasse sulla legge e s'impegnasse a dimostrarsi il vero Israele tramite l'osservanza della legge, poneva limiti alla tolleranza. Un tale ideale non avrebbe mai potuto realizzarsi se gli Ebrei avessero iniziato a mescolarsi agli stranieri o ad assimilarli in maniera troppo tollerante. Il problema che dovette affrontare la comunità non fu mai in pratica quello di cercare una strategia per realizzare le implicazioni universali della sua fede, ma piuttosto di stare alla larga dal mondo per proteggere la propria identità. Perché, se vi erano Ebrei limitati nel loro atteggiamento verso gli stranieri, esistevano anche Ebrei di mente aperta nel modo sbagliato. Molti di questi gradualmente soccombettero al fascino della cultura greca e vennero strappati dai loro ormeggi religiosi. E in effetti l'intera storia della comunità, culminante nella crisi dei Maccabei, dimostrava chiaramente che essa doveva restare separata, rimanere ebraica, o acconsentire alla scomparsa del giudaismo come entità a sé stante. Considerando ciò che avevano sofferto, non c’è da stupirsi che vi fossero Ebrei che odiavano i Gentili e li consideravano nemici di Dio e della religione.
L'accento sulla separazione domina tutta la letteratura del giudaismo. Si credeva fosse meglio che gli Ebrei evitassero il più possibile i contatti con i Gentili e che non diventassero assolutamente come loro (Epistola di Geremia, v. 5); soprattutto, non si doveva far sposare il proprio figlio o la propria figlia con uno di loro (Tobia 4, 12 sg.), perché questo non era diverso dalla fornicazione (Giubilei 30, 7-10). Vi era, comprensibilmente, il forte sentimento che gli Ebrei dovessero restare uniti come Ebrei se si volevano vincere le macchinazioni dei nemici (vedi Ester). Analogo all'avversione per gli stranieri era il disprezzo con cui gli Ebrei consideravano gli altri Israeliti che si erano allontanati dalla legge. Questi sono i «malvagi», gli «empi», i «derisori», con cui non si debbono aver rapporti (per es. Salmi); sono i «senza legge» che sono venuti a patti con i modi dei Gentili (per es. 1 Maccabei 1, 11). Gli ebrei devoti li guardavano con violenta indignazione mista a dolore (per es. Salmi 119, 53, 113, 136, 158) e li consideravano maledetti (per es. Ecclesiastico 41,8-10); alcuni affermavano persino che dovesse essere loro negata la carità (Tobia 4, 17). Ma era ai Samaritani che gli Ebrei riservavano il loro più profondo disprezzo. Ben Sira (Ecclesiastico 50, 25 sg.), collocandoli con spregio al di sotto di Edomiti e Filistei come gente particolarmente aborrita da Dio, esprime forse quelli che erano diventati i tipici sentimenti ebraici.
Accanto a questa chiusura nei confronti del mondo esterno si avverte un enorme orgoglio di sé. Gli Ebrei erano profondamente consci della loro posizione particolare e se ne vantavano. Senza dubbio come il Cronista (la cui narrazione ignora la storia del nord d'Israele), essi sentivano che l'ideale teocratico del retaggio d'Israele si era realizzato in loro. Erano orgogliosi di possedere la legge (per es. Salmi 147, 19 sg.; Tobia 4, 19), del loro status privilegiato come popolo di Dio (per es. Ecclesiastico 17, 17), di parlare la lingua usata da Dio nella creazione (Giubilei 12, 25 sg.) e che la loro Città Santa fosse il centro della Terra (Giubilei 8, 19; 1 Enoc 26).
Quest'orgoglio, per quanto apparentemente sgradevole, nasceva da un'appassionata preoccupazione per l'ideale del popolo santo e dalla convinzione che Israele non sarebbe mai potuto diventare ciò che doveva essere se si fosse mescolato tra le nazioni (per es. Giubilei 22, 16; vedi Aristea 128 sgg.). In qualunque modo lo si voglia considerare, fu un orgoglio che generò responsabilità; esso servì a tenere in vita la fede d'Israele, come mai avrebbe potuto uno spirito più tollerante. Ma contribuì a creare un clima poco interessato al benessere di pagani e peccatori. Sembra che l'atteggiamento predominante fosse di abbandonarli al loro meritato destino: un atteggiamento condannato, ma probabilmente senza alcun esito, dal libro di Giona.



