martedì 13 novembre 2012

PRESENTAZIONE AL TEMPIO DI MARIA

Il grande dono che poteva ricevere Gerusalemme era quello di diventare veramente la dimora di Dio. «Gerusalemme, sarà di nuovo prescelta… Io vengo ad abitare in mezzo a te… Egli dimorerà in mezzo a te (Zaccaria 2,14-17). L'immagine della dimora o del Tempio sta a significare la relazione profonda che unisce Dio con il suo popolo. La metafora viene ripresa dal Vangelo di Giovanni: Gesù dimora nel padre e Dio Padre dimora in lui. Neppure per un istante l'Uno è senza l'Altro; nell'agire di Gesù si manifesta l'opera di Dio stesso. Se questo rapporto tra le persone divine, viene applicato anche agli uomini, si crea un ideale molto grande.
La festa di oggi ci richiama proprio questa verità. Maria viene presentata al tempio per diventare dimora piena di Dio. (Gli elementi leggendari raccontati dal Protovangelo di Giacomo evidenziano questo nucleo profondo. Maria non tocca neppure la terra profanata dal peccato; entra nel santuario con grande gioia espressa in una danza e non si volta indietro verso i genitori). 
Ogni cristiano, ma soprattutto la religiosa, deve dimorare in Dio affinché Egli possa venire ad abitare in lui (o in lei). Potremo vedere questa frase in un altro modo. Poiché Dio è già sempre con noi e vive sempre in noi, e ci chiama al dialogo con lui, noi dobbiamo riscoprire questa presenza e renderla come l'alimento più profondo della nostra esistenza. Anzi qui troviamo il cuore e l'essenza profonda della spiritualità. 
Il Tempio ha esercitato un grande fascino sui cuori devoti di ogni tempo. Nella storia sacra troviamo persone che scendono di vivere sempre all'interno di un santuario: il bimbo Samuele, la profetessa Culda, Simeone e Anna, le vergini e le vedove nel nuovo testamento. «A te fui affidato fin dalla nascita, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio», esclama l'autore del salmo 22. Da parte di Dio, egli sceglie gli uomini prima ancora che nascano e li destina a se quando essi sono ancora nel grembo della loro madre. 
Tiziano. Presentazione al tempio di Maria
Ora ci sono due modi per realizzare questa spiritualità del tempio o del dimorare in Dio:

1º restare sempre con il Signore qualsiasi cosa stiamo facendo. Quindi, vivere in lui, con lui e per lui.
2º scegliere una vita in cui la preghiera abbia uno spazio preponderante o quasi esclusivo. 

Questa secondamodalità è possibile soltanto a pochi. Tuttavia tutti dobbiamo dare valore primario alla preghiera per il valore primario che essa detiene ma anche per poter dedicare a Dio tutta la nostra vita e tutto noi stessi. Quanto più è il tempo che diamo alla preghiera, tanto più diventiamo appartenenti a Dio padre, luogo in cui egli abita, l'uomo da dove può risplendere.


Maria bambina nel Protovangelo di Giacomo (libro apocrifo)


6. [1] La bambina si fortificava di giorno in giorno e, quando raggiunse l'eta di sei mesi, sua madre la pose per terra per provare se stava diritta.
Ed essa, fatti sette passi, tornò in grembo a lei che la riprese, dicendo: " (Com'è vero che) vive il Signore mio Dio, non camminerai su questa terra fino a quando non ti condurrò nel tempio del Signore".
Così, nella camera sua fece un santuario e attraverso le sue mani non lasciava passare nulla di profano e di impuro. A trastullarla chiamò le figlie senza macchia degli Ebrei.
[2] Quando la bambina compì l'anno, Gioacchino fece un gran convito: invitò i sacerdoti, gli scribi, il consiglio degli anziani e tutto il popolo di Israele.
Gioacchino presentò allora la bambina ai sacerdoti, i quali la benedissero, dicendo: "O Dio dei nostri padri, benedici questa bambina e dà a lei un nome rinomato in eterno in tutte le generazioni".
E tutto il popolo esclamò: "Così sia, così sia! Amen".
La presentò anche ai sommi sacerdoti, i quali la benedissero, dicendo: "O Dio delle sublimità, guarda questa bambina e benedicila con l'ultima benedizione, quella che non ha altre dopo di sè.
[3] Poi la madre la portò via nel santuario della sua camera, e le diede la poppa.
Anna innalzò quindi un cantico al Signore Iddio, dicendo: "Canterò un cantico al Signore, Dio mio, poiché mi ha visitato e ha tolto da me quello che per i miei nemici era un obbrobrio: il Signore, infatti, mi ha dato un frutto di giustizia, unico e molteplice dinanzi a lui.
Chi mai annunzierà ai figli di Ruben che Anna allatta?
Ascoltate, ascoltate, voi, dodici tribù di Israele: Anna allatta!".
La pose a giacere nel santuario della sua camera e uscì per servire loro a tavola.
Terminato il banchetto, se ne partirono pieni di allegria, glorificando il Dio di Israele.


