mercoledì 25 aprile 2012

Il valore del silenzio

Nell’esperienza cristiana il comunicare e il tacere non sono posti in contrapposizione né si fa un’assolutizzazione di uno dei due elementi. Afferma un padre del deserto: «La sapienza sta nel sapere in quale momento parlare» e nel come farlo, aggiungo io. «Vi è un uomo che sembra tacere e il suo cuore giudica gli altri: costui parla sempre» (Poimen 27). Possiamo trovare consigli che sembrano contrastanti o che realmente lo sono perché sorgono dall’esperienza che non è unitaria. Non si tratta di stabilire delle massime che valgono sempre ma di fare attenzione all’esperienza.
Su questo argomento molto importante, offro dei semplici spunti, attinti dalle testimonianze di persone che lo hanno vissuto in modo molto positivo.

Il silenzio può essere anche molto negativo, quando è indice di rifiuto della comunicazione o incapacità di comunicare, fino a preparare esplosioni di violenza. Oggi forse per molti il silenzio, più che lo stare zitti, potrebbe essere un esercizio per uscire dal mutismo, dall’incapacità di relazionarsi, di comunicare e  per cominciare a parlare in modo umano.
Nel monachesimo, imparare a tacere è meno importante dell’imparare ad osservare e ad esprimere i propri sentimenti. Un cuore che non fa discernimento e non avverte le passioni e i movimenti interiori che lo agitano, non potrà mai essere in quiete. Non si comincia mai dalla totalità, ossia dall’amore pieno, ma dall’analisi sincera della nostra grandezza dentro il nostro limite.
Nel nostro limite l'amore è intrecciato con l'odio. È un’esperienza comune: i tifosi di una squadra che odiano i tifosi di un'altra; i seguaci di una religione che si oppongono a quelli d’un’altra; la mamma che impedisce una vera maturazione del figlio perché lo ama troppo. 
Non dico nulla per quanto riguarda il lato umano. Dal punto di vista religioso, non dobbiamo nutrire disprezzo né avversione verso coloro che non condividono il nostro credo (o il nostro grande amore), neppure verso chi pensiamo abbia tradito la nostra  causa.  Non dobbiamo costringere nessuno a difendersi da noi.
Gesù voleva interrompere lo stile degli uomini zelanti che difendevano Dio eliminando pagani o apostati. In Lui appare questa grande novità che non è stata compresa in modo adeguato.


Esame di se stessi

Ho accennato all’attenzione a se stessi. Il silenzio, prima ancora di essere assenza di parole, è attenzione al rapporto qualificato, non immediato. Vi presento un testo di un maestro spirituale, Doroteo, che invita i monaci a fare attenzione alla loro interiorità riguardo all’argomento del rancore.
93. Si può rendere male per male non solo con le azioni, ma anche con le parole e l'atteggiamento. Talvolta si prende un atteggiamento o si fa un movimento o uno sguardo che turba il fratello: sì, si può ferire il fratello anche con uno sguardo o un movimento, ed è anche questo un rendere male per male. Un altro si studia di non rendere male per male né con l'azione né con la parola né con l'atteggiamento o il movimento, però ha in cuore una tristezza contro il suo fratello e si affligge contro di lui. Guardate che differenza di stati d'animo. Un'altro non ha neppure qualche tristezza contro il proprio fratello, ma se sente dire che qualcuno lo ha afflitto o ha mormorato contro di lui o lo ha offeso, si rallegra all'udirlo, e anche costui si trova a rendere male per male nel suo cuore. Un altro invece non solo non ha nessuna cattiveria e non gode a sentire che chi lo ha afflitto è stato offeso, ma si affligge addirittura se quello viene afflitto: però non prova piacere se egli riceve del bene, e si affligge se lo vede onorato o contento: ed è anche questa una sorta di rancore, più leggera, sì, ma lo è pur sempre. Invece bisogna gioire per la contentezza del proprio fratello e fare di tutto per servirlo e preparare ogni cosa per dargli onore e soddisfazione.
2. Il silenzio è importante nella formazione della persona religiosa: «Ciò che l’irrigazione è per le piante, è il silenzio continuo per la crescita della conoscenza» (Un’umile speranza… 61). «Ogni uomo che si dà al molto parlare, anche se dice cose degne d’ammirazione, sappi che è vuoto dentro» (Isacco di Ninive I,65).
Perché il vuoto? L’incapacità di custodire il silenzio e di controllare la lingua potrebbe essere segno di inquietudine che deriva dall’avere una cattiva coscienza (per cui la persona sta male con se stessa); può essere segno della volontà di dominio sugli altri - devo essere convincerli delle mie opinioni per rafforzare il mio ruolo - ; di un bisogno affettivo (avere sempre compagnia…). Neppure la logorrea sul piano catechetico o apostolico è una cosa sana. Nell’esporre dobbiamo partire dal rispetto e dall’apprezzamento della persona, delle convinzioni positive che ha elaborato e dei comportamenti nobili messi in pratica. Dobbiamo alimentare la persona non costringerla ad abbuffarsi. Per capire bene un cosa o per accoglierla, tutti abbiamo bisogno di tempo. «Fà profittare con il tuo silenzio piuttosto che con la tua parola di conoscenza colui che non può trarre profitto dalla conoscenza. Abbassati con lui secondo la sua debolezza» (Un’umile speranza… 61).
Il silenzio iniziale, ossia l’apprendere a contenersi, è soltanto una preparazione e un inizio del vero silenzio. All’inizio dobbiamo costringerci (che è diverso dal farsi violenza o dall’essere costretti):
«Sforziamoci di tacere e, allora, dal nostro silenzio, sarà generato in noi un qualcosa che ci condurrà al vero silenzio. Che Dio ti dia di sentire ciò che è generato dal silenzio… Non credere che il silenzio [attuato dal grande Arsenio] sia stato semplicemente un atto spontaneo: all’inizio ha dovuto sforzarsi a fare questo. Dopo un certo tempo, dalla pratica di tale esercizio, è generata nel cuore una qualche dolcezza; ed essa induce con violenza il corpo a perseverare nel silenzio» (113).