La salvezza delle nazioni: tendenze universalistiche del giudaismo


Quella che abbiamo descritto, però, è solo una parte della verità, perché mai si perse completamente in Israele il senso di missione nel mondo -soprattutto dopo la chiara enunciazione delle implicazioni della fede monoteistica da parte del Deuteroisaia - ne si poté mai sopprimere il problema della posizione della nazioni all'interno dell'economia divina. Il Deuteroisaia aveva i suoi seguaci. I profeti del periodo della restaurazione, preoccupati com'erano della purezza religiosa della comunità, attendevano il tempo in cui gli stranieri si sarebbero affollati in Sion (per es. Isaia 56, 1-8; 66, 18-21; Zaccaria 2, 11; 8, 22 sg.; Malachia I, 11). Inoltre, la legge, ben lungi dal porre alcuna barriera, contemplava l'accoglienza di proseliti e accordava loro pari trattamento (Levitico 24, 22; vedi Ezechiele 47, 22). Per questo motivo, neppure il clima di separatismo diffuso dopo la riforma di Esdra bastò ad attutire l'interesse per radunanza delle nazioni. Nella letteratura del periodo è ripetutamente espressa la credenza secondo cui le nazioni del mondo - o almeno i loro sopravvissuti - si volgeranno infine al Dio d'Israele, e nel culto del secondo Tempio veniva proclamata la sovranità universale di Yahweh e il suo trionfo escatologico su tutti i popoli (per es. Salmi 9, 7 sg.; 47; 93; 96-99)". Non mancavano coloro che sentivano l'obbligo di convertire alla loro fede i Gentili e che erano irritati dalla limitatezza dei loro confratelli e dal fatto che essi non prendessero sul serio la loro missione nel mondo. L'autore del libro di Giona ne era uno, e altri non erano da meno (per es. Isaia 19, 16-25; Salmi 87). E vi erano Ebrei, consci dei propri peccati e della necessità del perdono, che desideravano insegnare ai peccatori e portarli al servizio del loro Dio.
Lo spirito sopravvisse anche quando il giudaismo si ritirò progressivamente in se stesso sotto l'impatto della cultura dei Gentili. Si mantenne la fede che le nazioni un giorno si sarebbero volte al culto di Dio (per es. Tobia 13, 11; 14, 6 sg.; i Enoc 10,21 sg.); Dio le avrebbe visitate con la sua tenera misericordia (T. Levi 4, 4) e avrebbe salvato i Gentili retri insieme a Israele (7: Nef. 8, 3). Vi era chi sentiva l'obbligo di testimoniare la propria fede dinanzi alle nazioni (per es. Tobia 13, 3 sg.) e che comprendeva che un comportamento indegno disonorava Dio ai loro occhi (per es. T. Nef. 8, 6). E vi era anche chi, quale che fosse l'orgoglio per la propria condizione di Ebreo, non attribuiva alla sua razza alcuna intrinseca superiorità (per es. Ecclesiastico 10, 19-22), vedendo persino nei buoni Gentili delle qualità che potevano giovare agli Ebrei (7: Ben. 10, 10). E, nonostante il giudaismo non divenisse mai una religione missionaria con un programma attivo di proselitismo, vi erano Ebrei che erano felici di accogliere adepti (vedi Giuditta 14, 10). Lo attesta il fatto che vi furono dei proseliti (prima del periodo del Nuovo Testamento un po' ovunque). 



Riflessioni teologiche nel primo giudaismo



Nella letteratura del primo giudaismo si incontra la tendenza alla riflessione teologica e a un certo grado di sofisticazione del pensiero sconosciuti all'antico Israele. Sebbene questa tendenza sia più evidente in seguito, essa è osservabile nel periodo che stiamo trattando. La situazione della comunità ebraica, per non parlare dell'esperienza personale di molti individui, era tale da suscitare problemi inevitabili. Inoltre, la diffusione dell'ellenismo generò un fermento di nuove idee e un nuovo modo di pensare che inevitabilmente lasciarono il segno nel pensiero ebraico. Gli Ebrei furono portati a esplorare aree fino ad allora mai toccate. E facendo ciò, prendendo spesso in prestito per i loro scopi concetti di origine greca o iranica - o, nel caso di gruppi con tendenze escatologiche, derivati dalla letteratura fenicia e aramaica - sicuramente credenze prima sconosciute ottennero un posto nella teologia ebraica.



Il regno e la provvidenza di Dio


Nel giudaismo trionfava il monoteismo. La polemica dei profeti contro gli idoli aveva portato i suoi frutti e la legge vi aveva posto il sigillo. Quali che fossero le sue mancanze, la religione della legge era solidamente monoteistica; non faceva alcuna concessione all'idolatria e considerava con disprezzo gli dèi pagani (per es. Salmi 135, 15-21; Epistola di Geremia; Giubilei 21, 3-5). A giudicare dalla letteratura del periodo del secondo Tempio, l'idolatria cessò presto di essere un problema all'interno della comunità. Nonostante gli Ebrei siano aspramente rimproverati per ogni sorta di peccato, morale e sociale, e sia ripetutamente denunciato il lassismo nell'osservanza della legge, mancano le accuse di idolatria. I culti pagani non erano ammessi in Giuda dopo la restaurazione; gli Israeliti che vi partecipavano non erano considerati Ebrei. Gli Ebrei potevano dilettarsi di astrologia, o credere nella magia, ma adorare gli idoli, mai. E in effetti al tempo in cui l'idolatria tomo a essere un problema, con le persecuzioni seleucidi, si può dire che la battaglia era già stata vinta internamente. Sebbene singoli individui potessero apostatare, il giudaismo stesso non poteva temporeggiare con gli idoli, come talvolta aveva fatto la religione ufficiale dell'antico Israele; l'asprezza con cui resistette ad Antioco ne è una prova. Il monoteismo ebraico era intransigente. Persino quanto s'insinuarono tendenze dualistiche, esse non poterono concretizzarsi perché nel giudaismo e'era posto solo per un Potere Supremo che era sopra tutte le cose.
Il giudaismo affermava in modo sistematico che tutte le cose si manifestavano sotto il dominio e la provvidenza di Dio, che è onnipotente e giusto e le cui vie sono imperscrutabili (per es. Ecclesiastico 18, 1-14; 39, 12-21; 43, 1-33). Egli governa tutto secondo la sua legge, che è valida in eterno, immutabile e sicura (per es. Giubilei, passim); per mezzo di quella legge egli ricompensa ognuno secondo i propri meriti (per es. Ecclesiastico 35, 12-20; 39, 22-27). Tutti gli eventi hanno luogo nella sua prescienza (per es. Ecclesiastico 42, 18-21) e sono portati a compimento secondo i suoi eterni disegni. Il giudaismo riuscì davvero a combinare un rigidissimo concetto di predestinazione con la convinzione che ogni individuo è al tempo stesso pienamente responsabile delle proprie scelte (per es. Ecclesiastico 15, 11-20).
Soprattutto verso la fine del nostro periodo, diventano sempre più evidenti le speculazioni sui misteri divini. Sebbene gli Ebrei più razionali dichiarassero che le vie di Dio non potevano essere comprese (per es. Ecclesiale 3, 11; 5, 2; 8, 16 sg.; Ecclesiastico 3, 21-24), ve n'erano altri con tendenze fortemente escatologiche (pensiamo soprattutto al libro dei Giubilei e alle sezioni più antiche di 1 Enoc). Così il libro dei Giubilei organizza la storia secondo il modello ordinato degli Shabbat dell'anno, mentre l'Apocalisse delle Settimane (1 Enoc 93, 1-14; 91, 12-17) divide in dieci settimane l'intero corso degli eventi dalla creazione al giudizio universale (vedi anche i periodi del mondo nel libro di Daniele). I Giubilei ed Enoc riferiscono come vennero rivelati ad Enoc i segreti celesti. Le elaborate descrizioni (1 Enoc 12-36) dei viaggi di Enoc ai confini della Terra, nello Sheol e in Paradiso, nel corso dei quali egli apprende i misteri del cosmo, attingono a piene mani da concetti in origine diffusi nella mitologia dei vicini d'Israele. Ma queste speculazioni, per quanto fantastiche, sono la prova di uno spirito indagatore profondamente interessato ai problemi fondamentali della divina Provvidenza.