7. [1] Per la bambina passavano intanto i mesi.
Giunta che fu l'età di due anni, Gioacchino disse a Anna: "Per mantenere la promessa fatta, conduciamola al tempio del Signore, affinché il Padrone non mandi contro di noi e la nostra offerta riesca sgradita".
Anna rispose: "Aspettiamo il terzo anno, affinché la bambina non cerchi poi il padre e la madre". Gioacchino rispose: "Aspettiamo".
Vittore Carpaccio, Maria è portata al tempio
[2] Quando la bambina compì i tre anni, Gioacchino disse: "Chiamate le figlie senza macchia degli Ebrei: ognuna prenda una fiaccola accesa e la tenga accesa affinché la bambina non si volti indietro e il suo cuore non sia attratto fuori del tempio del Signore".
Quelle fecero così fino a che furono salite nel tempio del Signore.
Il sacerdote l'accolse e, baciatala, la benedisse esclamando: "Il Signore ha magnificato il tuo nome in tutte le generazioni.
Nell'ultimo giorno, il Signore manifesterà in te ai figli di Israele la sua redenzione".
[3] La fece poi sedere sul terzo gradino dell'altare, e il Signore Iddio la rivestì di grazia; ed ella danzò con i suoi piedi e tutta la casa di Israele prese a volerle bene.


8. [1] I suoi genitori scesero ammirati e lodarono il Padrone Iddio perché la bambina non s'era voltata indietro.
Maria era allevata nel tempio del Signore come una colomba, e riceveva il vitto per mano di un angelo.

venerdì 9 novembre 2012

PROFESSIONE DEL CRISTIANO (Gregorio di NIssa)

Sirmione
Esaminiamo dunque innanzi tutto che cosa si deve intendere per cristianesimo proprio in base a questo nome. Un significato certamente più alto e sublime, pari all'altezza del termine, potranno trovarlo i più esperti. Per quanto però ci riguarda, ecco ciò che riusciamo a vedere in esso: il nome di Cristo, trasposto in una parola più chiara e più facilmente comprensibile, sta ad indicare il re, giacché la Sacra Scrittura, secondo una sua abitudine peculiare, con questa parola allude alla dignità regale. Ma poiché, come dice la Scrittura, la divinità è una cosa ineffabile e incomprensibile e trascende ogni pensiero conoscitivo, i profeti e gli apostoli animati dallo Spirito Santo si servono necessariamente di molti nomi e concetti per condurci alla comprensione della natura incorruttibile: un concetto degno della divinità ci guida subito verso un altro. 
Di conseguenza, la sovranità su tutte le cose è indicata dal nome « regno », mentre il fatto che essa è esente e libera da qualsiasi passione e da qualsiasi vizio trova espressione nei nomi delle virtù, ciascuna delle quali va pensata e predicata a proposito della divinità superiore. Questa natura superiore è quindi giustizia, sapienza, potenza, verità, bontà, vita, salvezza, incorruttibilità, immutabilità e inalterabilità; e Cristo s'identifica con tutti i concetti elevati indicati da tali nomi, e riceve da essi i suoi appellativi. Se dunque nel nome di Cristo si possono pensare compresi tutti i concetti più alti (il significato più alto comprende anche i rimanenti, così come nel concetto di regno si vedono tutti gli altri concetti), possiamo forse, di conseguenza, arrivare a comprendere il significato del termine « cristianesimo ». Se noi, unendoci a Cristo tramite la fede che abbiamo in lui, prendiamo Io stesso nome di colui che trascende i nomi che esprimono la natura incorruttibile, ne consegue necessariamente che diventano nostri appellativi anche tutti quei concetti che si vedono presenti nella natura incorruttibile perché legati al nome di Cristo. Come abbiamo ricevuto il nome di cristiani perché siamo divenuti partecipi di Cristo, cosi, di conseguenza, dobbiamo entrare in comunione con tutti i nomi più alti; e come chi tira a sé il gancio estremo di una catena tira anche tutti gli anelli attaccati strettamente gli uni agli altri pur tirandone uno solo, cosi, giacché nel nome di Cristo sono strettamente uniti anche i rimanenti termini che esprimono la natura beata, ineffabile e molteplice della divinità, colui che ne afferra uno non può non trascinare assieme ad esso anche i rimanenti. 

