martedì 23 ottobre 2012

DIO O MAMMONA


Quentin Metsys (Lovanio 1466 - Anversa 1530)
II cambiavalute e sua moglie, 1514 (cm 70,5x67) - olio su tavola
Parigi, Museo del Louvre

Firmato e datato 1514 sulla pergamena appoggiata sopra il libro raffigurato in altro a destra, il dipinto è considerato una pietra miliare nella storia della pittura a soggetto. Si tratta di una raffigurazione di un momento di vita quotidiana di una coppia della ricca borghesia mercantile di Anversa. Lo spazio è equamente suddiviso fra il marito e la moglie. L'uomo è intento a pesare una moneta fra le tante d'oro che sono ammucchiate sul tappeto verde; è certamente assai ricco, come testimoniano la severa qualità dell'abito, la grande coppa di cristallo di rocca con finimenti in oro, il sacchetto di velluto aperto e pieno di perle. La donna, al contrario, che guarda come svagata quanto il marito sta facendo, ha appena levato gli occhi da un prezioso libro di preghiere riccamente miniato.

A ben guardare, ci sono altre presenze nel pur piccolo quadro: in alto a destra intravvediamo dalla finestra accostata due personaggi sulla strada che stanno chiacchierando. Più importante pare, invece, essere il personaggio che sta leggendo dentro la stanza stessa ma al di qua del dipinto, dove siamo anche noi spettatori, e che è riflesso sullo specchio convesso posto fra i due coniugi.

Difficile immaginare che il dipinto di un pittore che traeva guadagno e fama dai lavori che effettuava per la ricca borghesia di Anversa - e che qui ne rappresenta un significativo scorcio - sia una feroce critica al denaro, come qualcuno ha voluto vedere. Pare, invece, volerci comunque trasmettere l'esistenziale dilemma che c'è nell'uomo fra la ricchezza e l'interiorità, fra ['avere e l'essere, fra Dio e «mammona».
E ciascuno di noi, come il lettore al di qua del quadro che è come spettatore riflesso ma riflettente, ha la responsabilità di scegliere, di mediare, di trovare la risposta per la propria esistenza.

da Pass-word, Azione Cattolica italiana, percorso formativo per gruppi adulti, AVE , p. 116. 

lunedì 15 ottobre 2012

preghiera e meditazione

Alcuni aspetti 
della meditazione cristiana
Parona (Verona), Il bastone fiorito di Aronne,
scena del baldacchino processionale

I

INTRODUZIONE


1. In molti cristiani del nostro tempo è vivo il desiderio di imparare a pregare in modo autentico e approfondito, nonostante le non poche difficoltà che la cultura moderna pone all’avvertita esigenza di silenzio, di raccoglimento e di meditazione. L’interesse che forme di meditazione connesse a talune religioni orientali e ai loro peculiari modi di preghiera in questi anni hanno suscitato anche tra i cristiani è un segno non piccolo di tale bisogno di raccoglimento spirituale e di profondo contatto col mistero divino. Di fronte a questo fenomeno, tuttavia, da molte parti è sentita pure la necessità di poter disporre di sicuri criteri di carattere dottrinale e pastorale che consentano di educare alla preghiera, nelle sue molteplici manifestazioni, restando nella luce della verità rivelatasi in Gesù, tramite la genuina tradizione della Chiesa. A tale urgenza intende rispondere la presente Lettera, affinché nelle varie Chiese particolari, la pluralità di forme, anche nuove, di preghiera non ne faccia mai perdere di vista la precisa natura, personale e comunitaria. Queste indicazioni sono rivolte anzitutto ai Vescovi perché le rendano oggetto di sollecitudine pastorale verso le Chiese, loro affidate, così che tutto il popolo di Dio – sacerdoti, religiosi e laici – sia richiamato a pregare, con rinnovato vigore, il Padre mediante lo Spirito di Cristo nostro Signore.

2. II contatto sempre più frequente con altre religioni e con i loro differenti stili e metodi di preghiera, ha condotto negli ultimi decenni molti fedeli a interrogarsi sul valore che possono avere per i cristiani forme non cristiane di meditazione. La questione riguarda soprattutto i metodi orientali. C’è chi si rivolge oggi a tali metodi per motivi terapeutici: la irrequietezza spirituale di una vita sottoposta al ritmo assillante della società tecnologicamente avanzata spinge anche un certo numero di cristiani a cercare in essi la via della calma interiore e dell’equilibrio psichico. Questo aspetto psicologico non sarà considerato nella presente Lettera, che intende invece evidenziare le implicazioni teologiche e spirituali della questione. Altri cristiani, sulla scia del movimento di apertura e di scambio con religioni e culture diverse, sono del parere che la loro stessa preghiera abbia molto da guadagnare da tali metodi. Rilevando che, in tempi recenti, non pochi metodi tradizionali di meditazione, peculiari del cristianesimo, sono caduti in disuso, costoro si chiedono: non sarebbe allora possibile, attraverso una nuova educazione alla preghiera, arricchire la nostra eredità incorporandovi anche ciò che le era finora estraneo?

3. Per rispondere a questa domanda, occorre anzitutto considerare, sia pure a grandi linee, in che cosa consista la natura intima della preghiera cristiana, per vedere in seguito se e come possa essere arricchita da metodi di meditazione nati nel contesto di religioni e culture diverse. È necessario a tale scopo formulare una decisiva premessa. La preghiera cristiana è sempre determinata dalla struttura della fede cristiana, nella quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura. Per questo essa si configura, propriamente parlando, come un dialogo personale, intimo e profondo, tra l’uomo e Dio. Essa esprime quindi la comunione delle creature redente con la vita intima delle Persone trinitarie. In questa comunione, che si fonda sul battesimo e sull’eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa, è implicato un atteggiamento di conversione, un esodo dall’io verso il Tu di Dio. La preghiera cristiana quindi è sempre allo stesso tempo autenticamente personale e comunitaria. Rifugge da tecniche impersonali o incentrate sull’io, capaci di produrre automatismi nei quali l’orante resta prigioniero di uno spiritualismo intimista, incapace di un’apertura libera al Dio trascendente. Nella Chiesa la legittima ricerca di nuovi metodi di meditazione dovrà sempre tener conto che a una preghiera autenticamente cristiana è essenziale l’incontro di due libertà, quella infinita di Dio con quella finita dell’uomo.


II

LA PREGHIERA CRISTIANA
ALLA LUCE DELLA RIVELAZIONE


4. Come debba pregare l’uomo che accoglie la rivelazione biblica lo insegna la Bibbia stessa. Nell’Antico Testamento c’è una meravigliosa raccolta di preghiere, rimasta viva lungo i secoli anche nella Chiesa di Gesù Cristo, nella quale essa è diventata la base della preghiera ufficiale: il Libro delle Lodi o dei Salmi. Preghiere del tipo dei Salmi si trovano già in testi più antichi o vengono riecheggiate in testi più recenti dell’Antico Testamento. Le preghiere del Libro dei Salmi narrano anzitutto le grandi opere di Dio per il popolo eletto. Israele medita, contempla e rende di nuovo presenti le meraviglie di Dio, facendone memoria attraverso la preghiera.
Nella rivelazione biblica Israele giunge a riconoscere e lodare Dio, presente in tutta la creazione e nel destino di ogni uomo. Così Lo invoca, ad esempio, come soccorritore nel pericolo, nella malattia, nella persecuzione, nella tribolazione. Infine, sempre alla luce delle sue opere salvifiche, Egli viene celebrato nella sua divina potenza e bontà, nella sua giustizia e misericordia, nella sua regale grandezza.


5. Grazie alle parole, alle opere, alla Passione e Risurrezione di Gesù Cristo, nel Nuovo Testamento la fede riconosce in Lui la definitiva autorivelazione di Dio, la Parola incarnata che svela le profondità più intime del suo amore. E lo Spirito Santo che fa penetrare in queste profondità di Dio, lui che, inviato nel cuore dei credenti, «scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1 Cor 2,10). Lo Spirito, secondo la promessa di Gesù ai discepoli, spiegherà tutto ciò che Egli non poteva ancora dire loro. Però lo Spirito «non parlerà da sé,... ma mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,13s). Quello che Gesù chiama qui «suo» è, come spiega in seguito, anche di Dio Padre, perché «tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,15).
Gli autori del Nuovo Testamento, con piena consapevolezza, hanno sempre parlato della rivelazione di Dio in Cristo all’interno di una visione illuminata dallo Spirito Santo. I Vangeli sinottici narrano le opere e le parole di Gesù Cristo in base alla comprensione più profonda, acquisita dopo la Pasqua, di ciò che i discepoli avevano visto e udito; tutto il Vangelo di Giovanni respira della contemplazione di colui che fin dall’inizio è il Verbo di Dio fatto carne; Paolo, al quale Gesù è apparso sulla via di Damasco nella sua maestà divina, tenta di educare i fedeli perché siano «in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità [del Mistero di Cristo] e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, per essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,18s). Per Paolo il «Mistero di Dio è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3) e – precisa l’Apostolo –: «Dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti» (v. 4).

6. Esiste quindi uno stretto rapporto fra la rivelazione e la preghiera. La Costituzione dogmatica Dei Verbum ci insegna che mediante la sua rivelazione Dio invisibile «nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cf Es 33,11; Gv 15,14‑15) e si intrattiene con essi (cf Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé».
Questa rivelazione si è attuata attraverso parole e opere che rinviano sempre, reciprocamente, le une alle altre; fin dall’inizio e di continuo tutto converge verso Cristo, pienezza della rivelazione e della grazia, e verso il dono dello Spirito Santo. Questi rende l’uomo capace di accogliere e contemplare le parole e le opere di Dio e di ringraziano e adorarlo, nell’assemblea dei fedeli e nell’intimità del proprio cuore illuminato dalla grazia.
Per questo la Chiesa raccomanda sempre la lettura della Parola di Dio come sorgente della preghiera cristiana, e allo stesso tempo esorta a scoprire il senso profondo della Sacra Scrittura mediante la preghiera «affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché “gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini”».

7. Da quanto è stato ricordato derivano subito alcune conseguenze. Se la preghiera del cristiano deve inserirsi nel movimento trinitario di Dio, il suo contenuto essenziale dovrà necessariamente essere anche determinato dalla duplice direzione di tale movimento: nello Spirito Santo il Figlio viene nel mondo per riconciliarlo col Padre attraverso le sue opere e le sue sofferenze; d’altra parte, nello stesso movimento e nel medesimo Spirito, il Figlio incarnato ritorna al Padre, compiendo la sua volontà mediante la Passione e la Risurrezione. II «Padre nostro», la preghiera di Gesù, indica chiaramente l’unità di questo movimento: la volontà del Padre deve realizzarsi sulla terra come in cielo (le richieste di pane, di perdono, di protezione esplicitano le dimensioni fondamentali della volontà di Dio verso di noi) affinché una nuova terra viva e si sviluppi nella Gerusalemme celeste.
È alla Chiesa che la preghiera di Gesù viene consegnata («così voi dovete pregare», Mt 6,9) e per questo la preghiera cristiana, anche quando avviene nella solitudine, in realtà è sempre all’interno di quella «comunione dei santi» nella quale e con la quale si prega, tanto in forma pubblica e liturgica quanto in forma privata. Pertanto, essa deve compiersi sempre nello spirito autentico della Chiesa in preghiera e quindi sotto la sua guida, che può concretizzarsi talvolta in una direzione spirituale sperimentata. Il cristiano, anche quando è solo e prega nel segreto, ha la consapevolezza di pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito Santo, insieme con tutti i santi per il bene della Chiesa.