Angeli e intermediari


La progressiva esaltazione di Dio portò con sé una serie di interessanti conseguenze teologiche. Tanto per cominciare gli Ebrei non si avvicinarono al loro Dio con familiarità. Si parlò sempre meno di Dio in termini antropomorfici. Poiché Dio veniva elevato al di sopra dei contatti personali con le vicende umane, si accentuò il ruolo di angeli e intermediari e crebbe persino una sorta di riluttanza a pronunciare il nome divino. Non si sa con certezza quando cessò di essere pronunciato il nome di Yahweh, ma sembra che nel III secolo fosse già diffuso un pregiudizio generale. Al suo posto si svilupparono una serie di surrogati, così tanti che elencarli tutti risulterebbe noioso. Si faceva riferimento alla divinità chiamandola Dio o Signore, o Dio del Cielo o Re del Cielo (per es. Tobia 10, 11; 13,7) o semplicemente Cielo (per es. 1 Mc 3,18 sg; 4,40), o Signore degli Spiriti (1 Enoc 60, 6, ecc.). Signore dei Giorni (1 Enoc 60, 2; vedi Daniele 7, 9, 13), la Grande Gloria (1 Enoc 14, 20), ecc. L'appellativo più diffuso, però, sembra che fosse quello di Altissimo. Si sviluppò anche la tendenza a sostituire al suo nome alcuni aspetti o proprietà della divinità: per es. la Divina Sapienza, la Divina Presenza, il Verbo Divino.
Da questa tendenza deriva a volte la personificazione - talvolta praticamente l'ipostatizzazione - della proprietà in questione. Nel nostro periodo, è frequentemente personificata la Sapienza, soprattutto nei Proverbi e in Ben Sira. Sebbene spesso non si tratti che di un artificio poetico, vi sono punti in cui bisogna intenderla in modo abbastanza letterale (vedi in particolare Proverbi 8; 9 [8, 22-31]; Ecclesiastico 1, 1-10; 24, 1-34; anche, di un periodo leggermente posteriore, Sapienza 7, 25-21 ; 9, 9-12; 1 Enoc 42, 1 sg., ecc.). La sapienza personificata non ha nulla di essenzialmente ellenico, ma, vista la sua attestazione nei Proverbi di Ahiqar (circa vi secolo), in definitiva deriva dal paganesimo cananeo-aramaico. Il testo di Proverbi Capitoli 8 e 9 deve risalire a un originale cananeo del VII secolo circa, che affonda le sue radici in una tradizione ancora più antica: la Sapienza personificata ha preso il posto di un'antica dea della sapienza37. Questo non offendeva gli Ebrei ortodossi, dal momento che essi interpretavano il concetto in modo simbolico e non consideravano assolutamente la Sapienza una divinità subordinata; difatti, in alcuni brani (per es. Ecclesiastico 24 e Proverbi, passim), la Sapienza è chiaramente un sinonimo per la legge eterna. Vi era tuttavia un pericolo. Nella Sapienza gradualmente considerata un'emanazione della divinità (per es. Sapienza 7, 25-27), essa stessa contrapposta alla materia, si può vedere l'inizio dello gnosticismo ebraico. Dobbiamo aggiungere che nel concetto parallelo di Verbo Divino (ancora una volta di antichissima origine semitica, e non ellenica), che svolse un ruolo minore nel pensiero ebraico ma che è attestato dopo il nostro periodo (Sapienza 18, 15 sg.), possiamo forse vedere una parte del contesto del Logos cristiano.
Come Dio era elevato al di sopra del contatto diretto con le sue creature, veniva attribuito un importante ruolo ai suoi agenti angelici. Si sviluppò un'elaborata angelologia. Naturalmente si era sempre immaginato Yahweh circondato da servitori celesti, ma il giudaismo sviluppò questa caratteristica come mai prima d'allora. Gli angeli appaiono come personalità specifiche dotate di nomi. Compaiono ripetutamente (Tobia 3, 17; 5, 4; Daniele 8, 16; 10, 13; 1 Enoc 9, 1, ecc.) quattro arcangeli (Michele, Gabriele, Raffaele, Uriele). Apparentemente in seguito (ma già in Tobia 12, 15) il loro numero salì a sette; 1 Enoc 20 ne elenca sette, ognuno con una ben definita funzione, e li definisce «gli angeli che vigilano» (vedi Daniele 4, 13, 17, 23; ma in Giubilei, i Enoc, ecc. I Vigilanti sono gli angeli caduti). Sebbene l'idea di sette angeli principali sia forse di origine iranica, poiché i nomi dei quattro originari sono di un tipo comune nella nomenclatura del X secolo, e anche prima, le personalità di questi angeli presumibilmente derivano da antiche credenze popolari che non possiamo ricostruire. Sotto gli arcangeli vi era un'intera gerarchia di angeli -«migliaia di migliaia e diecimila volte diecimila» (per es. 1 Enoc 60, 1) - tramite cui (vedi Giubilei, passim) Dio trattava i suoi affari con gli uomini. Nonostante quest'angelologia non rappresentasse un travisamento della fede d'Israele, ma piuttosto uno sviluppo esagerato di uno dei suoi elementi primitivi, introdusse il pericolo, come sempre avviene con simili credenze, che nella religione popolare esseri minori s'insinuassero tra l'uomo e il suo Dio.