La predicazione o il rapporto comunicativo con l’altro deve essere preceduto dal silenzio, non per riflettere meglio su ciò che vogliamo comunicare o annunciare ma anche per vivere una vera compartecipazione. Non si deve mai parlare dall’alto in basso, convinti che la persona con cui tratto sia inferiore a me. È necessario, al contrario, una vera compartecipazione. Lo attesta Gregorio Magno parlando dell’atteggiamento che dovrebbe essere mantenuto dagli evangelizzatori:
[Dice il profeta Ezechiele: Mi fermai presso i deportati e rimasi in mezzo a loro sette giorni nella tristezza (Ez 3,15). Si osservi con quanta compassione il santo profeta si unisce al popolo prigioniero e dimorando con lui, si unisce alla loro desolazione poiché la parola è radicata nella forza dell'azione. E chi ascolta accoglie volentieri la parola che è detta con compassione da parte di chi predica ... Così il profeta si stabilì con il popolo prigioniero e rimase in mezzo a loro afflitto; così, ponendosi nella sua situazione accanto a esso a motivo della sua profonda carità, riuscì a conquistarlo subito con la forza della parola ... Ora, quando furono trascorsi sette giorni, mi fu rivolta la parola del Signore (Ez 3,16). Con il fatto che rimase sette giorni nella tristezza e, dopo il settimo, ricevette dal Signore l'ordine di parlare, il profeta in dica chiaramente che durante quei giorni era rimasto in silenzio. Era stato inviato a predicare, e tuttavia era rimasto afflitto, in silenzio per sette giorni. Che cosa ci suggerisce il santo profeta con questo silenzio se non che soltanto chi prima ha taciuto sa veramente parlare? Il silenzio è in certo senso il nutrimento della parola. E giustamente riceve la parola a opera di una grazia sovrabbondante chi per umiltà dapprima ha taciuto come conviene fare. Per bocca di Salomone si dice infatti: C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare (Qo 3,7). Non si dice: "C'è un tempo per parlare e un tempo per tacere", ma prima viene il tempo per tacere e poi il tempo per parlare, perché non dobbiamo imparare a tacere parlando, ma a parlare tacendo. Se dunque il santo profeta che era stato inviato a parlare, dapprima custodì un lungo silenzio per poter poi parlare in modo autentico, consideriamo quanto sia grande la colpa di chi non tace quando nessuna necessità lo costringe a parlare (Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele 11,2-3).
Il nostro parlare, quindi, deve nascere dalla compartecipazione


Silenzio mistico

Il rapporto maturo ed autentico con Dio implica che tutto ciò che sperimentiamo nella relazione con Lui non sia riducibile alla sola parola. Almeno la parola che ascoltiamo o che pronunciamo deve formare unità con noi:
«Quando ripeti le parole della preghiera, preoccupati non di ripeterle ma di diventare tu stesso quelle parole. Il nostro profitto non sta nella ripetizione, ma nel fatto che la parola si incorpori in te e divenga opera» (Giovanni di Apamea Discorso sulla preghiera 4-7).
Quando si è ciò che si dice, il dire sconfina nell’indicibile e questa plusvalenza del parlare può essere chiamata silenzio. «Colui che possiede in verità la parola di Gesù può udire anche il suo silenzio» (Ignazio di Antiochia Efesini 13).
Anche noi sperimentiamo che il sentire spesso supera il parlare. Questo fatto è avvertito anche nella relazione con Dio. Attesta Suso:
Signore, se penso alla tua alta lode, il mio cuore vorrebbe sciogliersi nel mio corpo, i pensieri mi sfuggono, mi mancano le parole. Brilla un non so che nel cuore che nessuno può esprimere a parole, appena voglio lodare te, bene senza limiti; poiché se io sprofondo nel profondo abisso del tuo proprio bene, Signore, svanisce ogni lode per la sua pochezza.
Per condividere questo sentire non occorre essere stati elevati a gradi superiori di vita mistica. È un’espressione del credente consapevole.
San Paolo dichiara di essere stato rapito vicino a Dio e di aver udito discorsi ineffabili. I mistici conoscono esperienze elevate che non possono tradotte nel linguaggio comune. Ciò che afferra l’uomo nella sua totalità è più grande del suo parlare. Qui l’essere vale di più del dire. Teresa d’Avila conosce una relazione intima con Dio che è fatta di silenzio e di pace:
Il modo con cui Dio arricchisce ed istruisce l’anima in questa orazione è così calmo e silenzioso da fare pensare alla costruzione del tempio di Salomone, durante la quale non si sentiva il minimo rumore. Così in questo tempio di Dio, in questa mansione che è sua: Dio e l’anima si godono in altissimo silenzio. L’intelletto non ha movimenti né ricerche da fare. Chi l’ha creato vuole che si riposi e contempli ciò che avviene come per una piccola fessura (Castello interiore VII, 11).
Tale esperienza è un rivivere il riposo del sabato al termine della creazione e un anticipo della beatitudine della vita eterna. Comprendiamo meglio ciò che diceva Ignazio: «Colui che possiede in verità la parola di Gesù può udire anche il suo silenzio». 

mercoledì 18 aprile 2012

Enrico Suso. Insegnamenti spirituali

Il libro dell'eterna Sapienza


Nella prima parte dell’opera, ossia Il Libretto della Sapienza, Suso traccia una biografia interiore essenziale parlando in forma anonima. Un uomo «indisciplinato» si era perso in una vita di peccato, «nei sentieri della dissomiglianza». Cristo, l'Eterna Sapienza, facendogli provare dolcezza e amarezza, lo attirò, finché lo riportò sul retto sentiero della Verità divina.
Riflettendo sull'esperienza vissuta, egli parlò a Dio così: «Fin dall'infanzia ho cercato non so che cosa, con grande desiderio. Tuttavia che cosa significhi questa realtà che cerco non l'ho ancora capito. Non so che cosa sia, ma attira a sé il mio cuore e senza di essa non potrò mai trovare una pace vera. Che cos'è ciò che così gioca in me in modo così misterioso?» (1, 81-82). In altre parole, come aveva riconosciuto da sempre anche la filosofia, in ogni uomo è presente un desiderio di pienezza e di felicità. Come possibile ottenerla? Chi può procurarla?
Cristo, presentandosi nella forma della Sapienza Eterna, così gli rispose:
«Non lo riconosci? Eppure ti ha abbracciato amorevolmente, ti ha spesso sbarrato la via, finché non è riuscito a conquistarti interamente per sé. Ora spalanca i tuoi occhi interiori e guarda chi sono io. Sono io, l'Eterna Sapienza, io che ti ho scelto per me, stringendoti nell'abbraccio della mia eterna Provvidenza. Ti ho spesso sbarrato la strada ogni volta che ti saresti separato da me. Tu hai sempre trovato resistenza, in tutte le cose; questo è il segno più sicuro che testimonia ai miei eletti che io li ho scelti per me» (1, 82).
Suso, con evidenza, ripercorre suggerimenti agostiniani. L'uomo è catturato da un desiderio e da una brama di completezza a cui non sa rispondere. Egli cerca di colmare il suo bisogno amando le cose di questo mondo ma nessuna di esse lo può appagare. La vera risposta a queste sete, che è sete d'infinito, è la Sapienza eterna, il Cristo. Egli guida il cammino di ogni uomo, accompagnandolo nel suo sbandamento; lo lascia provare le delusioni inevitabili che derivano dalle sue scelte sbagliate finché l'uomo non ritrovi il sentiero che lo porta ad accogliere ciò che merita il vero amore e l'appaga.
Il peccatore allora chiese al Signore: «Perché non ti sei manifestato a me molto prima? Per quali faticose vie ho dovuto trascinarmi!». Ascoltiamo la replica del Signore: «Se l'avessi fatto, tu non avresti riconosciuto il mio bene così intensamente come ora» (1, p. 83). 