III

MODI ERRONEI DI PREGARE


8. Già nei primi secoli s’insinuarono nella Chiesa modi erronei di pregare, di cui già alcuni testi del Nuovo Testamento (cf 1 Gv 4,3; 1 Tm 1,3‑7 e 4,3‑4) fanno riconoscere le tracce. In seguito si possono rilevare due deviazioni fondamentali: la pseudognosi e il messalianismo, di cui si sono occupati i Padri della Chiesa. Da quella primitiva esperienza cristiana e dall’atteggiamento dei Padri si può imparare molto per affrontare la problematica contemporanea.
Contro la deviazione della pseudognosi i Padri affermano che la materia è creata da Dio e come tale non è cattiva. Inoltre sostengono che la grazia, la cui sorgente è sempre lo Spirito Santo, non è un bene proprio dell’anima, ma dev’essere impetrata da Dio come dono. Perciò l’illuminazione o conoscenza superiore dello Spirito («gnosi»), non rende superflua la fede cristiana. Infine, per i Padri, il segno autentico di una conoscenza superiore, frutto della preghiera, è sempre l’amore cristiano.

9. Se la perfezione della preghiera cristiana non può essere valutata in base alla sublimità della conoscenza gnostica, non può esserlo neppure in riferimento all’esperienza del divino, alla maniera del messalianismo. I falsi carismatici del IV secolo identificavano la grazia dello Spirito Santo con l’esperienza psicologica della sua presenza nell’anima. Contro di essi i Padri insistettero sul fatto che l’unione dell’anima orante con Dio si compie nel mistero, in particolare attraverso i sacramenti della Chiesa. Essa può inoltre realizzarsi perfino attraverso esperienze di afflizione e anche di desolazione. Contrariamente all’opinione dei Messaliani, queste non sono necessariamente un segno che lo Spirito ha abbandonato l’anima. Come hanno sempre chiaramente riconosciuto i maestri spirituali, possono invece essere un’autentica partecipazione allo stato di abbandono di Nostro Signore sulla croce, il quale resta sempre modello e mediatore della preghiera.

10. Tutte e due queste forme di errore continuano a essere una tentazione per l’uomo peccatore. Lo istigano a cercare di superare la distanza che separa la creatura dal Creatore, come qualcosa che non dovrebbe esserci; a considerare il cammino di Cristo sulla terra, con il quale egli ci vuole condurre al Padre, come realtà superata; ad abbassare ciò che viene accordato come pura grazia al livello della psicologia naturale, come «conoscenza superiore» o come «esperienza».
Riapparse di tanto in tanto nella storia ai margini della preghiera della Chiesa, tali forme erronee oggi sembrano impressionare nuovamente molti cristiani, raccomandandosi loro come rimedio, sia psicologico che spirituale, e come rapido procedimento per trovare Dio.

11. Ma queste forme erronee, dovunque sorgano, possono essere diagnosticate in maniera molto semplice. La meditazione cristiana orante cerca di cogliere nelle opere salvifiche di Dio in Cristo, Verbo Incarnato, e nel dono del suo Spirito la profondità divina, che vi si rivela sempre attraverso la dimensione umano‑terrena. Invece, in simili metodi di meditazione, anche quando si prende lo spunto da parole e opere di Gesù, si cerca di prescindere il più possibile da ciò che è terreno, sensibile e concettualmente limitato, per salire o immergersi nella sfera del divino, che in quanto tale non è né terrestre, né sensibile, né concettualizzabile. Questa tendenza, presente già nella tarda religiosità greca (soprattutto nel «neoplatonismo»), si riscontra, in fondo, nell’ispirazione religiosa di molti popoli, non appena essi abbiano riconosciuto il carattere precario delle loro rappresentazioni del divino e dei loro tentativi di avvicinarvisi.

12. Con l’attuale diffusione dei metodi orientali di meditazione nel mondo cristiano e nelle comunità ecclesiali, ci troviamo di fronte ad un acuto rinnovarsi del tentativo, non esente da rischi ed errori, di fondere la meditazione cristiana con quella non cristiana. Le proposte in questo senso sono numerose e più o meno radicali: alcune utilizzano metodi orientali solo ai fini di una preparazione psicofisica per una contemplazione realmente cristiana; altre vanno oltre e cercano di generare, con diverse tecniche, esperienze spirituali analoghe a quelle di cui si parla in scritti di certi mistici cattolici; altre ancora non temono di collocare quell’assoluto senza immagini e concetti, proprio della teoria buddista, sullo stesso piano della maestà di Dio, rivelata in Cristo, che si eleva al di sopra della realtà finita e, a tal fine, si servono di una «teologia negativa» che trascende ogni affermazione contenutistica su Dio, negando che le cose del mondo possono essere una traccia che rinvia all’infinità di Dio. Per questo propongono di abbandonare non solo la meditazione delle opere salvifiche che il Dio dell’Antica e della Nuova Alleanza ha compiuto nella storia, ma anche l’idea stessa del Dio uno e trino, che è amore, in favore di un’immersione «nell’abisso indeterminato della divinità».
Queste proposte o altre analoghe di armonizzazione tra meditazione cristiana e tecniche orientali dovranno essere continuamente vagliate con accurato discernimento di contenuti e di metodo, per evitare la caduta in un pernicioso sincretismo.




IV

LA VIA CRISTIANA DELL’UNIONE CON DIO


13. Per trovare la giusta «via» della preghiera, il cristiano considererà ciò che è stato precedentemente detto a proposito dei tratti salienti della via di Cristo, il cui «cibo è fare la volontà di colui che (lo) ha mandato a compiere la sua opera» (Gv 4,34). Gesù non vive con il Padre un’unione più intima e più stretta di questa, che per lui si traduce continuamente in una profonda preghiera. La volontà del Padre lo invia agli uomini, ai peccatori, addirittura ai suoi uccisori ed egli non può essere più intimamente unito al Padre che ubbidendo a questa volontà. Ciò non impedisce in alcun modo che nel cammino terreno egli si ritiri anche nella solitudine per pregare, per unirsi al Padre e ricevere da Lui nuovo vigore per la sua missione nel mondo. Sul Tabor, dove certamente egli è unito al Padre in maniera manifesta, viene evocata la sua passione (cf Lc 9,31) e non viene neppure presa in considerazione la possibilità di permanere in «tre tende» sul monte della trasfigurazione. Ogni preghiera contemplativa cristiana rinvia continuamente all’amore del prossimo, all’azione e alla passione, e proprio così avvicina maggiormente a Dio.

14. Per accostarsi a quel mistero dell’unione con Dio, che i Padri greci chiamavano divinizzazione dell’uomo, e per cogliere con precisione le modalità secondo cui essa si compie, occorre tener presente anzitutto che l’uomo è essenzialmente creatura e tale rimane in eterno, cosicché non sarà mai possibile un assorbimento dell’io umano nell’io divino, neanche nei più alti stati di grazia. Si deve però riconoscere che la persona umana è creata «ad immagine e somiglianza» di Dio, e l’archetipo di questa immagine è il Figlio di Dio, nel quale e per il quale siamo stati creati (cf Col 1,16). Ora questo archetipo ci svela il più grande e il più bel mistero cristiano: il Figlio è dall’eternità «altro» rispetto al Padre e tuttavia, nello Spirito Santo, è «della stessa sostanza»; di conseguenza il fatto che ci sia un’alterità, non è un male, ma piuttosto il massimo dei beni. C’è alterità in Dio stesso, che è una sola natura in Tre Persone, e c’è alterità tra Dio e la creatura, che sono per natura differenti. Infine nella santa eucaristia, come anche negli altri sacramenti – e analogamente nelle sue opere e nelle sue parole – Cristo ci dona se stesso e ci rende partecipi della sua natura divina, senza per altro sopprimere la nostra natura creata, alla quale egli stesso partecipa con la sua incarnazione.

15. Se si considerano insieme queste verità, si scopre, con profonda meraviglia, che nella realtà cristiana vengono adempiute, oltre ogni misura, tutte le aspirazioni presenti nella preghiera delle altre religioni, senza che con questo l’io personale e la sua creaturalità debbano essere annullati e scomparire nel mare dell’Assoluto. «Dio è amore» (1 Gv 4,8): questa affermazione profondamente cristiana può conciliare l’unione perfetta con l’alterità tra amante e amato, con l’eterno scambio e l’eterno dialogo. Dio stesso è questo eterno scambio, e noi possiamo in piena verità diventare partecipi di Cristo, quali «figli adottivi», e gridare con il Figlio nello Spirito Santo: «Abbà, Padre».
In questo senso, i Padri hanno pienamente ragione di parlare di divinizzazione dell’uomo che, incorporato a Cristo Figlio di Dio per natura, diventa per la sua grazia partecipe della natura divina, «figlio nel Figlio». II cristiano, ricevendo lo Spirito Santo, glorifica il Padre e partecipa realmente alla vita trinitaria di Dio.





V

QUESTIONI DI METODO


16. La maggior parte delle grandi religioni che hanno cercato l’unione con Dio nella preghiera, hanno anche indicato le vie per conseguirla. Siccome «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni», non si dovranno disprezzare pregiudizialmente queste indicazioni in quanto non cristiane. Si potrà al contrario cogliere da esse ciò che vi è di utile, a condizione di non perdere mai di vista la concezione cristiana della preghiera, la sua logica e le sue esigenze, poiché è all’interno di questa totalità che quei frammenti dovranno essere riformulati ed assunti. Tra di essi si può annoverare anzitutto l’umile accettazione di un maestro esperto nella vita di preghiera e delle sue direttive; di ciò si è sempre avuto consapevolezza nell’esperienza cristiana sin dai tempi antichi, dall’epoca dei Padri del deserto. Questo maestro, esperto nel «sentire cum ecclesia», deve non solo guidare e richiamare l’attenzione su certi pericoli, ma, quale «padre spirituale», deve anche introdurre in maniera viva, da cuore a cuore, nella vita di preghiera, che è dono dello Spirito Santo.

17. La tarda classicità non cristiana distingueva volentieri tre stadi nella vita di perfezione: la via della purificazione, dell’illuminazione e dell’unione. Questa dottrina è servita da modello per molte scuole di spiritualità cristiana. Questo schema, in se stesso valido, necessita tuttavia di alcune precisazioni, che ne permettano una corretta interpretazione cristiana, evitando pericolosi fraintendimenti.