Calunnia dunque il nome di Cristo chi se ne appropria senza però far mostra nella sua vita delle virtù che si contemplano in esso: secondo l'esempio da noi prima citato, fa indossare alla scimmia una maschera priva di vita, che di umano ha solo la forma. Come Cristo non può non essere giustizia, purezza, verità e allontanamento da ogni male, cosi non può essere cristiano (parlo del vero cristiano) chi non prova la presenza in sé anche di questi altri nomi. Per esprimere con una definizione il concetto di cristianesimo, diremo che il cristianesimo consiste nell'imitazione della natura divina. Nessuno muova rimproveri a questo mio ragionamento, come se fosse esagerato e superasse gli angusti limiti della nostra natura: la definizione da noi data non va al di là di essa. Se si pensa alla primitiva conformazione dell'uomo, gli insegnamenti della Scrittura mostrano che la definizione non oltrepassa la misura naturale. La primitiva conformazione dell'uomo imitava infatti la somiglianzà a Dio; questa verità insegna Mosè a proposito dell'uomo là dove dice: « Dio creò l'uomo: lo creò secondo l'immagine di Dio ». La professione cristiana consiste nel far ritornare l'uomo alla primitiva condizione fortunata. 



Allontanare ogni vizio

Se anticamente l'uomo era simile a Dio, dicendo che il cristianesimo è un'imitazione della natura divina non abbiamo forse dato una definizione priva di senso. La professione di questo nome è dunque una cosa seria. È ora il momento di vedere se chi fa mostra solo del nome senza uniformare la propria vita a questa regola corre o no dei rischi. La questione potrebbe chiarirsi con un esempio. Supponiamo che uno vada dicendo di conoscere l'arte della pittura, e che riceva da un magistrato l'ordine di raffigurare l'immagine del rè per coloro che risiedono in zone lontane. Se, dopo avere delineato su di una tavola una figura brutta e deforme, chiamasse « immagine del rè » questo sconveniente dipinto, non attirerebbe forse giustamente su di sé l'ira delle autorità? A causa del suo brutto dipinto le persone ignare offenderebbero infatti la bellezza del modello. La forma mostrata dall'immagine è ritenuta necessariamente anche la forma del modello. Se allora, in base alla definizione , il cristianesimo è imitazione di Dio, chi non ha ancora ricevuto l'istruzione sacramentale è portato a credere che il nostro Dio sia identico alla vita che egli ha modo di osservare e che, secondo la nostra fede, si basa sulla sua imitazione: se vede i segni del bene, crede che il Dio da noi venerato sia buono. Chi però diventa preda delle passioni e si rende simile a una bestia, trasformandosi ora in una passione ora in un'altra, facendo assumere al proprio carattere l'aspetto di varie bestie — è possibile vederle subito, una volta che sono state formate dalle deviazioni della nostra natura — e professandosi quindi cristiano, con la propria vita rende riprovevole tra gl'infedeli il Dio in cui noi crediamo, giacché tutti sanno bene che il professarsi cristiani indica l'imitazione di Dio. Per questo la Scrittura lancia contro costoro una minaccia paurosa là dove dice: « Guai a coloro a causa dei quali il mio nome è bestemmiato tra i popoli ». 
Mi sembra che il Signore proprio per condurci alla comprensione di questo pensiero abbia detto a coloro che erano capaci di ascoltarlo: « Diventate perfetti, com'è perfetto il vostro Padre celeste ». Chi chiama il vero Padre « Padre dei fedeli » vuole che anche coloro che sono generati tramite lui si avvicinino ai beni perfetti che si contemplano in lui. Tu mi chiederai: « Ma come può la piccolezza umana raggiungere la beatitudine che si vede in Dio? La nostra impotenza non risulta chiara proprio dal comandamento? Com'è possibile che la creatura terrena diventi simile a colui che è nei cieli, quando proprio la differenza tra le due nature mostra l'impossibilità dell'imitazione? È ugualmente impossibile adeguare la vista alla grandezza celeste e alle sue bellezze e rendere l'uomo nato dalla terra simile al Dio celeste ». Ma ciò che diciamo a tal proposito è chiaro: il vangelo ci ordina non di paragonare tra loro le due nature, l'umana e la divina, ma d'imitare nella nostra vita, per quanto è possibile, le buone azioni di Dio. Quali sono dunque fra le nostre azioni quelle che possono assomigliare alle azioni di Dio? L'allontanamento da ogni vizio nella misura possibile e la purificazione dalle sue sporcizie nelle opere, nelle parole e nel pensiero rappresentano la vera imitazione della perfezione del Dio celeste.