Cercare Dio nell’umanità di Gesù

L’uomo ritrova se stesso in pienezza aderendo a Cristo, Sapienza Eterna. Dopo questo avvio, che raccoglie in sintesi il cammino percorso, il Cristo offre al penitente il primo importante ammaestramento: chi cerca la sua grandezza divina, deve cominciare a contemplarla nella sua manifestazione nella sua vicenda umana. Dio deve essere cercato nella persona e nella vita terrena di Gesù; anzi è possibile cogliere per intero la vastità della sua grandezza nel comportamento che Egli ha tenuto nel corso della sua passione:
«Se tu vuoi contemplarmi nella mia divinità, devi imparare qui a conoscermi e ad amarmi nella mia umanità sofferente, poiché questo è il cammino più rapido verso l'eterna beatitudine. Il mio insondabile amore si mostra nella grande amarezza della mia passione, come il sole si manifesta nel suo splendore, come la bella rosa nel suo profumo, e come il potente fuoco nel suo calore ardente» (1,84).
Lo stesso insegnamento è ribadito anche in seguito: «Nessuno può giungere alla maestà divina né alla straordinaria dolcezza [che si prova nell'unione con Dio], se non è prima attirato dall'immagine della mia umana amarezza» (2. 86).
La Sapienza si rivela in tutto il suo fascino nella sua bontà straordinaria della quale ha dato piena manifestazione nel corso della passione e della morte in croce. Tuttavia, pur dando attenzione alle amarezze sperimentate dal Signore Gesù, non bisogna ad esse ma al loro significato. Ossia il cristiano deve scoprire, in primo luogo, l'amore che il Signore nutre per lui:
«Mai una bocca assetata desiderò più ardentemente una fresca fonte, di quanto io desiderassi aiutare i peccatori... Si saranno raccolte tutte le goccioline di pioggia, prima di poter misurare il mio amore per te e per tutti gli uomini» (4.94).
Il periodo storico dava importanza alla contemplazione della passione nel suo crudo realismo. Nei dipinti e nelle sculture la rappresentazione del Calvario appariva sempre più drammatica. Anche Suso insiste su questo aspetto ma non vi s’adagia come fosse il senso ultimo della meditazione. Non è sulla tortura fisica che si posa lo sguardo del contemplativo ma piuttosto sulla manifestazione della carità del Cristo: «Sono coperto di segni d'amore» (4.94). Un equilibrio forse difficile da conservare.
Suso, quindi, ritiene che la grandezza di Dio si manifesta nella sua forza d'amore e che questa appaia in modo pieno soprattutto nella morte di Gesù. Non cerca la sofferenza per se stessa ma piuttosto la dolcezza della comunione con Dio. Per conseguirla, però, è necessario diventare persone capaci d'amore; e per essere tali, bisogna saper affrontare gli impegni e le sofferenze che richiede il conseguimento di questo traguardo.
Il penitente non deve fare altro che acquisire lo spirito cavalleresco tanto celebrato a quell'epoca. «Entra con me nell'arena degli incrollabili cavalieri!» (2.86). Questi sapevano affrontare sacrifici, lotte e gravi pene d'amore. Perciò anche chi cerca Dio si deve armare. «Armati ora soprattutto di fermezza... ».
Mentre, però, negli scontri cavallereschi aveva rilievo piuttosto la forza fisica, ora avviene uno spostamento sul versante dell'interiorità. Noi non dobbiamo imitare tanto le sofferenze fisiche di Gesù ma combattere dentro di noi tutte le manifestazioni del peccato e dell'egoismo.  Nel lasciare tutto ciò che potrebbe far fuorviare dalla salvezza, il lottatore abbandona la propria volontà e rinuncia a se stesso. Così diventa «come un moribondo che va e che non ha più niente a che fare con questo mondo» (2.86-87; cf. 5.100).
Di fronte a questa risposta l'entusiasmo del neo cavaliere si raffredda. Emerge la paura di morire a se stesso; il penitente deve lasciarsi assicurare dal Signore stesso: se uno vive l'amicizia con Dio, troverà facile percorrere questo cammino: «La sequela della mia passione non ti deve spaventare; infatti colui al quale Dio diventa intimo, tanto da fargli sentire lieve la sofferenza, non può lamentarsi. Nessuno gioisce in me di più per la dolcezza straordinaria di colui che vive con me la più dura amarezza» (2.88). In altre parole, entrando nella viva comunione con Dio, maturando attraverso il rinnegamento di sé, l’uomo ritrova interamente se stesso. 