18. La ricerca di Dio mediante la preghiera deve essere preceduta ed accompagnata dalla ascesi e dalla purificazione dai propri peccati ed errori, perché secondo la parola di Gesù soltanto «i puri di cuore vedranno Dio» (Mt 5,8). 11 Vangelo mira soprattutto a una purificazione morale dalla mancanza di verità e di amore e, su un piano più profondo, da tutti gli istinti egoistici che impediscono all’uomo di riconoscere ed accettare la volontà di Dio nella sua purezza. Non sono le passioni in quanto tali ad essere negative (come pensavano gli stoici e i neoplatonici), ma la loro tendenza egoistica. E da essa che il cristiano deve liberarsi: per arrivare a quello stato di libertà positiva che la classicità cristiana chiamava «apatheia», il Medio Evo «impassibiitas», e gli Esercizi Spirituali ignaziani «indiferencia».
Ciò è impossibile senza una radicale abnegazione, come si vede anche in san Paolo che usa apertamente la parola «mortificazione» (delle tendenze peccaminose). Solo questa abnegazione rende l’uomo libero di realizzare la volontà di Dio e di partecipare alla libertà dello Spirito Santo.


19. Dovrà perciò essere interpretata rettamente la dottrina di quei maestri che raccomandano di «svuotare» lo spirito da ogni rappresentazione sensibile e da ogni concetto, mantenendo però una amorosa attenzione a Dio, così che rimanga nell’orante un vuoto che può allora essere riempito dalla ricchezza divina. Il vuoto di cui Dio ha bisogno è quello della rinuncia al proprio egoismo, non necessariamente quello della rinuncia alle cose create che egli ci ha donato e tra le quali ci ha posti. Non vi è dubbio che nella preghiera ci si deve concentrare interamente su Dio ed escludere il più possibile quelle cose di questo mondo che ci incatenano al nostro egoismo. Sant’Agostino è su questo punto un maestro insigne: se vuoi trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore e rientra in te stesso. Tuttavia, prosegue, non rimanere in te stesso, ma oltrepassa te stesso, perché tu non sei Dio: Egli è più profondo e più grande dite. «Cerco la sua sostanza nella mia anima e non la trovo; ho meditato tuttavia sulla ricerca di Dio e, proteso verso di lui, attraverso le cose create, ho cercato di conoscere le “perfezioni invisibili di Dio” (Rm 1,20)». Restare in se stessi: ecco il vero pericolo. II grande Dottore della Chiesa raccomanda di concentrarsi in se stessi, ma anche di trascendere l’io che non è Dio, ma solo una creatura. Dio è «interior intimo meo, et superior summo meo». Dio infatti è in noi e con noi, ma ci trascende nel suo mistero.

20. Dal punto di vista dogmatico, è impossibile arrivare all’amore perfetto di Dio se si prescinde dalla sua autodonazione nel Figlio incarnato, crocifisso e risuscitato. In Lui, sotto l’azione dello Spirito Santo, prendiamo parte, per pura grazia, alla vita intradivina. Quando Gesù dice: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9), non intende semplicemente la visione e la conoscenza esteriori della sua figura umana («la carne non giova a nulla», Gv 6,63). Ciò che intende è piuttosto un «vedere» reso possibile dalla grazia della fede: vedere attraverso la manifestazione sensibile di Gesù ciò che questi, quale Verbo del Padre, vuole veramente mostrarci di Dio («È lo Spirito che dà la vita [...]; le parole che vi ho dette sono spirito e vita», ibid.). In questo «vedere» non si tratta dell’astrazione puramente umana («abstractio») dalla figura in cui Dio si è rivelato, ma del cogliere la realtà divina nella figura umana di Gesù, del cogliere la sua dimensione divina ed eterna nella sua temporalità. Come dice sant’Ignazio negli Esercizi spirituali, dovremmo tentare di cogliere «il profumo infinito e la dolcezza infinita della divinità» (n. 124), partendo dalla finita verità rivelata dalla quale abbiamo iniziato. Mentre ci eleva, Dio è libero di «svuotarci» di tutto ciò che ci trattiene in questo mondo, di attirarci completamente nella vita trinitaria del suo amore eterno. Tuttavia, questo dono può essere concesso solo «in Cristo attraverso lo Spirito Santo» e non attraverso le proprie forze, astraendo dalla sua rivelazione.

21. Nel cammino della vita cristiana alla purificazione segue l’illuminazione mediante l’amore che il Padre ci dona nel Figlio e l’unzione che da Lui riceviamo nello Spirito Santo (cf 1 Gv 2,20).
Fin dall’antichità cristiana si fa riferimento alla «illuminazione» ricevuta nel battesimo. Essa introduce i fedeli, iniziati ai divini misteri, alla conoscenza di Cristo mediante la fede che opera per mezzo della carità. Anzi, alcuni scrittori ecclesiastici parlano in modo esplicito dell’illuminazione ricevuta nel battesimo come fondamento di quella sublime conoscenza di Cristo Gesù (cf Fu 3,8) che viene definita come «theoria» o contemplazione.
I fedeli, con la grazia del battesimo, sono chiamati a progredire nella conoscenza e nella testimonianza dei misteri della fede mediante «la profonda intelligenza che essi esperiscono delle cose spirituali». Nessuna luce di Dio rende superate le verità della fede. Le eventuali grazie di illuminazione che Dio può concedere aiutano piuttosto a chiarir meglio la dimensione più profonda dei misteri confessati e celebrati dalla Chiesa, in attesa che il cristiano possa contemplare Dio come Egli è nella gloria (cf 1 Gv 3,2).

22. 11 cristiano orante, infine, può arrivare, se Dio lo vuole, ad una esperienza particolare di unione. I sacramenti, soprattutto il battesimo e l’eucaristia, sono l’inizio obiettivo dell’unione del cristiano con Dio. Su questo fondamento, per una speciale grazia dello Spirito, l’orante può essere chiamato a quel tipo peculiare di unione con Dio che, nell’ambito cristiano, viene qualificato come mistica.

23. Certamente il cristiano ha bisogno di determinati tempi di ritiro nella solitudine per raccogliersi e ritrovare, presso Dio, il suo cammino. Ma dato il suo carattere di creatura, e di creatura che sa di essere al sicuro solo nella grazia, il suo modo di avvicinarsi a Dio non si fonda su alcuna tecnica nel senso stretto della parola. Ciò contraddirebbe lo spirito d’infanzia richiesto dal Vangelo. La mistica cristiana autentica non ha niente a che vedere con la tecnica: è sempre un dono di Dio, di cui chi ne beneficia si sente indegno.

24. Ci sono determinate grazie mistiche, conferite ad esempio ai fondatori di istituzioni ecclesiali in favore di tutta la loro fondazione nonché ad altri santi, che caratterizzano la loro peculiare esperienza di preghiera e che non possono, come tali, essere oggetto di imitazione e di aspirazione per altri fedeli, anche appartenenti alla stessa istituzione, e desiderosi di una preghiera sempre più perfetta. Possono esserci diversi livelli e diverse modalità di partecipazione all’esperienza di preghiera di un fondatore, senza che a tutti debba venir conferita la medesima forma. Del resto l’esperienza di preghiera che ha un posto privilegiato in tutte le istituzioni autenticamente ecclesiali antiche e moderne, è sempre in ultima analisi qualcosa di personale. Ed è alla persona che Dio dona le sue grazie in vista della preghiera.

25. A proposito della mistica si deve distinguere tra i doni dello Spirito Santo e i carismi accordati in modo totalmente libero da Dio. I primi sono qualcosa che ogni cristiano può ravvivare in sé attraverso una vita zelante di fede, di speranza e di carità e così, attraverso una seria ascesi, arrivare ad una certa esperienza di Dio e dei contenuti della fede. Quanto ai carismi san Paolo dice che essi sono soprattutto in favore della Chiesa, degli altri membri del Corpo mistico di Cristo (cf 1 Cor 12,7). A questo proposito, va ricordato sia che i carismi non possono essere identificati con dei doni straordinari («mistici») (cf Rm 12,3‑21), sia che la distinzione fra i «doni dello Spirito Santo» e i «carismi» può essere fluida. Certo è che un carisma fecondo per la Chiesa non può, nell’ambito neotestamentario, venir esercitato senza un determinato grado di perfezione personale e che, d’altra parte, ogni cristiano «vivo» possiede un compito peculiare (e in questo senso un «carisma») «per l’edificazione del Corpo di Cristo» (cf Ef 4,15‑16), in comunione con la Gerarchia, alla quale «spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono» (LG n. 12).


VI

METODI PSICOFISICI‑CORPOREI


26. L’esperienza umana dimostra che la posizione e l’atteggiamento del corpo non sono privi d’influenza sul raccoglimento e la disposizione dello spirito. E un dato al quale alcuni scrittori spirituali dell’Oriente e dell’Occidente cristiano hanno prestato attenzione.
Le loro riflessioni, pur presentando punti in comune con i metodi orientali non cristiani di meditazione, evitano quelle esagerazioni o unilateralità che, invece, spesso vengono oggi proposte a persone non sufficientemente preparate.
Questi autori spirituali hanno adottato quegli elementi che facilitano il raccoglimento nella preghiera, riconoscendone al contempo anche il valore relativo: essi sono utili se riformulati in vista del fine della preghiera cristiana. Ad esempio, il digiuno nel cristianesimo possiede anzitutto il significato di un esercizio di penitenza e di sacrificio, ma già presso i Padri, era anche finalizzato a rendere l’uomo più disponibile all’incontro con Dio ed il cristiano più capace di dominio di sé e allo stesso tempo più attento ai fratelli bisognosi.
Nella preghiera è tutto l’uomo che deve entrare in relazione con Dio, e dunque anche il suo corpo deve assumere la posizione più adatta per il raccoglimento. Tale posizione può esprimere in modo simbolico la preghiera stessa, variando a seconda delle culture e della sensibilità personale. In alcune aree, i cristiani, oggi, stanno acquisendo maggior consapevolezza di quanto l’atteggiamento del corpo possa favorire la preghiera.

27. La meditazione cristiana dell’oriente ha valorizzato il simbolismo psicofisico, spesso carente, nella preghiera dell’Occidente. Esso può partire da un determinato atteggiamento corporeo, fino a coinvolgere anche le funzioni vitali fondamentali, come la respirazione e il battito cardiaco. L’esercizio della «preghiera di Gesù» ad esempio, che si adatta al ritmo respiratorio naturale, può – almeno per un certo tempo – essere di reale aiuto per molti. D’altra parte gli stessi maestri orientali hanno anche costatato che non tutti sono ugualmente idonei a far uso di questo simbolismo, perché non tutti sono in grado di passare dal segno materiale alla realtà spirituale ricercata. Compreso in modo inadeguato e non corretto, il simbolismo può diventare addirittura un idolo e di conseguenza un impedimento all’elevazione dello spirito a Dio. Vivere nell’ambito della preghiera tutta la realtà del proprio corpo come simbolo è ancora più difficile: ciò può degenerare in un culto del corpo e può portare ad identificare surrettiziamente tutte le sue sensazioni con esperienze spirituali.