Il problema del male e la giustizia divina: Satana e i demoni


II problema del male e del suo rapporto con la giustizia divina fu, assai comprensibilmente, particolarmente vivo dal periodo dell'esilio in poi. L'umiliazione della nazione e le sofferenze degli individui richiedevano una spiegazione. Nell'antico Israele si supponeva che il male fosse il castigo per una colpa; e, come abbiamo visto, in quella luce i profeti avevano spiegato il crollo della nazione. A dire il vero, il Deuteroisaia era andato oltre e aveva invitato Israele ad accettare le proprie sofferenze come parte del disegno di redenzione di Yahweh. Possiamo tuttavia immaginare che questa spiegazione fosse troppo rarefatta per attrarre le masse, anche se, come abbiamo notato precedentemente, s'impose l'ideale di una religiosità umile e sottomessa. Tutto Israele aderì all'equazione ortodossa nella sua più rigida forma: il peccato porta al castigo fisico, la rettitudine al benessere materiale, in questa vita. Ma questa netta ortodossia, sebbene non priva di una sua verità, non era adeguata a risolvere la questione, come indica assai chiaramente quel profondissimo turbamento relativo al problema che il mondo antico ci ha trasmesso con il libro di Giobbe. Ma lo sapevano anche uomini di minore importanza, e se ne lamentavano (Malachia 2, 17; 3, 14).
Ciononostante, il giudaismo in generale era incline ad accontentarsi della spiegazione ortodossa. Dal Cronista (400 ca.), con il suo senso di una rigida relazione causale tra colpa e castigo, fino alla fine del nostro periodo, nonostante le esperienze più amare, è ripetutamente espressa la fiducia nel fatto che Dio ricompenserà i giusti con cose buone e punirà i malvagi. Ma alcuni erano consci del problema e vi lottavano fino ai limiti della soluzione ortodossa, se non oltre (Salmi 49; 73); altri vedevano nelle loro sofferenze una punizione o una prova e ringraziavano Dio per essa (Salmi 119, 65-72; Proverbi 3, 11 sg.; Giuditta 8, 24-27). Naturalmente, gli Ebrei sapevano che gli innocenti spesso soffrivano. E se l'avessero dimenticato, glielo avrebbe ricordato Antioco! I fatti della vita mettevano continuamente alla prova la teodicea ortodossa. Il Qoelet (Ecclesiaste) arrivò persino a metterne in dubbio l'intera validità (Ecclesiaste 2, 15 sg.; 8, 14 sg.; 9, 2-6)"'. Questo, a dire il vero. non era un atteggiamento tipico. Ma per quanto Ben Sira (Ecclesiastico 3, 21-24) potesse consigliare ai suoi seguaci di non tormentarsi con cose al di là della loro comprensione, il problema sussisteva.
Mentre gli Ebrei erano alle prese con questo problema, s'iniziò a porre grande enfasi sul ruolo di Satana e dei suoi servitori. Tradizionalmente, Israele taceva risalire la buona e la cattiva sorte - e, a volte, le azioni umane considerate peccaminose (per es. 1 Samuele 18, 10 sg.; 2 Samuele 27) - al volere di Dio. Nel periodo postesilico, tuttavia, crebbe la tendenza ad attribuire il male a Satana. La figura di Satana sviluppò l'antico concetto dell'accusatore angelico, la cui funzione era di agire, per così dire, in qualità di "pubblico ministero" alla corte celeste (vedi / Rè 22, 19-23); nelle prime citazioni {Giobbe 1; 2; Zaccaria 3) Satana non è un nome proprio, ma "il Satana" (avversario). In seguito, però. Satana compare come un essere angelico che tenta gli uomini (/ Cronache 21, 1 ; e vedi 2 Samuele 24, 1 !) e, ancora dopo, come il capo degli invisibili poteri che si oppongono a Dio (così nel libro dei Giubilei, ma soprattutto nei Testamenti dei dodici patriarchi ), variamente denominato Satana, Mastema, o Beliar (Belial).
Alleate di Satana erano le schiere di angeli caduti (chiamati Vigilanti nei libri dei Giubilei, di Enoc e nei Testamenti dei dodici patriarchi), alcuni dei quali erano diventati nella credenza popolare personalità distinte, con dei propri nomi: per es. Asmodeo (Tobia 3, 8, 17) o quelli elencati con il loro capo Semyaza in 1 Enoc 6. La funzione di questi angeli caduti era di tentare gli uomini, condurli al peccato e contrastare i disegni di Dio (vedi Giubilei, passim). Nei Testamenti dei dodici patriarchi emergono precise tendenze dualistiche. Dio lotta contro Beliar, luce contro tenebre, lo spirito dell'errore contro lo spirito della verità, lo spirito dell'odio contro lo spirito dell'amore (per es. T. Levi 19; T. Giuda 20; T. Gad 4). Due vie si presentano all'uomo: seguire la buona inclinazione ed essere governato da Dio, oppure seguire quella malvagia ed essere guidato da Beliar (per es. T. Aser 1). Questa tendenza dualistica potrebbe derivare indirettamente da un'influenza iranica, ma non è certo. A quanto pare non fu ben accolta da alcuni maestri ortodossi e la sua importanza diminuì nel giudaismo più tardo. Ma essa godette di grande popolarità nei circoli settari, come dimostrano i testi di Qumran, ed esercitò sulla teologia cristiana un'influenza particolarmente evidente nella letteratura giovannea e nelle lettere di Paolo.