Le disillusioni dell’attaccamento

Suso introduce ora un elemento basilare per la sua spiritualità, ossia l'imitazione di Gesù mediante il distacco. Il distacco e, poi, come si vedrà in seguito, l’abbandono a Dio, sono due prospettive spirituali che Suso riprende da Meister Eckhart, divenendo due elementi fra i fondamentali per tutta la spiritualità renana. Dio ci educa nella vita affinché impariamo a vivere distaccati, ossia liberi da ogni attaccamento egoistico. L’abbandono consente il distacco.
All’epoca, veniva data grande importanza al sentimento del compatimento con Cristo. Il fedele veniva indotto a piangere sulle vicende della passione e a trovare forme di patimento. Suso ridimensiona questa tendenza di devozione fa dire a Cristo: «È per essere imitato che ho patito». Non è importante commiserare il Signore ma piuttosto realizzare la sua vita esemplare. «Ogni piagnucoloso lamento» è bandito. Gesù desidera trovare persone che condividono la sua esperienza e le sue convinzioni: «Un cuore simile mi è più caro che se tu piangessi sempre per me» (3.91).
La vera risposta al grande amore del Signore per noi sta nel formare in noi l'atteggiamento del distacco. Che cosa significa? Potremmo definirlo autodominio, libertà dalle passioni. Nella pratica l'uomo libero (o distaccato) è chi riesce a stare al di sopra di tutto ciò che provoca piacere o dolore. Essere dominati da qualcosa o temere qualcosa ci può allontanare dal compiere il volere di Dio.
Tuttavia, anziché cercare di defire tale atteggiamento, è preferibile circoscriverlo mediante  esemplificazioni.  Ne parla già al capitolo terzo: «Tu devi cercare in me ogni tuo riposo, amare la scomodità del corpo, sopportare volentieri il male che viene dagli altri, desiderare che ti disprezzino, rinunciare ai tuoi desideri e morire a tutti i piaceri» (3. 91-92). L'attaccamento consiste, al contrario, nel lasciarci dominare dal piacere, oppure nel nutrire risentimento verso il prossimo.
Il rischio più grave della persona religiosa consiste nel tentativo di comporre insieme la devozione con il mantenimento di un vivere mondano, conservare «un cuore mondano dall'apparenza spirituale».
In realtà è impossibile amare il Signore e dedicarci nello stesso tempo ad interessi o ad amori fugaci. Cogliamo un'eco della proibizione del Vangelo: non è lecito servire a due padroni. Se già l'amore terreno esclude concorrenti, tanto più l'amore per Dio.
«Come potrebbe convivere l'amore eterno con quello temporale quando quello temporale non può sopportarne un altro? Si inganna chi immagina di poter ospitare il Re di tutti i re in una locanda comune e di relegarlo nell'alloggio appartato per i servi. Colui che intende ricevere degnamente l'alto ospite deve tenersi del tutto separato dalle altre creature» (6.105).
Gli amori fugaci non sono le persone o le cose che amiamo rettamente ma quelli intrisi d'egoismo. Questo tipo d'amore non merita il nome d'amore ma è preferibile chiamarlo attaccamento. Anche oggi si parla di attaccamento al denaro, al potere, alla carriera, ai piaceri devastanti. Riferendosi ai religiosi, Suso insiste anche sulla necessità di staccare il cuore dai rapporti poco corretti con i secolari. Tali amicizie sono inconcludenti e fonte di dissipazione: «Prima che gli uomini vengano condotti nell'interiorità da uno di loro, da mille ne saranno tratti fuori; prima di essere educati una volta con la dottrina, saranno tante volte confusi dai cattivi esempi» (6.108).
La condizione degli uomini che dipendono dai loro attaccamenti, divenuti in seguito dei bisogni, è miserevole:
«Essi si trovano in una profonda cecità, sono impegnati in grandi lotte per gioie che non diventeranno mai piacere né felicità completa. Prima che loro capiti una gioia saranno colpiti da dieci sofferenze, e quanto più inseguiranno i loro desideri, tanto più rimarranno insoddisfatti. I cuori empi non possono che vivere ogni momento nella paura e nel timore. La stessa piccola gioia che tocca loro, diventa del tutto amara, poiché l'ottengono con la fatica, e la conservano con grande angoscia e la perdono con grande amarezza» (6.106).
Volgendo lo sguardo al passato viene a predominare il sentimento di rimpianto e di rimorso: «Che mi è rimasto dei miei amori se non il tempo perduto, le parole volate via, la mano vuota, poche opere buone e una coscienza gravata di colpe?» (7. 117).
Infine, al termine di questa disanima, giunge la sentenza basilare frutto d'esperienza: «Il cuore non ha mai potuto trovare nella creatura né vero amore, né gioia totale, né duratura pace del cuore» (6.106).
L'uomo che avrebbe potuto essere un re, diventa invece uno schiavo, tutto intento ad accrescere il proprio danno, sprecando tempo prezioso, che è un dono irrecuperabile. Immerso in questa dolorosa servitù, cerca di sfuggire alla consapevolezza della propria miseria, «abbellendo il fondo con un'apparenza luminosa». Cade in una clamorosa contraddizione: per sfuggire al giogo del Signore, si assoggettano ad un peso opprimente (6.107).
Per uscire da questa condizione miserevole, dovrebbero chiedere aiuto al Signore. Egli, la Sapienza, attesta: «In ogni  momento sono pronta ad aiutarli... io non mi allontano da loro, sono loro che si allontanano da me» (6.107). La Sapienza non ci lascia privi dell'amore (che rimane l'energia più profonda dell'uomo) ma sostituisce un attaccamento (ossia un amore egoistico di se stessi) con l'amore per ciò che è un vero bene, ossia con un amore che procura libertà. La scelta vincente sta, allora, nell'abbandono degli amori fugaci per amare Dio in modo esclusivo e totale. Questo è l'unico modo per uscire da tale vicolo cieco. 