28. Alcuni esercizi fisici producono automaticamente sensazioni di quiete e di distensione, sentimenti gratificanti, forse addirittura fenomeni di luce e di calore che assomigliano ad un benessere spirituale. Scambiarli per autentiche consolazioni dello Spirito Santo sarebbe un modo totalmente erroneo di concepire il cammino spirituale. Attribuire loro significati simbolici tipici dell’esperienza mistica, quando l’atteggiamento morale dell’interessato non corrisponde ad essa, rappresenterebbe una specie di schizofrenia mentale, che può condurre perfino a disturbi psichici e, talvolta, ad aberrazioni morali.
Ciò non toglie che autentiche pratiche di meditazione provenienti dall’Oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane, che esercitano un’attrattiva sull’uomo di oggi diviso e disorientato, possano costituire un mezzo adatto per aiutare l’orante a stare davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne.
Occorre tuttavia ricordare che l’unione abituale con Dio, o quell’atteggiamento di vigilanza interiore e di invocazione dell’aiuto divino che nel Nuovo Testamento viene chiamato la «preghiera continua», non si interrompe necessariamente quando ci si dedica anche, secondo la volontà di Dio, al lavoro e alla cura del prossimo. «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio», ci dice l’Apostolo (1 Cor 10,31). La preghiera autentica infatti, come sostengono i grandi maestri spirituali, desta negli oranti un’ardente carità che li spinge a collaborare alla missione della Chiesa e al servizio dei fratelli per la maggior gloria di Dio.


VII

«IO SONO LA VIA»


29. Ogni fedele dovrà cercare e potrà trovare nella varietà e ricchezza della preghiera cristiana, insegnata dalla Chiesa, la propria via, il proprio modo di preghiera; ma tutte queste vie personali confluiscono, alla fine, in quella via al Padre, che Gesù Cristo ha detto di essere. Nella ricerca della propria via ognuno si lascerà quindi condurre non tanto dai suoi gusti personali quanto dallo Spirito Santo, il quale lo guida, attraverso Cristo, al Padre.

30. Per chi si impegna seriamente verranno comunque tempi in cui gli sembrerà di vagare in un deserto e di non «sentire» nulla di Dio, malgrado tutti i suoi sforzi. Deve sapere che queste prove non vengono risparmiate a nessuno che prenda sul serio la preghiera. Ma egli non deve identificare immediatamente questa esperienza, comune a tutti i cristiani che pregano, con la «notte oscura» di tipo mistico. Ad ogni modo in quei periodi la preghiera, che egli si sforzerà di mantenere fermamente, potrà dargli l’impressione di una certa «artificiosità» benché si tratti in realtà di qualcosa di totalmente diverso: essa è infatti proprio allora espressione della sua fedeltà a Dio, alla presenza del quale egli vuole rimanere anche quando non è ricompensato da alcuna consolazione soggettiva.
In questi momenti apparentemente negativi diventa manifesto ciò che l’orante cerca realmente: se cerca proprio Dio che, nella sua infinita libertà, sempre lo supera, oppure se cerca solo se stesso, senza riuscire ad andare oltre le proprie «esperienze», sia che gli sembrino «esperienze» positive di unione con Dio che «esperienze» negative di «vuoto» mistico.

31. L’amore di Dio, unico oggetto della contemplazione cristiana, è una realtà della quale non ci si può «impossessare» con nessun metodo o tecnica; anzi, dobbiamo aver sempre lo sguardo fisso in Gesù Cristo, nel quale l’amore divino è giunto per noi sulla croce a tal punto che Egli si è assunto anche la condizione di allontanamento dal Padre (cf Mc 15,34). Dobbiamo dunque lasciar decidere a Dio la maniera con cui egli vuole farci partecipi del suo amore. Ma non possiamo mai, in alcun modo, cercare di metterci allo stesso livello dell’oggetto contemplato, l’amore libero di Dio; neanche quando, per la misericordia di Dio Padre, mediante lo Spirito Santo mandato nei nostri cuori, ci viene donato in Cristo, gratuitamente, un riflesso sensibile di questo amore divino e ci sentiamo come attirati dalla verità, dalla bontà e dalla bellezza del Signore.
Quanto più viene concesso a una creatura di avvicinarsi a Dio, tanto maggiormente cresce in lei la riverenza davanti al Dio, tre volte Santo. Si comprende allora la parola di sant’Agostino: «Tu puoi chiamarmi amico, io mi riconosco servo». Oppure la parola che ci è ancora più familiare, pronunciata da colei che è stata gratificata della più alta intimità con Dio: «Ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,48).



Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 15 ottobre 1989, nella festa di Santa Teresa di Gesù.



GESU' E BUDDA


Finché è nel mondo, la verità di Gesù deve occuparsi di verità nel confronto interreligioso. Cominceremo con il delineare i punti in comune tra Gesù e Buddha, tra il cristianesimo e il buddhismo ed elencheremo poi, per brevi nuclei, le differenze riguardo a tematiche affini.

In comune c'è: sia Gesù sia Buddha sono due figure di fondatori; a dire il vero, sono piuttosto innovatori che fondatori di religioni. In quanto 'maestri' radunano intorno a sé dei discepoli, sia il maestro sia i discepoli rinunciano alla vita familiare regolare. Nel rapporto con il mondo femminile si osserva prudenza e riservatezza. Chi crede al maestro deve andare con lui; non deve cambiare soltanto le sue opinioni, ma anche la sua vita, cioè sia Gesù sia Buddha abbandonano una vita che non sia quella autentica. Conducono una vita nomade in povertà. Voltano le spalle alle élite religiose operanti fino a quel momento, dedicandosi a una via radicale ed elitaria di ascesi. I sacrifici e le cerimonie passano in secondo piano. Vengono dati e annunciati rispettivamente dieci o cinque comandamenti vincolanti. Entrambi i maestri si oppongono alle azioni compiute in base a una falsa disposizione d'animo. Il maestro non aveva niente da imparare da maestri precedenti. Per entrambi l'obiettivo è l"uomo nuovo' e indipendentemente dalla classe sociale è in gioco la salvezza universale delle anime; pertanto entrambi si propongono una 'democratizzazione'. Dopo la morte del fondatore, il carisma viene 'quotidianizzato', il fondatore riceve appellativi e titoli onorifici supplementari. Il silenzio meditativo è importante in entrambi i movimenti.


Diversi sono gli elementi che seguono:

Elementi sociali e biografici: Gesù appartiene al ceto medio-basso e deve morire giovane. Buddha appartiene al ceto superiore e raggiunge un'età avanzata. Gesù compie miracoli al servizio di persone 'povere'; in Buddha i miracoli sono espressione della forza della meditazione.
Il ruolo dell'essere umano: l'essere umano, con il suo comportamento, è la causa principale della sofferenza, ma in Buddha per l'avidità e la sete (di vita), in Gesù per il peccato.
Rapporto con il mondo: Gesù vuole cambiare il mondo con la sua attività; esiste un precetto di trasformare il mondo. Buddha vuole staccarsi da esso, liberarsi dall'attaccamento all'apparenza. Si tratta di redenzione dal mondo.
La questione dell'esistenza di Dio: Gesù predica Dio come interlocutore dell'essere umano, in Buddha gli dèi sono soltanto spettatori. Al posto dell'esperienza relativamente nuova di Dio come Padre in Gesù, in Buddha non c'è nulla. Il Dio di Gesù Cristo è vitale e agisce, in Buddha anche gli dèi hanno bisogno di redenzione. Per Gesù la signoria di Dio è ottenimento della vita, per Buddha il Nirvana è redenzione dalla vita, liberazione da essa. Pertanto il cristianesimo è una religione di riconciliazione (riconciliazione con Dio e gli esseri umani), mentre Buddha annuncia una religione di liberazione.
Dottrina: in Gesù la fede si trasforma in dottrina normativa, in Buddha il dono a cui si mira, di cui non si può disporre, è l'illumi-nazione.
Struttura: il cristianesimo ha una struttura centripeta ed è collegato alla pretesa «soltanto attraverso Gesù la salvezza», il buddhi-smo è centrifugo, l'individuo rimane importante.
Il molo del mediatore: nel cristianesimo è Gesù l'unico a contare, mentre Buddha vuole che esistano molti Buddha. Per i cristiani è importante il Gesù storico, per Buddha invece l'annullamento dell'individualità e della singolarità. In Gesù conta il cuore di ogni essere umano messo a confronto con le Scritture. Buddha rifiuta l'anima o l'io, e non esistono nemmeno Sacre Scritture. Gesù supera come mediatore la distanza tra Dio e mondo, Buddha insegna che alla fine non esiste alcuna distanza tra Dio e mondo.
Personalità: nel cristianesimo il Verbo diventato persona in Gesù Cristo è la massima realtà, Buddha invece fa notare che le parole sono sempre relative. In Gesù vale il principio: il regno di Dio è ottenimento della vita e affermarsi della signoria di Dio nel mondo, contro la morte. Per Buddha vale: il nirvana è la liberazione dalla vita, la sua cessazione. La signoria sul mondo è un'illusione, impallidisce a confronto del nirvana. Gesù è importante in maniera duratura, anche il giudizio è legato a lui. Buddha è irrilevante per il singolo buddhista, insegna soltanto la strada per uscire dall'attaccamento. Gesù è la realizzazione personale della signoria di Dio. Buddha è il maestro del non mancare se stessi. In Gesù vale: il cristiano trova se stesso staccandosi prima da sé. In Buddha si dice: la liberazione e l'illuminazione esistono soltanto senza l'io e al di là di esso. In Gesù, pertanto, il distacco dall'io è uno stadio preliminare per ottenere nuova vita, anche già qui nel mondo. Per Buddha la nuova vita nasce attraverso il distacco e l'annullamento definitivi dell'io. In Gesù il nuovo io, che ha sostituito quello vecchio, viene determinato interamente da Gesù stesso. In Buddha vale: il nuovo è l'imperturbabilità, inclusa l'abolizione della compassione, poiché questa è soltanto parte della sofferenza, da ignorare nel suo complesso in quanto apparenza.
Amore o imperturbabilità: in Gesù esiste l'esigenza incondizionata dell'amore. La volontà di Dio si orienta all'essere umano, che ha bisogno di amore. Per Buddha vale: l'imperturbabilità va applicata anche all'amore, che è a sua volta parte dell'apparenza, da qui si comprende l'ammonimento di non amare troppo. In Gesù vale:
dimostra la tua bontà anche nei confronti dei più piccoli attraverso la vicinanza personale. In Buddha vale: la benevolenza risulta dalla mitezza e dall'impassibilità. L'obiettivo ultimo è di non amare ne se stessi, ne gli amici, ne i nemici. In Gesù il cuore è il centro del-l'amore per il prossimo e per Dio. Buddha indica la testa come centro della conoscenza e della bontà. Per Gesù il male va assolutamente combattuto. Per Buddha è necessario da un punto di vista etico lottare contro la transitorietà dolorosa. Gesù mette la fede in Dio al centro dell'attenzione. Buddha dice: a che serve la fede, se è animata dalla sete, se causa la sofferenza? Gesù insegna: l'amore \ umano non è animato dalla sete, bensì dall'amore e dalla vicinanza I di Dio. Buddha invece afferma: bontà e compassione sono soltanto passi sulla via che porta all'imperturbabilità. Gesù conosce un Dio personale. Buddha: il nirvana è innominabile, è incondizionatezza, è felicità non provata.
Preghiera e meditazione: Gesù prega, Buddha medita. Secondo Gesù nella preghiera si condensa il rapporto con Dio, la preghiera unisce a Dio e anche al prossimo (intercessione). Per Buddha la meditazione è un ritirarsi individuale nel silenzio. La via della salvezza è una tecnica. Il rapporto con se stessi è impacchettato nella meditazione. In Gesù vale: la meditazione e la preghiera sono porte dell'esperienza di Dio come salvezza. In Buddha vale: l'illumina-zione è una sorta di esperienza 'a-tea' di trascendenza. Cristiano è il «prega e lavora!» di Benedetto. Buddhista è la relativizzazione del lavoro, conta di più la strada verso l'interiorità che il lavoro nel mondo. Gesù vede se stesso più che altro come guaritore, Buddha come psicoterapeuta. Gesù è il ponte tra Dio ed essere umano. In Buddha vale: tra l'eternità e l'inconsistenza non esistono ponti.
Superamento del dolore: cristiano è aprire gli occhi, buddhista è chiuderli. Gesù desidera vincere la sofferenza, Buddha desidera annullarla. In Gesù la vita non è dolore già di per sé; la sofferenza è un difetto nella vita creata buona; l'opprimere e il derubare gli altri sono in contrasto con il dono della vita da parte di Dio. Buddha dice: la vita in fondo è assurda, il mondo visibile è cattivo. Gesù insegna: l'agire di Dio porrà fine al potere del male. Gesù stesso è il segno efficace di questa speranza. In Buddha le cose stanno così: la sofferenza viene mutata se l'essere umano riflette sul suo rapporto con essa. In Gesù la fede colma l'abisso tra Dio ed essere umano. In Buddha si dice: tutti possono diventare un buddha. Ma la strada tornerà a scomparire.
Istituzioni: cristiana è la priorità della chiesa sugli ordini religiosi. Il buddhismo è essenzialmente monachesimo.
Gesù: importanza assoluta e universale di Gesù. Buddha: tutti possono diventare un buddha.