La giustizia divina: giudizio e ricompense dopo la morte



Il primo giudaismo offre una chiara testimonianza di un'emergente fede nella resurrezione dei morti non attestata nella letteratura preesilica. Questa fede era indubbiamente necessaria se la giustizia divina doveva accordarsi ai brutali fatti dell'esperienza umana. I più attenti, che non potevano fare a meno di osservare che - quale che fosse l'insegnamento ortodosso - il male spesso restava impunito e che la rettitudine non veniva ricompensata in questa vita, furono spinti sempre più a cercare una soluzione del problema oltre la tomba. Il concetto di ricompensa e castigo dopo la morte potrebbe derivare in parte dall'antica religione iranica, dove erano diffuse tali credenze. Ma l'influenza di antiche credenze popolari connesse al culto dei morti fu probabilmente maggiore di quanto è stato finora supposto. L'antico Israele sicuramente conosceva una serie di credenze e pratiche legate alla venerazione dei defunti, alla divinazione e simili. Anche se queste furono drasticamente soppresse dalla reazione profetica perché contenevano elementi incompatibili con lo yahwismo normativo, quasi sicuramente esse proseguirono nel sottosuolo per ricomparire in seguito in forma differente e con una giustificazione logica completamente diversa, fornendo cosi l'humus per la crescita della fede popolare in una vita futura. A ogni modo, l'idea di una resurrezione iniziò ad apparire sporadicamente e in via sperimentale nella più tarda letteratura biblica e nel il secolo era una credenza ormai radicata.
Tuttavia, nell'Antico Testamento le tracce di una tale credenza sono poche e in gran parte ambigue. Alcuni ne hanno trovate nei salmi (Salmi 49, 14 sg.; 73, 25-25, ecc.). Sebbene questo non sia accertato e le opinioni si dividano, considerando ciò che abbiamo detto, non si dovrebbe negare troppo alla leggera una tale interpretazione42. La resurrezione dei giusti defunti (Isola 26, 19) è probabilmente insegnata nel 1'Apocalisse d'Isaia, sebbene anche questo sia messo in dubbio43. Solo nel libro di Daniele (Daniele 12, 1 sg.) vi è la prova della credenza che i giusti e i malvagi risorgeranno a una vita eterna o a perpetua vergogna, rispettivamente; e anche in questo caso la resurrezione è selettiva, non universale. Fino al li secolo altri autori o non sapevano nulla di una tale fede o la negavano esplicitamente. Tra questi sono lo scettico Qoelet (Ecclesiaste 2, 15 ss.; 3, 19-22; 9, 2-6) e gli ortodossi Antigono di Socho (secondo il Pirke Aboth 1, 3) e Ben Sira (Ecclesiastico 10, 11; 14, 11-19: 38, 16-23) che, inoltre, dichiara che l'immortalità di un uomo è nei suoi figli (Ecclesiastico 30, 4-6).
È chiaro, quindi, che alla fine del periodo veterotestamentario la credenza in una vita futura non era per nulla unanime. I tradizionalisti protosadducei come Antigono e Ben Sira la contrastavano, sicuramente perché la consideravano un'innovazione senza alcun precedente nella tradizione, mentre altri, da questo punti di vista antenati dei Farisei, erano spinti ad accettarla perché solo così la giustizia di Dio, che rifiutavano di mettere in discussione, si accordava ai fatti dell'esperienza umana. Le persecuzioni di Antioco sicuramente diedero il voto decisivo: degli uomini giusti venivano brutalmente messi a morte, o perdevano la vita lottando per la fede e la credenza che Dio avrebbe fatto valere la sua giustizia oltre la tomba divenne una necessità assoluta per la maggioranza degli Ebrei. Nel II secolo, e dopo, come vedremo da 1 Enoc, dai Testamenti dei dodici patriar-chi e da altri scritti, ebbe il sopravvento la fede in una resurrezione universale e in un giudizio finale. Era una nuova dottrina, ma era necessaria per completare la struttura della fede d'Israele, se si voleva che questa fosse sostenibile. Nonostante i Sadducei non vi acconsentissero mai (vedi Marco 12, 18-27), essa si diffuse tra gli Ebrei e venne trionfalmente riaffermata nei vangeli cristiani.