L’amore per Dio

Suso che la libertà, con la conseguente nuova possibilità di vita, scaturisca da un amore intenso per il Signore. Tutta la vita dell'uomo dipende da ciò che egli ama, dalla nobiltà e dall'intensità dell'amore a cui si lascia legare. Scegliendo il Signore, o meglio, lasciandosi prendere dal suo fascino, il credente aderisce ad un bene che lo appaga senza impoverirlo. L'aspetto affettivo diventa predominante ma qui non si tratta soltanto di puro sentimento perché il bene scelto è anche del tutto ragionevole. Amare il Signore come sommo bene è un atto di ragione e un atto di sentimento. L'uomo deve rispettare la sua più autentica identità:
«Nella tua natura tu sei uno specchio della divinità, sei un'immagine della Trinità, sei un riflesso dell'eternità. E come io nella mia eterna immutabilità sono il Bene che è infinito, così tu sei infinito nei tuoi desideri; e come una gocciolina d'acqua aggiunge poco alla vasta profondità del mare, altrettanto poco può fare tutto ciò che il mondo ti può offrire per esaudire i tuoi desideri» (10.128).
Il Signore possiede la capacità di attirare a sé il cuore dell'uomo, in modo tale da spegnere qualsiasi altro attaccamento:
«Tu sai offrirti così amorevolmente e con tale tenerezza che tutti i cuori dovrebbero aspirare a te e provare uno straziante desiderio del tuo amore. Dalla tua dolce bocca sgorgano parole d'amore così vive che hanno ferito molto profondamente parecchi cuori nel fiore dei loro giorni, tanto che in loro si è spento ogni amore passeggero» (7.110).
Anzi soltanto il Signore è l'unico che può amare tutti e, nello stesso tempo, donarsi ad ognuno, come se esistesse quell'unico individuo:
«Io sono un amante che non si rinchiude nell'unicità, né si disperde nella molteplicità. In ogni momento io sono preoccupato e sollecito solo per te, mi facci amare da te solo e compio tutto ciò che riguarda te, come se non mi dovessi occupare di tutte le altre cose» (7.114).
Il credente che, conquistato da tanto amore, sceglie di donarsi interamente a Dio, riceve la libertà, la purificazione della coscienza e il dono di una gioia tale da essere avvertita come caparra del dono celeste:
«Il mio amore può alleviare del grave peso dei peccati i cuori di coloro che sono all'inizio del cammino e dare loro un cuore libero, benevolo, puro e creare in loro una coscienza pura e irreprensibile. Dimmi che cosa esiste al mondo che possa stare al pari di tutto ciò? Tutto questo mondo non potrebbe controbilanciare un cuore simile, perché l'uomo che dona il suo cuore a me solo vive nella gioia, muore nella certezza, e possiede il regno dei cieli quaggiù e lassù, per l'eternità» (7,113).
Nell'abbracciare la prospettiva della fede, l'uomo che si apre all'amore di Dio sa che potrà comprendere Dio e accogliere il suo dono nella misura in cui si aprirà realmente a Lui: «Io, il Bene soprannaturale, immutabile, mi dono a ciascuna creatura a seconda del modo in cui è capace di accogliermi» (7.111). Man mano, si cresce nell'amore di Dio, il distacco da tutti i beni sensibili diverrà sempre più marcato e meno sofferto:
«Io sono un Bene assolutamente puro; e a colui che, in questa vita, riceve una sola goccia di me, sembreranno amare tutte le gioie e tutti i piaceri del mondo, ogni bene, ogni onore gli sembreranno immondizia, nullità» (7.113).
Soltanto l’amore per Dio dona la libertà. 


La pedagogia divina

Dio educa l’uomo all’amore. Il passaggio dall’egoismo alla carità non è né ovvio, né immediato. Volendo formare l’uomo che lo cerca, il Signore si serve di tre metodi piuttosto sorprendenti che non appaiono per nulla allettanti.
In primo luogo unisce all’amore il timore, ossia non si fa soltanto amare ma anche temere. «Il tuo volto adirato è così terribile, la tua sprezzante collera così insopportabile, povero me, le tue parole ostili sono così infuocate che trapassano il cuore e l’anima» (8.118). Viene spontanea una domanda: Dio può essere adirato o peggio ancora vendicativo? Tutto questo è senz’altro da escludere. Dio rimane sempre se stesso; Egli è amore ed opera sempre in vista del bene. Il peccatore, però, lo avverte come adirato: «Io sono il Bene immutabile, sono uguale e rimango uguale. Ma se io sembro disuguale, questo dipende dalla disuguaglianza di coloro che mi vedono ineguale a seconda che siano con il peccato o senza peccato» (8.119). Dio non cambia ma è l’uomo a cambiare, è lui che lo avverte differente, ora misericordioso, ora severo. Tuttavia tale severità non è soltanto apparenza. Il peccato rappresenta un vero impedimento alla comunione con Dio. Egli perdona per amore ma anche si rivela rigoroso per amore. «Io sono amabile per natura, ma sono un tremendo giudice del misfatto» (8. 119). Per comprendere bene, dobbiamo tornare alle proposizioni con le quali si apriva il libro: Dio educa infondendo dolcezza ma anche amarezza; si adira non divenendo ostile verso di noi ma permettendo che noi proviamo amarezza negli attaccamenti: «Ti ho spesso sbarrata la via» (1.82).
In secondo luogo, Dio si sottrae ai suoi amici, non facendo più percepire la sua presenza di consolazione. Chi cerca Dio deve aspirare a Lui stesso e non alla sua consolazione spirituale. Del resto Egli vuole che noi siamo liberi, staccati anche dal piacere spirituale. Il vero amico di Dio si comporta come l’angelo più nobile al quale nulla piace di più che fare la mia volontà in tutte le cose e «se sapesse che contribuirebbe alla mia lode raccogliere ortiche, questo sarebbe per lui la cosa più desiderabile da compiere» (9.122).
In terzo luogo, Dio permette che il suo amico conosca molte sofferenze (10, 127). Il motivo di questo fatto, sempre di carattere pedagogico, viene espresso meglio nel capitolo 13:
«Per natura essa [l’anima] è incline a una dannosa voluttà; perciò io semino il suo cammino di spine, le chiudo ogni sbocco con avversità, che ciò le dia gioia o sofferenza, perché non mi sfugga; io dissemino di dolore tutte le sue vie, perché non possa posare il piede del suo desiderio se non nella maestà della mia natura divina» (13.143).
Suso, raccomanda, allora, l’altro atteggiamento tipico della spiritualità renano-fiamminga, quello dell’abbandono. Il credente deve sempre cercare la libertà interiore, abbandonasi a Dio in modo totale. Il credente deve imparare a fidarsi di Dio in modo completo e in quest’atteggiamento di sottomissione fiduciosa ritrovare pace anche nella sventura.
Ogni malato crede che il suo male sia peggiore di tutti e ogni bisognoso crede di essere il più povero di tutti: se t'avessi dato altre sofferenze, sarebbe stata la stessa cosa. Abbandonati liberamente alla mia volontà in ogni sofferenza che voglio da te, senza escludere questa o quella. Non sai dunque che io voglio il meglio per te, con la stessa amicizia che tu hai per te stesso? Ma io sono l'Eterna Sapienza e conosco meglio ciò che è il meglio per te; hai provato dunque che le mie sofferenze visitano più intimamente e penetrano più profondamente e fanno progredire colui che le accoglie bene più rapidamente di ogni altra sofferenza liberamente scelta. Dimmi allora: Padre mio, fa di me ciò che vuoi (13. 144-145).
È tipica di Suso interpretare la vita cristiana come imitazione della passione del Signore. Il battezzato ottiene questo obiettivo soprattutto quando si lascia umiliare senza perdere la calma interiore. L’uomo spirituale, nella sua prospettiva, è colui che acquisisce la libertà interiore del Cristo accettando emarginazione e solitudine (l’intero capitolo 15 è dedicato a questo tema). Forse nessun altro ha insistito come lui su questi aspetti di per sé poco attraenti. Suso, tuttavia, non parla soltanto dell’accettazione delle umiliazioni o del dolore ma esorta ad imitare l’amore incomparabile di Gesù nei confronti dei suoi persecutori. Essere crocifissi con Gesù significa imitare la sua grande misericordia soprattutto nello spirito del perdono:

Se ti sforzerai di fare ciò che secondo te è il meglio, [ma] riceverai dagli uomini parole di scherno e gesti di disprezzo, se tu non soltanto rimarrai fermo e immobile, ma anche pregherai amorevolmente per essi il Padre celeste e li scuserai presso di Lui… Vedi, quante volte così morirai a te stesso per amore mio, altrettante volte rinverdirà e fiorirà in te la mia morte. Se le tue buone opere buone saranno così misconosciute tanto che da essere considerato tra i colpevoli, e se tu sarai incline a perdonare prontamente, dal fondo del cuore, coloro che ti tormentano … e se, inoltre, tu sarai pronto ad aiutare e a soccorrere con parole e con opere, per imitare il mio perdono verso quelli che mi crocifissero: allora sarai veramente crocifisso vicino al tuo Amato (15.159).

sabato 14 aprile 2012

Isacco di Ninive . Appunti

Creazione e redenzione

Dio è amore senza misura e senza limiti. L’amore divino trascende ogni umana comprensione e descrizione attraverso la parola.
La creazione e la venuta di Cristo in terra non avevano entrambe che un solo fine: rivelare al mondo l’amore divino, senza limiti. Tale amore è il fondamento dell’universo, governa il mondo e lo condurrà a quell’esito glorioso nel quale verrà interamente consumato da Dio.
Dio non è soltanto il creatore dell’universo e la sua forza motrice. Egli è prima di tutto un vero padre per gli esseri dotati di ragione, da lui generati attraverso la grazia affinché diventino eredi della sua gloria nel tempo a venire, ed egli possa mostrare loro la sua opulenza, che sarà la loro delizia senza fine. Nel suo immenso e smisurato amore supera ogni cosa in tenerezza paterna. Il suo atteggiamento verso il mondo creato è dunque caratterizzato da un'incessante sollecitudine provvidenziale per tutti i suoi abitanti, per gli angeli e i demoni, per gli uomini e gli animali. Nessuna creatura è esclusa dallo sguardo della sua amante provvidenza, ma l'amore del Creatore si riversa egualmente su tutte le cose.
Niente di ciò che avviene nella creazione potrebbe alterare la natura del Creatore che è alta, nobile, gloriosa, perfetta, compiuta nella sua conoscenza e intera nel suo amore. Per questa ragione Dio ama allo stesso modo i giusti e i peccatori, e non fa nessuna distinzione fra loro. Dio conosceva la vita peccaminosa che l'uomo avrebbe condotto già prima di crearlo, eppure lo creò. Dio conosceva tutti prima che diventassero giusti o peccatori, ma il suo amore non mutò a causa del cambia­mento che essi avrebbero subito. Anche le azioni riprovevoli sono da lui misericordiosamente accolte, e i loro autori perdonati senza biasimo da un Dio che conosce tutto e al quale ogni cosa è rivelata prima che accada, e che conosceva i limiti della nostra natura prima di crearci. Giacché Dio, che è buono e pieno di compassione, non ha l'abitudine di giudicare le debolezze della natura umana o delle azioni che si compiono necessariamente, benché riprovevoli.
Anche quando castiga, Dio lo fa per amore o mirando alla salvezza del punito piuttosto che per sanzionare. Dio rispetta la libera volontà dell'uomo e non desidera contrastarla:
Dio castiga con amore, non per vendicarsi - tutt'altro! - ma per cercare di portare a compimento la sua immagine. Non prova collera - a meno che la correzione risulti impossibile -perché non cerca vendetta. Tale è l'intento dell'amore: il castigo per amore mira alla correzione, non alla sanzione ... Chi considera Dio come un vendicativo che da in tal modo prova della sua giustizia, a guardar bene lo accusa di scarsa bontà. Non piaccia a Dio che in quella fonte d'amore e in quell'oceano debordante di bontà possa mai essere riconosciuta la vendetta!
Così presso Isacco l'immagine del Dio-giudice è completamente eclissata da quella del Dio-amore e del Dio-misericordia. Dio non vuole giudicare nessuno. Al contrario, desidera essere il padre di tutti. 