A fronte di queste differenze nel confronto interreligioso con il buddhismo, la pardcolarità della posizione di Gesù nel cristianesimo si mostra con una chiarezza nuova. Buddha scompare dietro il suo messaggio - Gesù è il messaggio. A che scopo Gesù è morto, perché se n'è andato? La risposta più semplice dice: è responsabile del nostro acquartieramento presso Dio. Chi conosce almeno un po' l'ambiente religioso del cristianesimo primitivo, e in particolare il giudaismo, noterà: questo è un nuovo annuncio dal potenziale altamente esplosivo. In particolare i testi di Qumran mostrano che le speranze del giudaismo nella vita eterna non risalivano a un'epo-ca molto lontana. La normalità nel giudaismo continuava a essere l'ombra di un'esistenza nello Sheol. Nel migliore dei casi si faceva conto su alcune eccezioni, a cui era consentito percorrere la via opposta, cioè verso Dio. Ma ciò che Gesù presenta qui è rivoluzionario. Egli dice: quando salirò al Padre, uno di noi uomini sarà giunto là, irrevocabilmente, in maniera diversa da Enoch ed Elia, che avrebbero dovuto ritornare sulla terra per morire 'effettivamente'. No, ciò che succede qui è qualcos'altro. Qui il sogno che sognerà in seguito la mistica ebraica a proposito dell'essere umano, a cui è concesso di giungere fino a Dio, si è già realizzato in anticipo. E non solo questo. Gesù, infatti, è giunto fino a Dio non da solo, ma come il primo di molti fratelli. Coloro che credono in Gesù, che letteralmente lo mangiano, devono e possono diventare tutti simil a lui. Egli infatti è contemporaneamente acqua e pane, luce e vite Chi lo accoglie in sé percorrerà la stessa strada, quella strada cht rimane, che è Gesù stesso.
Così otteniamo uno sguardo del tutto nuovo sul ruolo di Gesù come redentore. Quando sentiamo questa espressione siamo abituati a pensare soltanto alla croce. Il quarto vangelo allarga la nostra visuale. Chi ha capito qualcosa del significato del termine 'rimanere' in questo vangelo, può vedere in 14,2 («molti posti», cioè non solo uno per Gesù) soltanto un enunciato centralissimo sulla salvezza. 'Rimanere', infatti, nel quarto vangelo significa sempre sfuggire alle zanne rabbiose della morte. E quando chiediamo «Che cosa rimane?», il quarto vangelo corregge la nostra domanda: chiedete piuttosto «Chi rimane?»! La strada di Gesù verso Dio ci porta la certezza insuperabile che il cielo è stato aperto. L esilio è infranto. Attraverso questa notizia, comunque, lo scandalo della croce è completamente dimenticato, e questo aiuta. La strada di Gesù verso Dio è come la prima scalata di un alto monte. Se è riuscita una volta, altri possono incamminarsi per questo itinerario coronato dal successo. Il destino di Gesù viene 'democratizzato', così come egli, secondo Paolo, è il primogenito di molti fratelli.
L'azione di salvezza fondamentale di Gesù risalterà soltanto nel futuro: Gesù ci ha preparato il luogo nel quale possiamo vivere in etemo. La redenzione è che Gesù e i cristiani siano insieme presso il Padre, in maniera analoga a come, in Me 13,27, la cosa fondamentale consisterà nel fatto che un giorno Gesù riunirà i suoi eletti e. come si dice semplicemente in 1 Ts 4,17, che i cristiani saranno «sempre con il Signore». Questa è la visione che apre il vangelo di Giovanni: a chi si fonda su questo nome, a chi crede in questo Dio e diventa discepolo di Gesù, il futuro sorride.
Ma il paradiso, il cielo — in che cosa consiste? Nello spazio misterioso dopo la morte e nel futuro del mondo ci aspetta qualcuno che anela a stringerci tra le braccia. La morte consiste nel fatto che nulla più ci separa dalla presenza di Dio. Per questo, in Le 12,50, Gesù può definire la morte anche battesimo, perché ci leviamo di dosso tutto ciò che non si adatta a Dio, in particolare tutti i fardelli ereditar! del peccato, che hanno tanto ferito il nostro corpo terreno. Insieme a esso ci sbarazziamo anche delle conseguenze dolorose di queste ferite. Nessuno si è avvicinato tanto a questo mistero confortante quanto Gesù. E poiché il canto corale gregoriano deimonaci fa intuire questa leggerezza nei confronti dell'agonia e della morte, l'Alto Medioevo lo definisce meditatio mortis continua, costante riflessione sulla morte - non per opprimere gli esseri umani, ma per allenarsi nel passo oltre la soglia.
Il cielo non è mera musica del futuro o soltanto consolazione. Gesù, infatti, non è soltanto la via, è anche l"unico ritratto' di Dio che abbiamo. L'immagine perfetta è già ora in mezzo a noi. Per questo i primi cistercensi proibivano tutte le immagini figurative nelle chiese, perché soltanto l'uomo è immagine di Dio e viene rinnovato in Gesù Cristo secondo il ritratto originario di Dio. Quando Gesù qui dice: «Chi ha visto me, ha visto il Padre», in rapporto al contesto storico-religioso ciò è una novità quanto il messaggio che Gesù è il primo essere umano presso Dio. «Chi ha visto me, ha visto il Padre» non l'aveva mai detto nessuno prima - lo splendore di Dio sui volti di Adamo ed Èva si era spento da tempo.
Nella sua eccezionale opera Gloria: un'estetica teologica [Jaca Book, Milano 1980s.], Hans Urs von Balthasar ha continuamente indicato tale dimensione estetica del quarto vangelo. E così facendo ha rimproverato a ragione alla teologia liberale e demitizzante di voler nutrire l'essere umano con delle astrazioni, quando invece il rapporto con Gesù può nascere soltanto dal vedere e dal guardare. Attraverso le astrazioni ('la rilevanza di Gesù') aumenta soltanto la fame, non la beatitudine. Questo vedere, guardare e assaporare Dio è essenzialmente legato alla liturgia. E invece di abolire progressivamente anche questa materia, bisognerebbe renderla il centro della formazione dei giovani teologi, perché qui tutte le strade si uniscono. Quando ho celebrato, in una liturgia, la fede comune in modo reale e autentico, nessuno può dissuadermi che ciò deve per forza avere a che fare con la visione della gloria di Dio. Proprio per questo, quando iniziai a studiare teologia, dopo la maturità, il mio parroco mi regalò un messale in cui scrisse sul frontespizio: «E noi vedemmo la sua gloria» (Gv 1,14). La liturgia si serve a questo scopo di tutti gli elementi (acqua, fuoco, pietra, ceneri), per riunire insieme lo splendore della creazione in un collage estasiante che rinvia alla gloria di Dio.
Perché Gesù, e soltanto lui, è la via? L'intero Nuovo Testamento fornisce la risposta in maniera unanime: soltanto Dio, il Padre di Gesù Cristo, può sconfìggere il potere della morte. Su tale questione vengono misurati tutti i fondatori di religioni e ciò vale proprio anche per il (neo)buddhismo di moda. La maggior parte di coloro che vi aderiscono ingenuamente non sanno affatto che in questa dottrina ciò che conta è in realtà annullare la propria persona -quindi proprio non il rimanere, non la nuova vita davanti a Dio. Insieme all'egoismo va cancellato anche l'io. Come esperto del Nuovo Testamento non riesco proprio a capire come dei cristiani possano avventurarsi su questa strada. In Gesù, infatti, conta la guarigione dell'io, l'iniezione decisiva di vitalità, l'amore che tutto muove. Staccarsi dalle cose e svuotarsi da esse, tra l'altro, lo impara anche il discepolo di Gesù. La parabola del tesoro nascosto dice forse qualcos'altro se non che colui che vuole acquistarlo lascia e vende tutto pieno di gioia ( ! )? No, non aspettavamo il buddhismo. Gesù basta.