La speranza futura del primo giudaismo



Caratteristica del giudaismo emergente, accanto all'esagerata enfasi posta sulla legge, era la sua intensa preoccupazione per l'imminente conclusione del disegno divino. Sebbene questa naturalmente proseguisse la tradizione della promessa inerente alla fede d'Israele, anche qui, come in altri casi, si osservano sviluppi significativi. La speranza nazionale d'Israele preesilico, liberata dagli antichi modelli e proiettata nel futuro, alla lunga si mutò in un'escatologia perfettamente formata, anche se non elaborata in maniera coerente. Nel corso del processo, vennero reinterpretate vecchie forme e ne furono accolte di nuove.



L'esilio e la reinterpretazione della speranza d'Israele



Descrivere la speranza d'Israele preesilico come un'escatologia o meno è solo questione di definizione, ma la fede d'Israele aveva sempre avuto una tendenza escatologica, per il fatto che essa attendeva con ansia il trionfo del disegno e del regno di Yahweh. Tuttavia, in Israele preesilico, la speranza era legata alla nazione esistente ed era vista come la continuazione e la fine della storia nazionale. Si credeva che Yahweh avrebbe stabilito fermamente Israele, gli avrebbe concesso la vittoria sui nemici e una felicità eterna sotto il suo benefico dominio. Tali erano le speranze popolari attribuite al Giorno di Yahweh e alla teologia ufficiale dello Stato davidico, in cui affonda le radici il concetto del Messia. Sebbene i profeti, condannando la nazione per i suoi peccati e facendone dipendere il benessere dall'obbedienza, spingessero la speranza oltre l'ordine esistente e l'imminente giudizio, la speranza popolare continuò finché durò la nazione.
Tuttavia, l'esilio pose fine a tutto questo. Non fu più possibile la speranza in una perpetua esistenza della nazione, o nell'arrivo di un ideale davidico - forse il prossimo - che avrebbe ristabilito le sorti del paese. Con il crollo della nazione la speranza fu strappata dalle sue radici nel culto nazionale e nella teologia dinastica, ma non avendo avuto origine con la monarchia, non finì con essa. I profeti dell'esilio la alimentarono individuando un nuovo e definitivo intervento, un nuovo esodo, tramite cui Yahweh avrebbe liberato il suo popolo dalla schiavitù e lo avrebbe nuovamente posto sotto il suo dominio. Sebbene in questa visione siano presenti echi dell'antica speranza dinastica (per es. Ezechiele 34, 23 sg.; 37, 24-28), essi non sono fondamentali e nel Deuteroisaia sono assenti quasi del tutto. Gli esuli ebrei attendevano il gran giorno della disfatta di Babilonia e della liberazione d'Israele (per es. Isaia 13, 1-14, 23; 34; 35; 63; 64). Perciò il Giorno di Yahweh, un tempo giorno della giustificazione della nazione, trasformato dai profeti nel giorno del giudizio nazionale, assumeva nuova importanza come giorno in cui Yahweh, nel contesto della storia, avrebbe giudicato il potere dei tiranni e avrebbe ristabilito il suo popolo nella propria terra.
Ma la restaurazione, che portò la realizzazione di questa speranza, recò anche frustrazione. Come abbiamo notato in precedenza, essa non corrispondeva neanche lontanamente alle brillanti promesse dei profeti. Nonostante il ritorno in Palestina e la ricostruzione del Tempio, la realizzazione della speranza risiedeva ovviamente nel futuro. Ne poteva essa manifestarsi in un revival dell'antica teologia dinastica, come la vicenda di Zo-robabele aveva crudelmente chiarito. La speranza non avrebbe mai più assunto le vecchie forme, ne sarebbe stata paga del presente o di sviluppi del presente. Doveva trovare nuove forme o arrendersi. Ma sebbene alcuni volessero forse considerare la teocrazia postesilica una realizzazione sufficiente del disegno divino nella storia e non curarsi del futuro, il giudaismo nel suo insieme non poteva seguire questo corso, che avrebbe significato rinunciare a un elemento fondamentale delle fede ancestrale d'Israele, privandola di ogni senso della storia e snaturandone così il carattere essenziale. Anche se l'assolutizzazione della legge conferì al giudaismo una certa staticità, esso non arrivò mai a questi estremi. Il giudaismo mantenne la speranza futura e la intensificò, non aspettandosi più uno sviluppo dalla situazione attuale, ma piuttosto un cambio radicale e l'inserimento nel presente di un nuovo e diverso futuro.