Incarnazione

Nelle Centurie di conoscenza i passi più sorprendenti sull'incarnazione sono quelli in cui il grande monaco parla dell'amore di Dio per la sua creazione, principale e unica ragione della discesa del Figlio sulla terra e della sua morte sulla croce: qui si manifesta nel modo più chiaro il suo amore per l'umanità; da questo momento in poi gli uomini sono chiamati a rispondere all'amore di Dio con il loro amore:
II Signore Dio ha consegnato suo figlio alla morte sulla croce a causa del suo amore ardente per la creazione ... Avrebbe potuto benissimo riscattarci in altro modo, ma ha voluto così mostrarci il suo traboccante amore come insegnamento per noi, e attraverso la morte dell'unico figlio ci ha riavvicinato a sé. Sì, se avesse avuto qualcosa di più prezioso ce l'avrebbe donato, affinché la nostra stirpe diventasse- sua proprietà. Per via del suo grande amore non desiderava assolutamente fare violenza alla nostra libertà, pur potendolo; ma ha preferito che ci riavvicinassimo a lui attraverso l'amore di ciò che avremmo potuto comprendere. A causa del sue' amore per noi e per obbedienza al Padre, Cristo ha accettato con gioia gli oltraggi e lo sconforto ... Allo stesso modo i santi, quando raggiungono la pienezza, la acquistano tutti nel medesimo grado e, riversando copiosamente il loro amore e la loro compassione su tutti gli uomini, assomigliano a Dio.
E così che l'incarnazione ha avuto luogo a causa dell'amore del Padre e del Figlio per gli uomini; parimenti, è a causa di questa incarnazione che un uomo può ora pervenire si un grado di amore che lo rende somigliante a Dio.
Per Isacco l'incarnazione costituisce la nuova rivelazione su Dio. Al tempo dell'Antico Testamento, prima dell'incarnazione, gli uomini erano incapaci di contemplare Dio e di intenderne la voce. Dopo l'incarnazione è diventato possibile:
La creazione non lo poteva guardare prima che ne prendesse una parte presso di sé per conversare con lei, dal momento che neppure essa poteva intendere la sua voce quando le parlava faccia a faccia. I figli d'Israele non erano nemmeno in grado di sentire la sua voce quando si rivolgeva loro dalla nube (cf. Dt 5,23 ss.) ... Ma ora che con la sua venuta ha riversato la sua grazia sul mondo, egli è disceso non già in mezzo a un terremoto o a un turbine di fuoco, ne con fragore spaventoso e potente (cf. 1 Re 19, r 1-12), ma dolcemente, come pioggia sulla lana, come gocce di pioggia che cadono sulla terra (cf. Sai 72,6), ed è stato visto conversare con noi sotto altra forma.
Quando il Verbo si è fatto carne le porte della contemplazione e della visione si sono aperte in Gesù non solo per gli uomini ma anche per gli angeli, giacché prima dell'incarnazione non era loro possibile penetrare questi misteri.
Secondo Isacco, l'incarnazione del Salvatore e la sua morte sulla croce avrebbero avuto luogo
non già per riscattarci dal peccato, ma unicamente perché il mondo si rendesse conto dell'amore che Dio porta alla sua creazione… Egli non ha voluto una morte normale, affinché tu potessi renderti conto della natura di questo mistero. Ha trovato invece la morte tra i crudeli tormenti della croce. Che bisogno c'era degli oltraggi e degli sputi di cui fu coperto? La sola morte sarebbe bastata alla nostra redenzione - soprattutto la sua morte - senza tutto ciò che vi si aggiunse. Com'è grande la sapienza di Dio! E come è piena di vita! Ora puoi comprendere tu stesso perché la venuta di nostro Signore sia stata accompagnata da tutti questi altri avvenimenti, e renderti conto del motivo per cui egli stesso espose personalmente e chiaramente il suo progetto: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16), riferendosi all'incarnazione e al rinnovamento che ne consegue.
L'unico motivo dell'incarnazione del Verbo era dunque l'amore di Dio, e non la necessità di riscattare l'umanità dal peccato. Isacco non mette minimamente in dubbio la redenzione, ma la intende in un modo particolare. Ai suoi occhi essa significa prima di tutto la restaurazione di quel primato dell'amore che esisteva alle origini fra Dio e il mondo creato. Tale primato fu abolito dalla caduta, poiché l'uomo non si comportava più come figlio di Dio ma come servo disobbediente. Nondimeno, Dio è rimasto suo padre, e il suo amore di padre richiama gli uomini a quello stato originario. L'amore di Dio, dunque, e non la necessità di riscattare l'uomo dal peccato, fu l'unico motivo dell'incarnazione del Verbo: poiché ha voluto che gli uomini tornassero a rivolgersi a lui come a un padre, Dio stesso si è fatto uomo.
Isacco non respingeva l'idea di una deificazione dell'uomo, tutt'altro: vedeva anzi in essa il fine ultimo della vita umana. Ma il suo modo di spiegare come Cristo l'abbia resa possibile è caratteristico. Per lui l'uomo Gesù, ascendendo a Dio dopo la resurrezione, ha elevato la natura umana al livello della divinità. Inoltre la passione, la morte, la resurrezione e l'ascensione di Cristo hanno aperto alla natura umana la possibilità di salire fino a Dio:
In mezzo a uno splendore ineffabile, il Padre lo innalzò al cielo al proprio fianco, a un posto al quale nessun essere umano si era ancora spinto ma dove, attraverso la sua attività, Dio aveva invitato tutti gli esseri razionali, angeli e uomini, a quell'ingresso beato, per gioire nella luce divina della quale era rivestito l'uomo che è ripieno di tutto ciò che è santo e che si trova ora con Dio in una gloria e un onore ineffabili.
Si tratta dunque di un approccio soteriologico, in cui l'essenza del messaggio cristiano è salvaguardata: l'uomo è salvato da Cristo attraverso l'unione della natura umana con la divina. La via per la quale l'uomo Gesù è salito dalla terra al cielo e dall'umano al divino è aperta a tutti.



L'umiltà, mezzo per assomigliare a Dio

Per Isacco il Siro parlare di umiltà è parlare di Dio, perché ai suoi occhi Dio è prima di tutto "mite e umile di cuore" (Mt 11,29). Tale umiltà si è manifestata al mondo all'atto dell'incarnazione del Verbo. Nell'Antico Testamento Dio era rimasto invisibile e inaccessibile a chiunque. Ma dopo essersi rivestito di umiltà celando la sua gloria sotto una carne umana, Dio diventò visibile e avvicinabile. Ogni cristiano è invitato a imitare Cristo nella sua umiltà. Praticandola, diventa simile al Signore che se ne era rivestito.
L'umiltà unita a fatiche correttamente praticate fa dell'uomo un Dio in terra.
Inizialmente non è attraverso ogni sorta di fatiche ascetiche che l'uomo riesce a farsi adottare da Dio e a diventare simile a lui; per Isacco, la prima condizione è essere umili. L'ascesi senza l'umiltà non porta da nessuna parte, mentre l'umiltà senza ascesi è sufficiente per essere adottati da Dio:
L'umiltà, anche senza ascesi, fa perdonare molte offese, mentre le opere, senza umiltà, non danno alcun profitto; anzi, procurano grandi mali. Per questo, come ho appena detto, con l'umiltà devi guadagnarti il perdono delle tue azioni malvagie. Ciò che il sale è per il cibo, l'umiltà lo è per la virtù, potente com'è nel cancellare molti peccati ... Se la possediamo, essa farà di noi dei figli di Dio e, anche in assenza di opere buone, ci indirizzerà a lui. Senza l'umiltà, infatti, tutte le nostre opere sono inutili, così come ogni virtù e ogni pur onesta fatica.
Ne consegue che nessuno deve aspettarsi frutti dal suo travaglio spirituale prima di aver conquistato l'umiltà, quali che siano gli sforzi ascetici messi in atto per perseguire il suo scopo. Chi è rivestito di umiltà assomiglia a tal punto a Dio da suscitare attorno a sé l'amore che tutti portano a Dio, perché ormai è considerato un dio in terra. Così l'umiltà aiuta a ripristinare fra le persone relazioni fondate sull'amore:
Nessuno mai odia chi è umile, né lo ferisce con parole, ne lo disprezza, perché il suo Signore lo ama ed egli è amato da tutti. Ama tutti e tutti lo amano. E caro a tutti, dovunque si presenti è visto come un angelo di luce ed è circondato di onori. Ridotti al silenzio, il saggio e il maestro avvezzi a discorrere cedono la parola all'umile. Tutti gli occhi sono rivolti alla sua bocca e a ogni parola che ne esce. E il mondo attende le sue parole quasi fossero le parole di Dio ... Tutti lo annunciano come un Dio, anche se non è esperto di parole, anche se il suo aspetto suscita ribrezzo ed è insignificante.
Quando l'uomo è reso simile a Dio grazie all'umiltà, è ricondotto alla condizione priva di peccato della sua origine e ritrova l'armonia che allora regnava tra l'uomo e l'universo e che è stata spezzata per effetto della caduta. Non solo le persone, ma anche gli animali e gli elementi obbediscono all'umile, come obbedivano ad Adamo nel paradiso. Persino i demoni gli sono sottomessi. Se l'umiltà è dono sovrannaturale concesso da Dio, ne consegue che quanti sono per natura gentili, calmi, pacati o dolci non possono essere tutti considerati veramente umili. Egli insegna che l'umiltà naturale non può mai sostituirsi a quella che, nel cristiano, è frutto di un pentimento profondo o del pensiero della grandezza di Dio e dell'umiltà di Cristo. L’umiltà naturale, invece, non ha niente a che vedere con quella spirituale.