Klaus Berger, Gesù, Queriniana, 482-489

domenica 14 ottobre 2012

ISLAM E VIOLENZA


Eppure il Corano dice che non ci deve essere costrizione alcuna in materia di fede...
Nel Corano si trovano sia dei versetti che sono in favore della tolleranza religiosa, sia altri che sono apertamente contrari a questa tolleranza. Di solito, i musulmani che vivono in Occidente citano volentieri i primi come, appunto, il versetto 256 della sura della Vacca (II) sul divieto di costringere la gente a credere. La traduzione di Bonelli dice: «Non vi sia costrizione alcuna per la religione, la via retta si distingue bene dall'errore», mentre quella di Peirone»: «Non ci sia coercizione in materia di libertà religiosa: la strada diritta è facilmente distinguibile dall'errore».
C'è anche il versetto 99 della sura di Giona (X) che, nella traduzione di Bonelli, recita: «Se, però, il tuo Signore lo avesse voluto, quelli che sono sulla terra avrebbero creduto tutti in generale; vuoi tu forse costringere gli uomini a divenire credenti?». Peirone traduce così:
«Se volesse il Signore, tutti quelli che sono sulla terra crederebbero. Ma tu non puoi prendere la gente per il collo perché credano!».
Queste affermazioni sono chiaramente nel segno della tolleranza, ma accanto ad esse ce ne sono altre più aggressive, come il famoso versetto 29 della sura della Conversione (IX). La traduzione di Bonelli dice: «Combattete contro quelli che non credono in Dio, ne nel Giorno estremo, e non considerano proibito quel che proibisce Dio e il suo apostolo e che non professano la religione della verità, ossia coloro ai quali è stato dato il Libro, finché non paghino la jizya (tributo) alla mano, con umiliazione». Con il termine "coloro ai quali è stato dato il Libro" ci si riferisce ovviamente a ebrei e cristiani. Nella traduzione di Peirone si legge: «Combattete coloro che sono kàfirùn (miscredenti) nel Dio e nell'ultimo giorno, che non dichiarano haràm (lecito) ciò che hanno dichiarato haràm il Dio e il rasùl (messaggero). Combattete, tra le genti della Scrittura, quelli che non praticano la religione verace. Combatteteli pure fino a che non abbiano pagato, uno ad uno, il tributo e non si siano umiliati».
Oppure il versetto 51 della sura della Mensa (V) che dice: «La gente del Vangelo giudichi, quindi, secondo ciò che Dio ha dichiarato in esso, poiché quelli che non giudicano secondo ciò che Dio ha rivelato, quelli sono gli empi»; o anche il versetto 110 della sura della Famiglia di "Imràn (III), che si rivolge ai musulmani dicendo: «Voi siete la miglior nazione che sia stata prodotta agli uomini, voi ordinate ciò che è lodevole e proibite ciò che è riprovevole e credete in Dio, che, se la gente del Libro pure credesse, meglio sarebbe per essa, tra quelli vi sono dei credenti però la maggior parte di essi sono degli empi». Come dire che la maggior parte degli ebrei e dei cristiani sono degli empi e devono perciò essere combattuti come kuffdr o kàfirùn, come dei miscredenti.
Non dimentichiamo che qui stiamo ancora parlando di cristiani e di ebrei e non di politeisti. Per questi ultimi, infatti, non c'è scampo: o diventano musulmani o devono essere uccisi. Il versetto 142 della stessa sura si interroga: «Pensate forse di entrare in Paradiso senza che Allah vi veda combattere la guerra santa con fede salda e sicura?», mentre il versetto 39 della sura del Bottino raccomanda: «Combatteteli finché non ci sia più afflizione e la religione sia tutta per Allah».
Anche nella tradizione degli hadith attribuiti a Maometto troviamo raccomandazioni simili. Nella raccolta di al-Bukhan un capitolo intero è dedicato al jihàd: in esso Fautore tratta esclusivamente della guerra in nome di Dio. Il paragrafo 102 di questo capitolo dice: «Ho ricevuto l'ordine di combattere la gente finché confessino che non c'è altra divinità se non Dio. Chi confessa questo non ha niente da temere da me, non può essere attaccato nella sua persona, ne nei suoi beni se non in conformità con il diritto dell'islam ed è Dio che sarà responsabile di lui».
Un altro hadith attribuisce a Maometto la massima:
«Sappiate che il Paradiso è sotto le ombre delle spade».
Al capitolo primo, paragrafo 29, della raccolta di Ibn Hanbal troviamo, invece, un hadith attribuito a Maometto - ma personalmente nutro dei dubbi - in cui il profeta esprime la sua intenzione o addirittura da l'ordine di cacciare gli ebrei e i cristiani dalla Penisola arabica affinchè non vi rimangano che i musulmani:
«Espellerò gli ebrei e i cristiani dalla Penisola degli Arabi, in modo da non lasciarvi che i musulmani»; o ancora: «Espellete dalla Penisola degli Arabi gli ebrei del Hijaz e la gente di Najran (cioè i cristiani)». Sappiamo che, basandosi su questi hadith la cui attribuzione è piuttosto discutibile, nell'anno 20 dell'egira (641 d.C.) il califfo Umar ha effettivamente cacciato i cristiani e gli ebrei dalla Penisola arabica.
Sto facendo questa riflessione sulla violenza nel Corano e nella vita di Maometto per rispondere all'affermazione diffusa in Occidente secondo cui la violenza che vediamo oggi costituisce una deformazione dell'islam. Dobbiamo invece riconoscere onestamente che esistono due letture del Corano e della sunna: una lettura legittima che opta per i versetti che invitano alla tolleranza nei confronti degli altri credenti, accanto ad una seconda lettura altrettanto legittima che preferisce i versetti che invitano al conflitto.
Di fronte a questi versetti tra loro contraddittori la tradizione musulmana ha dovuto trovare un metodo di interpretazione chiamato il principio dell'abrogante e dell'abrogato, in arabo al-nàsikh wa-l-mansùkh. La teoria è semplice: Dio, dopo aver dato una disposizione o un ordine, può dare un ordine opposto, per motivi contrari. Si tratta quindi di sapere quale sia l'ultimo ordine di Dio con cui viene cancellata e abrogata la disposizione precedente. Il problema è stato trattato da decine di esegeti i quali hanno scritto lunghi trattati intitolati «Dell'abrogante e dell'abrogato», senza purtroppo raggiungere un consenso che ci permetta di dire con chiarezza: questi versetti hanno abrogato quelli, e questi sono stati abrogati da quelli. Il principio dell'abrogante e dell'abrogato trova del resto fondamento nel versetto 106 della sura della Vacca (II): «Non abroghiamo un versetto ne te lo facciamo dimenticare senza dartene uno migliore o uguale. Non sai che Dio è onnipotente?».

da Cento domande sull'Islam di Samir Khalil Samir pp. 39-42

mercoledì 10 ottobre 2012

Differenza tra morale e religione (K. Berger)

Parona. Sacrificio di Abramo
(frangia del baldacchino processionale)

Un contributo per la nuova evangelizzazione: superare gli stretti limiti della morale per testimoniare l'amore senza limiti che viene da Dio

La differenza tra morale e religione

Che cosa abbiamo fatto del nostro Dio, per non capire più tutto quanto descritto? E da supporre che scambiamo la religione con la morale. E così nelle chiese di massa dell'Illuminismo, nelle quali, in seguito alla critica kantiana della ragion pratica, ci si è fatti un'idea secondo cui deve valere soltanto ciò che corrisponde ai postulati di un agire morale razionale e al consenso sociale minimale che ne risulta. Tutto viene ormai inteso soltanto dal punto di vista morale. E anche il cristianesimo viene messo nel mazzo, viene ridotto alla ragione e alla morale. Dalle immagini del Nuovo Testamento, tuttavia, non parlano affatto la ragione e la morale, bensì il Dio vivente, non monopolizzabile neppure dal punto di vista morale. Riteniamo qualcosa edificante e religioso soltanto quando è moralmente emulabile. E quando non lo è, ci scandalizziamo. La nostra riduzione della religione alla morale ci consente di essere coloro che scagliano le pietre e per il resto sono a posto al cento per cento. Ma la nostra morale non va oltre un misero strato di correctness.
E torno a bloccare queste riflessioni: non proviamoci a comprendere tutte le immagini di Dio soltanto da un punto di vista morale. In questo modo ci mettiamo nei pasticci. Ci farebbe piacere addomesticare Dio con la morale, prescrivendogli che cosa deve e che cosa non può fare. Può essere soltanto il buon Dio e non, per esempio, anche il Dio abissale. Deve fare sempre e soltanto il bene e non arrivare allo scopo attraverso la via di un amore radicale, di un'astuzia radicale, forse addirittura di una radicale disperazione. Dev'essere sempre e soltanto un modello perbene. Tutto ciò non è sbagliato, ma non corrisponde al Dio di volta in volta e sempre interamente altro, ogni discorso sul quale deve restare analogico se non si vuole correre il rischio di sostituire un'immagine umana al mistero. C'è un tempo per parlare di Dio come modello. E c'è un tempo in cui egli è soprattutto il grande, l'inconcepibile, il santo e il caparbio, per noi impossibile da giudicare e a cui non possiamo attribuire alcun giudizio.
Non comprendiamo più le immagini eccentriche del Nuovo Testamento. Per questo esiste un conflitto tra la religione ridotta ai diritti umani e la Bibbia. Apprezziamo l'autonomia e la libertà - il Dio della Bibbia, però, regna direttamente e da solo, sceglie chi vuole lui e rende ostinato chi vuole lui. Intuiamo che lo scopo di Dio è avere misericordia di tutti. Ma non è questione di decoro e morale, bensì lì è il cuore di Dio a parlare, il suo amore inconcepibile.
Qual è la differenza tra religione e morale? Nella morale si tratta di misura, del consenso minimale per una convivenza ragionevole per tutti. Arthur Schopenhauer traduce questo concetto nella metafora dei porcospini, che nel branco stanno gli uni vicini agli altri quel tanto che è sufficiente a scaldarsi, ma mantengono le distanze abbastanza da non ferirsi. Non bisogna fare nulla che passi la misura; nessuno è tenuto a dare il massimo. Nessuno è tenuto a vivere sulle cassette per le banane dando tutto il resto ai poveri. Eppure, quando qualcuno lo fa, per esempio per motivi 'religiosi', questo è un segno che rimanda a Dio - soltanto allora. Nella morale vale l'imperativo categorico: agisci in modo che la norma del tuo agire possa valere per tutti in qualunque momento. No, quello che ha fatto Brùsewitz non può valere per tutti. Ma nella religione Kant è l'ultimo.
Bisogna dirlo tre volte in un Paese in cui da duecento anni i cristiani evangelici (ma di recente anche molti cattolici) costruiscono la loro immagine del mondo più su Kant che su Gesù. Dio non si è risparmiato, non ha risparmiato nemmeno Gesù. E nessuno (e tanto meno la morale) può obbligare le persone che amano a fare quello di cui sono spesso capaci, sovente è qualcosa di semplicemente sovrumano. Dal punto di vista morale, bisognerebbe continuamente ripetere: pensa anche un po' a tè stesso, non pretendere troppo da tè! La nostra morale parte dal presupposto che da nessuno si esiga quanto va al di là delle sue forze. E ciò ha un suo senso. Non bisogna pretendere troppo da nessuno, nessuno deve dare di più di quello che può.
Quando, in quanto segue, parlo di morale, non intendo la teologia morale cristiana, bensì la morale popolare illuminista. E morale che tutti ottengano giustizia. È cristiano che qualcuno sappia anche rinunciare ad aver ragione. E morale che tutti abbiano dei diritti inalienabili. E cristiano chiedere coraggiosamente anche cose spiacevoli. Sono morali un salario adeguato, le ferie, il tempo libero e una casa propria. E cristiano cavarsela senza tutto ciò, se necessario. Sono morali i diritti dell'uomo e le libere decisioni di coscienza. Cristiano è un Dio che chiama e coglie di sorpresa, che rende ostinati e reclama e usa gli esseri umani come suoi strumenti. Morale è la tolleranza. Cristiano è un amore che corteggia in modo fantasioso.
Morale è: l'utero è mio. Cristiano è: appartengo a Dio, utero incluso. Noi genitori abbiamo insieme la responsabilità anche di un bambino disabile. Morale è: per carità, nessun sacrificio! Cristiano è: il mondo è stato redento per mezzo del dolore. Il tentativo complessivo di trasformare in etica il vangelo del discorso della montagna in fondo è stato lo sforzo a-teo di eliminare le pretese eccessive. Ma ciò che ne risulta è appunto ben diverso da ciò che voleva Gesù. E questo era ciò che voleva: non volgere lo sguardo a se stessi, ma prescindere radicalmente da sé, non badare alla misura, ma aprirsi al Dio senza misura, al di là della morale.
Una religiosa, 'suora della carità', che vive in celibato, rinuncia al matrimonio e alla famiglia, ai figli e, anche per il resto, a quasi tutto ciò a cui le persone aspirano a buon diritto. Nessuno è obbligato a essere una 'suora della carità'. Ma in una chiesa in cui le suore spariscono, in cui i parroci intentano processi contro l'amministrazione ecclesiastica perché la tredicesima viene dimezzata, domina sì la morale, ma appunto non più la religione. Una chiesa purgata della radicalità di Dio trasforma se stessa nella brutta copia di una morale umana banalizzata ed elimina il suo nucleo, il Dio vitalmente presente, che continua anche a esigere senza misura. Il celibato per amore del vangelo, il martirio, l'amore pieno di abnegazione, disinteressato oltre misura - sono tutti marchi di fabbrica dell'essere-cristiano. Ciò va smarrito dove la morale comune
viene anteposta alla religione, così che la seconda ne viene completamente nascosta. Un cristianesimo puramente morale è costretto a giudicare continuamente gli altri nell'ottica delle regole perbeniste borghesi. Siamo chiamati a essere giudici sulla lunghezza delle gonne e sulle loveparade? No, bensì ad aprire il nostro cuore e a stupirci delle vie del Signore.
Ma è un bene che esistano entrambi, la morale che stabilisce dei confini e la sconfinatezza di Dio. Il fatto che esista la morale è particolarmente utile per le persone a cui bisogna dire: pensa anche un po' a tè stesso. Sta scritto infatti: ama il prossimo tuo come tè stesso. Come tè stesso: ti è lecito dunque amare tè stesso, sei addirittura tenuto a farlo. La morale tutela anche noi, tutela le vittime e addirittura i carnefici. Nel frattempo, però, abbiamo adottato a sufficienza tali misure di protezione. Forse è meglio se pensiamo un po' anche ali'altro aspetto, cioè che esiste anche la sconfinatezza di Dio. Che imbarazzo quando un giovane religioso dice: ogni giorno devo fare qualcosa di buono per me. Sono diventato teologo proprio perché non volevo questo. Non lo sarei mai diventato, se non fosse esistito un parroco che aveva orario di ricevimento giorno e notte, non soltanto ogni martedì alle tré. Il Crocifisso si china dalla croce e stringe le braccia intorno a noi esseri umani, intorno a ognuno di noi. Una persona che ama non si risparmia. Dio ci conceda di riconoscere il momento, a seconda che siamo chiamati alla misura o alla mancanza di misura.
(Klaus Berger, Gesù, Queriniana, Brescia 2006, pp. 340-343)