La natura divina tocca ciascun essere

Non mi sembra che il vangelo dica che il cielo, in quanto elemento, è la sede separata di Dio, là dove ci comanda di diventare perfetti come il Padre celeste, giacché Dio si trova in uguale misura in tutte le cose ed attraversa tutto il creato in modo uguale, e nulla potrebbe continuare ad esistere se fosse separato dall'essere superiore: la natura divina tocca allo stesso modo ciascun essere, stringendo tutto dentro di sé con la sua forza che tutto abbraccia.... La sede celeste non è la sede separata ed esclusiva di Dio. Purtuttavia, la dimora superiore è in grado di purificarci dal vizio, come ci fa intendere per enigmi la Scrittura in molti passi; e in questa vita bassa e materiale si fanno sentire le passioni del vizio, giacché lo scopritore del vizio, il serpente, si attorciglia e striscia sulla vita terrena, come ricorda a proposito di lui il sacro racconto in modo enigmatico, là dove dice « cammina sul petto e sul ventre e si nutre sempre di terra »: questo tipo di movimento sta ad indicare il tipo di nutrizione, giacché questa bassa vita è fatta di terra, assume il movimento strisciante del multiforme vizio e diventa nutrimento della bestia che striscia su di essa. 
Il Signore, ordinandoci d'imitare il Padre celeste, ci ordina quindi di purificarci dalle passioni terrene; da esse ci possiamo allontanare non spostandoci da un posto all'altro, ma soltanto con la nostra volontà. Se dunque l'allontanamento dal male può essere prodotto soltanto dall'impulso del pensiero, le parole del vangelo non ci comandano nulla di faticoso.

da La professione del cristiano di san Gregorio di Nissa

LA SCIMMIA DI ALESSANDRIA

San Zeno libera una donna indemoniata
Chi desidera essere chiamato medico, retore o geometra non vuole essere criticato per questo suo nome a causa della sua ignoranza, qualora esso alla prova dei fatti non risultasse rispondente alla realtà: se desidera avere veramente tali nomi li rende credibili con i fatti, per evitare che risultino falsi. Allo stesso modo anche noi, se nel corso del nostro esame riuscissimo a trovare il vero significato della professione cristiana, non accetteremmo mai di non essere ciò che il nostro nome esprime nei nostri riguardi: in caso contrario, la storia della scimmia cosi diffusa tra i pagani riguarderebbe anche noi da vicino. Si narra che ad Alessandria un giocoliere addestrasse una scimmia a compiere agili movimenti di danza, e le facesse indossare una maschera da danzatore ed una veste adatta a tale attività; il coro dei danzatori che stava attorno alla scimmia ne ricavava gloria, mentre essa si contorceva tutta al ritmo della musica e con i suoi movimenti e le sue sembianze nascondeva la propria natura. Mentre tutto il teatro era preso dalla novità dello spettacolo, un burlone mostrò con uno scherzo agli spettatori che assistevano a bocca aperta alla scena che la scimmia era in realtà solo una scimmia. Proprio nel momento in cui tutti gridavano e applaudivano ai contorcimenti della scimmia che si muoveva ritmicamente secondo il canto e la musica, gettò sull'orchestra quei frutti secchi che allettano la golosità di questi animali. Viste le mandorle sparse davanti al coro, la scimmia non esitò un istante: senza pensare più alla danza, agli applausi e agli ornamenti della veste, corse verso di esse e afferrò con le palme delle mani ciò che trovava; e perché la maschera non le chiudesse la bocca, rimosse quella fìnta sembianza lacerandola per bene con le unghie. In luogo delle lodi e dell'ammirazione provocò le risa degli spettatori mostrando il suo brutto e ridicolo aspetto sotto i resti della maschera. 
Come la finta sembianza non bastò alla scimmia a farla sembrare un uomo, giacché la sua vera natura si rivelò nell'avidità per quei frutti secchi, cosi coloro che non danno con la fede una vera impronta alla loro natura si rivelano diversi da ciò che professano di essere una volta allettati dalle ghiottonerie offerte dal diavolo. Al posto dei fichi secchi, delle mandorle e di altre simili cose il cattivo mercato del diavolo offre infatti agli uomini golosi la vanità, l'ambizione, la cupidigia e l'amore per il piacere, e conduce quindi facilmente alla prova dei fatti le anime simili alle scimmie: questi uomini fingono di essere cristiani con un'imitazione esteriore, ma quando giunge il momento di soffrire distruggono la maschera della temperanza, della mitezza e delle altre virtù. È dunque necessario pensare al significato della professione cristiana: potremmo forse diventare ciò che indica il nome, evitando cosi di far consistere la nostra trasformazione unicamente nel nome e nella sua esteriorità e di rivelarci quindi di fronte a colui che vede le cose nascoste diversi dalle nostre sembianze.

Gregorio di Nissa, La professione del cristiano, Città Nuova, pp. 66-68 (tr. Lilla)