Sviluppi escatologici alla fine del periodo veterotestamentario



Nel periodo postesilico, molte forme in cui la speranza si era espressa in precedenza svolsero un ruolo minore. Il Messia (re davidico) è scarsamente menzionato nell'Antico Testamento dopo Aggeo e Zaccaria. A dire il vero, l'escatologia ebraica, essendo fondamentalmente nazionalistica, si rifece abbastanza naturalmente all'ideale di Davide. Così, ad esempio, Abdia cercava una restaurazione nel Giorno di Yahweh più o meno entro i confini davidici (Abdia 15-21); e persino il Cronista, per quanto poco escatologo, desiderava un ripristino delle istituzioni cultuali nazionali «secondo le prescrizioni di Davide» (Esdra 3, 10; Neemia 12, 45, ecc.). Ma a parte brani quali Zaccaria 9, 9 sg.; 12, 1-13, 6, manca un legame specifico tra la speranza e una figura regale o della casa di Davide. Questo non significa che cessasse l'attesa di un Messia. Nei Testamenti dei dodici patriarchi si attende un re originario di Giuda, sebbene questo venga offuscato in dignità dal sommo sacerdote di Levi (la setta di Qumran era ugualmente in attesa di un Messia di Aronne e di un Messia di "Israele", il primo dei quali aveva posizione preminente). E, naturalmente, continuò forte ai tempi del Nuovo Testamento la speranza in un Messia politico. Ma il Messia non svolge un ruolo fondamentale nell'escatologia ebraica. E anche dove sono presenti specifiche speranze messianiche, esse non sono collegate all'ordine esistente, come nell'antico Israele, ma riguardano una figura inviata da Dio per introdurre un nuovo ordine. Nella letteratura apocalittica, la figura del Messia tende a confondersi con quella di un redentore celeste che giungerà negli ultimi giorni.
Altri antichi modelli svolsero un ruolo ugualmente poco importante. Molti probabilmente ritenevano che la comunità della legge fosse il resto purificato d'Israele a cui era stato dato il nuovo patto: gli Ebrei devoti costituivano la comunità al centro di cui era la legge (Salmi 37, 31 ; 40, 8; vedi Geremia 31, 31-34), A dire il vero, alcuni non erano soddisfatti di questa visione: ad esempio i mèmbri della setta di Qumràn, che ritenevano di essere loro il popolo del nuovo patto; e i cristiani, che affermavano che il nuovo patto era stato dato da Gesù Cristo. Ma nonostante gli Ebrei guardassero oltre la loro era malvagia, a un futuro di più perfetta obbedienza alla legge (per es. Giubilei 23, 23-31), la speranza di un nuovo patto svolse in generale un ruolo minore nel loro pensiero. Sentiamo parlare ancor meno del Servo di Yahweh. In effetti la letteratura del periodo presenta scarsissime tracce di un mansueto e umile redentore. Sebbene Israele comprendesse chiaramente di doversi mostrare servo di Dio anche nelle sofferenze, e sebbene facesse di umiltà e sottomissione l'ideale della sua devozione, non sembra che esso vide mai nel Servo di Yahweh il modello della redenzione futura.
In tutto il periodo postesilico, il modello dominante di speranza è quello del Giorno di Yahweh di cui abbiamo parlato precedentemente. Una descrizione sistematica di questo evento, evidenziato in tutta la più tarda letteratura profetica, è impossibile viste le diverse forme in cui si presenta. Talvolta implica la restaurazione della nazione (Abdia), altre volte è visto come il giudizio purificatore di Dio sul suo popolo (per es. Malachia Capitoli 3; 4), altre volte ancora come ringiovanimento della nazione dopo il giudizio (per es. Isaia 65 sg.), altrove come un riversarsi di doni carismatici insieme a terribili prodigi (per es. Ciocie 2, 28-32). Particolarmente importante è l'immagine del conflitto escatologico tra Dio e i suoi nemici presente in diversi brani (per es. Ezechiele Capitoli 38; 39; Ciocie 3; Zac-caria 14).
Comune a tutti questi è il concetto di un attacco finale delle nazioni contro Gerusalemme, in cui Dio interviene con cataclismi e portenti, sconfìggendo il nemico con un tremendo massacro e ristabilendo il suo popolo per sempre in pace. Simile è la cosiddetta apocalisse di Isaia Capitoli 24-27. Qui, il Giorno di Yahweh giunge con tutta la forza distruttrice di un nuovo diluvio {Isaia 24, 18), annientando i malvagi; dopo che i nemici di Yahweh, celesti e terrestri, sono stati incatenati (Isaia 24, 21 sg.), segue l'intronizzazione di Dio e la festa per l'incoronazione (Isciiu 24, 23; 25. 6-8); la morte è abolita, i giusti risorgono (Isaia 26, 19) e il nemico, il mostro Leviatano (Isaia 27, 1), ucciso.
Quindi, l'atteso eschaton, per quanto ancora visto nel contesto della storia, non era concepito come una continuazione, o un radicale miglioramento dell'ordine esistente, come era anticamente, bensì come un'intervento divino catastrofico che avrebbe generato un ordine nuovo e differente.Anche se questo nuovo ordine ricatturava tutte  le glorie del passato, reali o immaginarie, non era tuttavia una semplice ricreazione del passato, ma una nuova era che sarebbe emersa dopo il giudizio come conclusione dei disegno divino nella storia. Gli ebrei attendevano quest'acme e non solo quelli con tendenze escatologiche, ma tutti. Persino una persona così moderata come Ben Sira si rivolge a Dio perché affretti il giorno dell'adunanza d'Israele, quando Sion sarà glorificata, tutte le profezie realizzate e Dio riconosciuto come Dio di tutte le nazioni (Ecclesiastico 36,1 -17).