lunedì 8 ottobre 2012

L'ASSIST NELL'ICONE (Trubeckoj)


In questo santo ardore della Russia è tutto il segreto degli antichi colori delle icone.
La serie degli esempi testé citati ci dimostra come il pittore sappia con i colori distinguere due piani dell'esistenza: quello terreno e quello ultraterreno.
Abbiamo visto come questi colori siano assai vari. Ora è il rosso porpora del cielo tempestoso, ora l'abbagliante luce del sole, o lo splendore di una raggiante, luminosa figura. Ma per quanto vari siano i colori che segnano il limite fra due mondi, si tratta sempre di colori celesti a doppio senso, cioè nel senso proprio e insieme simbolico del termine. Sono i colori del cielo visibile che hanno assunto il significato convenzionale, simbolico di segni del cielo ultraterreno.
I grandi artisti della nostra antica iconografia, come gli iconografi greci che crearono questo simbolismo, erano senza dubbio acuti e profondi osservatori del cielo nei due significati di tale vocabolo. Il cielo di questo mondo si spalancava dinanzi ai loro occhi corporei; il cielo ultraterreno lo contemplavano con gli occhi della mente, viveva nell'intimo del loro cuore, aperto alle emozioni religiose e la loro creazione artistica univa l'uno all'altro cielo. Il cielo ultraterreno per essi si tingeva del variopinto arcobaleno di toni del nostro mondo sublunare. E in questa colorazione non v'era nulla di casuale, di arbitrario. Ogni sfumatura aveva il suo posto, il suo particolare significato e giustificazione. Se non ci riescono sempre chiari ed evidenti, ciò dipende unicamente dal fatto che noi li abbiamo smarriti, abbiamo perso la chiave per comprendere quest'arte unica al mondo.
La gamma di significati dei colori delle icone è immensa, come la gamma naturale dei colori del cielo che quella rende. Anzitutto, il pittore conosce una grande varietà di sfumature dell'azzurro: il blu-scuro della notte stellata, il luminoso splendore diurno del firmamento ceruleo, una quantità di toni azzurro-pallidi, turchini e persino verdastri, che impallidiscono al tramonto. A noi, abitatori del nord, capita assai spesso di osservare questi toni verdastri dopo il tramonto del sole, ma veramente azzurro ci pare soltanto quello sfondo generale del cielo sul quale si squaderna l'infinita varietà dei colori celesti: lo scintillio notturno delle stelle, l'alba di porpora, il rosso infuocato di un temporale notturno, il bagliore d'incendio purpureo, il policromo arcobaleno e infine l'oro smagliante del sole meridiano giunto allo zenit.
Nell'antica pittura russa noi troviamo tutti questi colori usati in modo simbolico, ultraterreno. Il pittore se ne serve per separare il cielo senza confini dal nostro sublunare, terrestre piano dell'esistenza. Qui sta la chiave per la comprensione dell'ineffabile bellezza del simbolismo pittorico dei colori.
La sua idea madre consiste, a quanto pare, in ciò che segue: la mistica della pittura iconografica è anzitutto una mistica solare, nel significato elevato, spirituale di questo termine. Per quanto splendidi siano gli altri
colori celesti, tuttavia l'oro del sole meridiano è il colore dei colori, la meraviglia delle meraviglie. Tutti gli altri colori si trovano, al suo confronto, come subordinati e paiono formare intorno a esso « un ordine ». Di fronte all'oro svanisce l'azzurro carico del cielo notturno, sbiadisce il luccichio degli astri e il bagliore dell'incendio notturno. Lo stesso rosso purpureo dell'alba non è che l'araldo del sole che sorge. E, infine, tutti i colori dell'arcobaleno dipendono dal gioco di raggi solari; giacché fonte di ogni luce e colore, nel cielo e nell'atmosfera, è il sole.
Nella nostra iconografia questa è la gerarchia dei colori intorno al « sole intramontabile ». Non c'è colore dell'arcobaleno che non trovi posto nella raffigurazione della gloria divina ultraterrena, ma di tutti i colori solo l'oro solare designa il centro della vita divina, mentre tutti gli altri gli fanno corona. Soltanto Iddio, splendente « più del sole », è la fonte di luce regale. Gli altri colori esprimono la natura della gloriosa creatura celeste e terrena che costituisce il Suo tempio vivo, non fatto da mano d'uomo. Pare quasi che l'iconografo con mistica intuizione abbia indovinato il segreto dello spettro solare, scoperto parecchi secoli più tardi; pare che abbia sentito i colori dell'arcobaleno come rifrazioni policrome dell'unico raggio solare della vita divina.
Questo colore divino nella nostra iconografia ha il nome tecnico di « assist ». L'assist non è mai oro compatto, a massa, ma è come un'eterea, aerea ragnatela di sottili raggi dorati, che provengono dalla Divinità e con il loro luccichio illuminano tutte le cose circostanti. Nell'icona l'assist presuppone sempre e in certo modo indica la Divinità come sua fonte. Ma nello splendore della luce divina spesso con l'assist viene glorificato anche ciò che circonda la Divinità, ciò che già è entrato nella vita divina e le sta immediatamente vicino. Di assist sono ricoperte le vesti splendenti della « Sofia », Saggezza Divina, e della Madonna rapita in cielo (dopo l'Assunzione). Di assist spesso scintillano le ali degli angeli. In molte icone esso indora le cime degli alberi del Paradiso, talvolta ricopre nelle icone anche le cupole a bulbo delle chiese. È da notare che tali cupole nelle raffigurazioni pittoriche sono coperte non di oro compatto ma di lustrini e raggi dorati; a causa della loro eterea leggerezza danno l'idea di una luce viva, ardente e come in movimento. Mandano scintille le vesti del Cristo glorificato, luccicano di fuoco i paramenti e il trono della Sofia-Saggezza, ardono verso i cieli le cupole dei templi. E proprio da questo luccichio e da quest'ardore la gloria ultraterrena si distingue da tutto quanto è terreno, non glorificato. Il nostro mondo sublunare soltanto cerca il celeste, imita la fiamma, ma in effetti è da essa illuminato soltanto a quell'altezza che solo i fastigi della vita religiosa raggiungono. L'imitazione dell'oro etereo comunica anche a questi fastigi la sembianza dello splendore ultraterreno.
In generale, i colori ultraterreni vengono impiegati dalla nostra antica iconografia, specialmente da quella novgorodiana, con straordinaria delicatezza artistica. Non troviamo l'assist nelle raffigurazioni della vita terrena del Salvatore, dove è sottolineata la Sua natura umana, dove la Divinità è celata in Lui, apparso « sotto la forma di schiavo ». Ma l'assist ricopre le Sue sembianze non appena il pittore Lo vede glorificato, o anche soltanto vuoi far sentire la Sua futura glorificazione. Di assist non di rado brilla il Bambino Gesù, quando il pittore deve sottolineare l'idea dell'eterno infante, di assist sono tinte le vesti di Cristo nella Trasfigurazione, nella Risurrezione e nell'Ascensione, dello stesso specifico splendore della Divinità arde Cristo quando strappa le anime dall'inferno e sta in paradiso con il ladrone.
Un'impressione artistica particolarmente forte ottiene l'uso dell'assist dove il pittore deve contrapporre l'uno all'altro dei due mondi, distanziare l'ultraterreno dal mondano. Lo notiamo, per esempio, nelle antiche icone dell'Assunzione della Vergine. A prima vista nelle più belle di queste icone è evidente che la Vergine sul letto di morte, in veste scura, con tutte le persone care che l'attorniano, corporalmente dimora nel piano della nostra esistenza terrena, quello che si può toccare e vedere con gli occhi nostri mortali. Per contro, il Cristo ritto alle spalle del letto funebre, in vesti chiare, tra le mani l'anima della Vergine in aspetto d'infante, produce l'impressione altrettanto evidente di apparizione ultraterrena. Egli arde tutto, manda scintille e si distingue dai colori intenzionalmente severi del piano del-l'esistenza terrena per l'eterea leggerezza dei vaporosi lineamenti coperti di assist. Questo contrasto è reso in modo particolarmente incisivo nelle due icone del xvi secolo delle collezioni moscovite di A.V. Morozov e di I.S. Ostrouchov. S'aggiunga che in alcune pitture (nella collezione Ostrouchov) si vede nell'alto dei cieli
la Vergine, già glorificata di quello stesso splendore dorato, fra gli angeli sfavillanti di assist.
In altre icone dell'Assunzione, il medesimo effetto artistico di separazione dei due piani dell'esistenza viene talvolta ottenuto con colori diversi di quella stessa gamma di tinte celesti. Cristo, in piedi dietro il letto di morte della Vergine, si distingue da lei non soltanto perché coperto d'assist, ma per una particolare colorazione delle sfere celesti che l'attorniano. A volte si tratta di un'unica sfera, formante attorno a Cristo un ovale azzurro-cupo nel quale sono visibili i cherubini; tutti paiono come sommersi nell'azzurro, a eccezione di uno, fiammante di porpora, proprio sul vertice dell'ovale sopra il capo del Salvatore. Ma talvolta, per esempio nella bellissima icona novgorodiana del xvi secolo che si trova al Museo Alessandro III di Pietrogrado, vediamo in quello stesso ovale molte sfere celesti disposte l'una sopra l'altra. Esse si distinguono fra loro per una quantità di sfumature e riflessi diversi dell'azzurro e alcune di queste sfere appaiono dipinte di toni inverosimili, chiari, verdi turchese. Lo spettatore riceve da questi toni un'impressione di ultraterreno semplicemente sbalorditiva. A lungo mi sono sforzato di scoprire l'enigma dove mai l'artista avesse potuto osservare in natura quei colori, finché non li ho visti io stesso dopo il tramonto del sole sullo sfondo del nordico cielo di Pietrogrado.