La comparsa dell'apocalittica


Mentre si concludeva il periodo veterotestamentario, l'escatologia ebraica iniziò a esprimersi in una nuova forma nota col nome di apocalisse ed entrò in una nuova fase. Il genere apocalittico godette di enorme popolarità, almeno in certi circoli, tra il II secolo a.C. e il I dell’era cristiana. Sebbene la Bibbia contenga solo due esempi di letteratura apocalittica - Daniele e l’apocalisse - venne prodotta una serie di scritti simili non ammessi nel canone. Nonostante il grosso di questi scritti sia databile dopo il periodo che stiamo trattando, è necessario dire qualche parola se vogliamo che la nostra descrizione dell'escatologia del primo giudaismo risulti completa.
Apocalisse significa "rivelazione". Essa si propone in un linguaggio esoterico di svelare i segreti ed esporre il programma degli ultimi eventi, ritenuti imminenti. Non è possibile una descrizione sistematica dell'apocalittica, perché essa stessa non fu sistematizzata, come sa bene chi abbia studiato con attenzione gli pseudoepigrafi. Gli autori di questi scritti erano convinti che quell'era stesse volgendo al termine e che eventi del loro tempo indicassero che la lotta cosmica tra Dio e il male, di cui la storia mondana era il riflesso, stava per raggiungere il proprio apice. Essi si preoccupavano di descrivere l'imminente epilogo, il giudizio finale, il riscatto degli eletti e la loro felicità nella nuova era che stava per sorgere. L'apocalittica è caratterizzata dall'artificio della pseudonimia. Poiché l'era delle profezie era terminata, gli autori apocalittici, essendo le loro opere di natura profetica, furono costretti a mettere le loro parole in bocca ai profeti di un tempo. Essi amavano descrivere bizzarre visioni in cui le nazioni e i personaggi storici apparivano come bestie misteriose. Cercavano, manipolando numeri, di calcolare il momento esatto della fine, comunque imminente. Reinterpretavano le parole degli antichi profeti per dimostrare come esse si fossero realizzate o fossero sul punto di esserlo. Si osserva una marcata tendenza dualistica. La lotta della storia è vista come il riflesso della lotta cosmica tra Dio e Satana, luce e tenebre. Il mondo, traviato da angeli caduti e contaminato dal peccato,deve essere giudicato: è un mondo malvagio, un mondo in rivolta contro Dio, un mondo secolare, quasi un mondo demoniaco. Ma non si dubitava che Dio controllasse la situazione e che presto sarebbe venuto a giudicare il mondo, consegnando al castigo eterno Satana, i suoi angeli, e tutti coloro che gli avevano obbedito, e salvando i propri seguaci. Qui l'escatologia compare in una nuova dimensione. Non si attende più una svolta nella storia, per quanto drammatica, bensì un nuovo mondo (età) oltre la storia.
Gli antecedenti dell'apocalittica sono vari e complessi. Dal punto di vista teologico, le sue radici principali affondano nella speranza futura d'Israele, particolarmente in quella sviluppala nella predicazione dei profeti della fine del periodo veterotestamentario. Ma poiché la profezia dell'An-tico Testamento e priva dei distintivi (ratti apocalittici appena osservati, è evidente che ebbe luogo qualche altro imperlante prestito. Pensiamo, in particolare, alla tendenza al dualismo, al concetto di un giudizio universale e alla fine del mondo col fuoco, alla divisione della storia in periodi del mondo, nonché ai numerosi elementi presenti nelle descrizioni dei segreti cosmici come quelli, ad esempio, del 1 di Enoc. Alcune di queste caratteristiche (per es. le tendenze dualistiche) potrebbero rappresentare concezioni iraniche assorbite dalla religione popolare ebraica e ulteriormente elaborate. Altre sembrerebbero risalire ad antichi motivi mitologici, forse perpetuati nel culto regale di Giuda preesilico, mentre altri ancora sono di origine incerta. Si può immaginare che, poiché le speranze erano state ripetutamente frustrate e l'amara esperienza dimostrava che il mondo era irrimediabilmente malvagio, la fede nella salvezza divina, che non poteva assolutamente cessare, si proiettasse progressivamente oltre l'era presente e la storia. Con il prestito di forme che dessero nuova espressione a questa speranza, nacque il genere apocalittico.
Nell'apocalittica incontriamo per la prima volta la figura del Figlio dell'Uomo. In Daniele 7, 9-14, leggiamo che «uno come un figlio d'uomo» riceve un regno eterno dall'Antico di Giorni (Dio). Gran parte degli studiosi considera il Figlio dell'Uomo una figura collettiva che rappresenta i «santi dell'Altissimo» (come le quattro bestie simboleggiano le forze malvagie della Terra), anche se alcuni hanno l'impressione che s'intenda qui uno specifico redentore. In seguito, però, nelle sezioni più tarde di 1 Enoc (Capitoli 37-71), il Figlio dell'Uomo appare chiaramente come un liberatore celeste preesistente. Sebbene la specifica identificazione del Figlio dell'Uomo con il Messia davidico sia oggetto di disputa, almeno il suo ufficio era interpretato messianicamente, perché egli è chiamato l'«Unto» (1 Enoc 48, 9 sg.) ed è rappresentato a capo del regno dei santi (1 Enoc 51; 69, 26-29). Le origini di questo redentore cosmico, per quanto solitamente considerate iraniche, potrebbero anche risalire ad antichissime figure della mitologia orientale, fuse nel pensiero popolare con quella dell'escatologico redentore davidico. L'importanza del Figlio dell'Uomo nel pensiero del Nuovo Testamento - e, ritengo, di nostro Signore - è ben nota.

Il genere apocalittico illustra brillantemente la capacità d'Israele di prendere in prestito e adattare, fino a renderle sue, forme diverse. Esso rappresentò un'espressione legittima, se pur bizzarra, della sua fede nel Dio sovrano della storia. Non si può negare che ciò generò speculazioni sfrenate e inutili e diede vita a ogni sorta di speranze vane e impossibili. Ma sostenne la speranza quando tutto sembrava disperato, affermando che Dio regna, e regnerà il Giorno del giudizio universale alla fine della storia. Non c'è da stupirsi che l'apocalittica rinnovi la propria popolarità in tutti i periodi di crisi, compresa l'era atomica. Sostenuti dalla loro escatologia, gli Ebrei attendevano la fine. E, nel frattempo, osservavano la legge, che era lo strumento divino di governo nel mondo presente. Solo obbedendole, essi potevano dimostrare di essere il popolo di Dio ed essere sicuri del suo favore in questo mondo e in quello a venire.

J. B.