Del resto tutta questa varietà di toni azzurri, bluastri e persino verdognoli, ispirati dalla natura immateriale delle teste alate degli angeli, rappresenta un enigma relativamente semplice e facile. Assai più complesso e, se si vuole, più profondo è il mistero di quel brillante color porpora del cielo che costituisce uno dei più grandi fascini dello stile iconografico novgorodiano. L'enigma qui si complica in particolare per la straordinaria varietà dei toni del porpora celeste che si possono osservare. L'iconografo, come già abbiamo visto, conosce il porpora della tempesta celeste, ispirato dal-l'immagine del profeta lancia-fulmini. Osserva il purpureo bagliore dell'incendio notturno e di esso illumina le immense profondità della notte eterna nell'inferno, colloca alle porte del paradiso la fiamma purpurea di un cherubino di fuoco. Infine, nelle antiche icone novgorodiane del Giudizio Universale noi vediamo tutta una barriera infuocata di cherubini purpurei immediatamente sotto la rappresentazione del secolo futuro e sopra le teste degli apostoli assisi in trono. Tutte queste raffigurazioni iconografìche del fuoco celeste sono relativamente chiare e trasparenti. Il problema diventa incomparabilmente più arduo e complesso quando noi accediamo al mistero mistico del colore purpureo della S. Sofia-Saggezza Divina.
Perché il nostro iconografo ha ornato di chiara porpora il volto, le mani, le ali e a volte persino le vesti dell'eterna Saggezza che ha creato il mondo? Sino a oggi nessuno ancora ha dato una risposta soddisfacente a tale quesito. Capita spesso di udire che il porpora della S. Sofia è fiamma. Ma tale spiegazione non spiega nulla. Infatti, come abbiamo già visto, esiste una grande quantità di specie e perciò di significati della fiamma ultraterrena: dall'ardore solare dell'assist al sinistro bagliore della Geenna infuocata. Di quale specifico tipo di fiamma si tratta qui? Che fuoco è quello di cui fiammeggia la S. Sofia e in che consiste la differenza di questo porpora dalle altre rappresentazioni icono-grafiche dello stesso colore?
La spiegazione si può trovare soltanto nella sudde-scritta mistica solare dei colori che esprimono simbolicamente i misteri del cielo ultraterreno. Chi conosce le più belle immagini novgorodiane della « Sofia » non nutre il minimo dubbio in proposito. Prendiamo l'icona di rara bellezza ricamata in seta della S. Sofia del xv secolo, donata dal conte A. Olsuf'ev al Museo storico di Mosca, o la non meno stupenda Sofia novgorodiana del Museo Alessandro III di Pietrogrado, senza poi dire delle molte altre raffigurazioni della purpurea Sofia di minor pregio artistico; noi troviamo in esse sempre un tratto comune. Vi vediamo infatti la « Sofia » assisa in trono sullo sfondo azzurro-cupo del cielo notturno, stellato. Proprio il contatto con le tenebre notturne rende straordinariamente bella quest'apparizione del porpora celeste, e proprio in questo contatto sta la spiegazione del significato simbolico di un tale colore.
« Hai fatto tutto con Sapienza » si canta nel salmo. Ciò significa che la Saggezza è proprio quell'eterno pensiero divino sulla creazione che chiama ogni creatura celeste e terrena all'essere dal non-essere, dalla tenebra della notte. Ecco perché la Sofia è raffigurata su uno sfondo notturno, ma appunto questo sfondo notturno rende assolutamente necessario il brillare del porpora celeste nella « Sofia ». Esso è il porpora dell'alba divina che ebbe inizio fra le tenebre del non-essere, è il levarsi del sole sempiterno sopra le creature. La Sofia è ciò che precede tutti i giorni della creazione.
Non intendo decidere quanto il ragionamento consapevole abbia preso parte nella scelta del colore; sono propenso a ritenere che il porpora della « Sofia » sia stato piuttosto scoperto da un'immediata illuminazione dell'istinto creativo, da una mistica sovracoscienza dell'iconografo. Ma ciò non muta il nocciolo della questione. L'attrazione verso il cielo e la profonda conoscenza del medesimo nei suoi due significati gli suggerirono che il sole, uscendo dalle tenebre o in genere a contatto con esse, inevitabilmente si colora di porpora. Egli era abituato a un tale spettacolo, perché ogni giorno l'osservava e ne era impressionato. Così stando le cose, è indifferente ch'egli si rendesse conto di dipingere un'alba, ovvero che nella sua creazione artistica l'alba rappresentasse soltanto una reminiscenza inconscia. In ambedue i casi è vero che la Sofia per lui si tingeva del colore dell'alba. Egli vedeva l'alba sempiterna e dipingeva esattamente quello che vedeva.
Del resto altri prima di lui ebbero la meravigliosa visione dal volto infuocato e dalle dita di porpora alla luce del sole nascente. Chi non conosce l'alato verso di Omero: « Si levò dalle tenebre la giovane Eos dalle dita purpuree »? La differenza di sentire tra l'Omero pagano e l'iconografo cristiano-ortodosso sta nel fatto che quest'ultimo vede le dita purpuree non nell'alba terrena ma in quella sempiterna e le rapporta al cielo ultraterreno. Il porpora rimane sempre il colore del mattino, ma muta nella stessa sua essenza il suo principio ispiratore.
Nelle icone sunnominate c'è ancora un tratto che conferma nettamente il carattere solare dell'apparizione della « Sofia ». Ho già detto che è tutta coperta di una sottile ragnatela di assist e perciò lo stesso purpureo suo volto appare al pittore fra il luccichio dei raggi del sole.
Paragoniamo questo volto con quello del Cristo glorificato assiso in trono, È chiaro che sarebbe sacrilegio dipingere Cristo purpureo! E perché ciò che risulta sconveniente per Cristo è tanto bello e conveniente per la « Sofia »? Perché nella sfera solare della mistica iconografica non si addice a Cristo Rè nessun altro colore se non quello più elevato nella gerarchla regale dei colori: la luce abbagliante del giorno che non tramonta. Invece alla « Sofia », proprio per la sua posizione subordinata nella gerarchia celeste, s'addice il porpora che anticipa la rivelazione solare suprema.
Nell'iconografia russa non è questo l'unico caso in cui il porpora segna il punto di contatto della luce solare con la tenebra. Nella collezione di I.S. Ostrouchov c'è una bellissima icona della Trasfigurazione nello stile di Ustjug del xvi secolo, dove si registra un fenomeno analogo. Di solito la Trasfigurazione viene dipinta su uno sfondo chiaro di meriggio. Per contro nell'icona suaccennata la Trasfigurazione è raffigurata su uno sfondo notturno di cielo stellato, mentre la luce del Tabor desta gli apostoli dormienti nelle tenebre.
Ebbene, in questa rappresentazione notturna la gamma dei colori si distingue nettamente da quelli usati nelle icone diurne della Trasfigurazione. Nell'iconografia novgorodiana la luce taborica viene sempre raffigurata sotto forma di stella che aureola il Salvatore. Nel nucleo centrale di questa stella il Salvatore appare sempre inondato di oro assist, conforme alle parole evangeliche: « E il Suo volto risplendette come il sole... ». Ma i margini della stella di solito abbondano di altri colori celesti: l'azzurro-cupo, il blu, il verdastro, l'arancione. Per contro nell'icona notturna di I.S. Ostrouchov, la luce del Tabor, venendo a contatto con la circostante tenebra, trapassa non verso l'azzurro, ma verso il porpora. Anche in questo si esprime una concezione artistica molto ardita e profonda. In mezzo alle simboliche tenebre notturne che avvolgono l'universo, il fulmine della Trasfigurazione, destando gli apostoli, annuncia l'alba del giorno divino e così pone fine al pesante sonno del peccato.
Esiste un tratto stupendo che distingue quest'alba della Trasfigurazione dall'apparizione della «Sofia». Nelle icone della « Sofia » è dipinto di porpora lo stesso suo volto, le ali e le mani. Per contro nella nominata icona della Trasfigurazione notturna noi notiamo il porpora soltanto nell'aureola stellare di Cristo, anzi ai suoi margini estremi. Nell'apparizione della « Sofia-Saggezza » il porpora esprime l'essenza di questa, mentre nell'icona della Trasfigurazione è soltanto uno dei colori subordinati dello sfondo celeste dell'apparizione di Cristo.
Per concludere, accenniamo al fatto che il pittore d'icone non ignora il più bello di tutti i fenomeni della luce solare: l'arcobaleno celeste. Antecedentemente ho già detto come nelle icone della Vergine di stile novgorodiano il mondo, raccolto in Cristo attorno alla Madonna, appaia quasi policromo arcobaleno. Una stupenda rappresentazione di quest'arcobaleno e una comprensione straordinariamente profonda della sua mistica essenza si può trovare nelle icone della « Vergine, Roveto Ardente », specialmente nella bellissima icona di S. P. Rabusinskij, stile di Pskov, sec. xv. Qui per l'appunto vediamo raffigurata la rifrazione dell'unico raggio del sole divino in uno spettro policromo di ordini angelici, raccolti intorno alla Vergine e per il suo tramite dominanti sugli elementi del mondo. In questa corona ogni spirito ha un suo particolare colore; ma quell'unico raggio cui s'associa la Deipara, quel fuoco che riluce attraverso di Lei, unisce in Lei tutta questa gamma spirituale dello spettro celeste: di esso arde tutto il mondo multicolore angelico e umano. In tal modo il « Roveto Ardente » esprime l'ideale della creatura illuminata e glorificata, della creatura che alberga in sé il fuoco del Verbo Divino e di esso arde senza incenerire.