Segni d’umiltà

L'umiltà è prima di tutto una qualità inferiore che consiste nella fiducia in Dio, nella diffidenza verso se stessi e nel sentimento di essere indegni e indifesi, unito a quello della presenza dello Spirito santo celato nelle profondità del proprio cuore.
Nel contempo l'umiltà si manifesta esteriormente sotto forma di apparenza dimessa, abbigliamento povero, ritegno nel parlare, rifiuto dei privilegi, abitudine a non reagire, a onorare gli altri, a sopportare insulti e tormenti. Gli aspetti inferiori ed esteriori dell'umiltà sono intimamente legati e non possono essere separati: l'umiltà esteriore sarebbe falsa se l'uomo non si umiliasse davanti a Dio nel proprio cuore, l'umiltà inferiore non sarebbe vera se non si manifestasse in alcun modo all'esterno.
Se vogliamo distinguerle meglio a partire dai segni interiori, il primo sembra essere quello di un sentimento profondo della presenza di Dio, dal quale ha origine l'umiltà. Nessuno può conquistare l'umiltà da solo, come risultato dei suoi sforzi e delle sue attività esteriori, ma si umilia veramente quando incontra Dio e ne percepisce la grandezza nel proprio nulla: dopo tale incontro si avvicina a Dio in un silenzio profondo del cuore, e non si reputa degno nemmeno di pronunciare le parole della preghiera al cospetto di colui che è al di là di ogni parola. Questa preghiera silenziosa e umile conduce alle profondità mistiche della contemplazione di Dio.
Un altro segno consiste nell’essere morti al mondo.
Un altro ancora è il risveglio della voce della coscienza che impara a non accusare mai Dio o il prossimo, a non incolpare le circostanze della vita, a non giustificare se stessi. La quiete interiore è uno dei segni caratteristici dell'umiltà. Essa si manifesta nell'assenza di ogni paura di fronte agli eventi, e nella fiducia nella provvidenza divina che protegge da ogni male. Chi è umile non teme le cose che accadono accidentalmente, perché teme solo Dio: il timore di Dio scaccia ogni altra paura dal suo cuore. E un timore che implica un atteggiamento di religioso terrore davanti a Dio e lo sforzo di non offenderlo con azioni o pensieri peccaminosi. Per Isacco l'umiltà trae origine proprio da questo timore di Dio, L'umiltà implica un cuore contrito, il timore e la gioia spirituale.
Una manifestazione esteriore dell’umiltà è la sopportazione senza un lamento di ogni sorta di umiliazioni.
Sopportare accuse e ingiurie senza protestare è la virtù più alta. La vera umiltà poi si manifesta nell’onorare il prossimo al di sopra dei suoi meriti, perché l’umile tratta tutti quelli che incontra con rispetto, onore e amore.



Il pentimento

Isacco considera il pentimento un rimedio inventato da Dio per il nostro continuo rinnovamento e per la nostra guarigione.
Il pentimento è un sentimento spirituale costante in ogni asceta, che si protrae giorno e notte nel suo cuore. Non è un sentimento limitato a un periodo della vita o a una specifica categoria di persone, ma universale.
Se tutti siamo peccatori e nessuno è grande davanti alle tentazioni del peccato, è chiaro che non c'è virtù più eccelsa del pentimento (nessuno infatti potrà mai portarne a termine l'opera. Esso si addice sempre ai peccatori ma anche ai giusti che aspirano alla salvezza. Non c'è limite alla pienezza, poiché anche la pienezza dei perfetti non è mai veramente compiuta. E per questo che il pentimento non è legato a opere o momenti dati e dura fino alla morte.
Il significato del termine pentimento ... è il seguente: una continua supplica piena di tristezza che, grazie alla preghiera di compunzione, riavvicina l'anima a Dio, per cercare il perdono delle offese passate e chiedere di esserne preservati per l'avvenire.
In questa definizione si possono distinguere tre elementi. In primo luogo il pentimento è una preghiera rivolta a Dio da parte di chi sta al suo cospetto e non si accontenta di riflettere nel proprio intimo sui suoi peccati passati. In secondo luogo, esso comporta la rinuncia ai peccati passati e il rammarico per averli com­messi. Da ultimo, il pentimento mira al futuro e ormai non ha altro desiderio che guardarsi dal peccato.
Isacco paragona il pentimento a una nave presa a nolo per attraversare il mare che ci separa dal paradiso spirituale. Timoniere è il timore di Dio, meta del viaggio il porto dell'amore divino. Chiunque sia "afflitto e pesantemente oppresso" dal pentimento può entrare in porto. "Carica tutti i miei impulsi sulla navicella del pentimento, affinché io possa solcare esultando il mare del mondo, per entrare infine nel porto della tua speranza": ecco la sua preghiera.
Il tema del pentimento come secondo battesimo fa parte della tradizione patristica, e anche lui lo sviluppa in tal senso. Egli non pensa che Dio volesse privare l'uomo, per avere questi abusato della sua libertà, della condizione di felicità a lui destinata. Ecco quindi che "Dio concepì nella sua misericordia un secondo dono, quello del pentimento, affinché la vita dell'anima potesse ogni giorno rinnovarsi e rimettersi sulla retta via. Il pentimento è appunto questo rinnovamento della grazia battesimale perduta a causa del peccato:
II pentimento è donato come grazia dopo la grazia, giacché esso costituisce una seconda rigenerazione operata da Dio. Ciò che abbiamo ricevuto come promessa solenne nel battesimo ora lo otteniamo come dono attraverso il pentimento.
Attraverso il pentimento l'uomo riceve di nuovo la conoscenza che gli era stata donata al battesimo come promessa.
Parlando del pentimento Isacco, seguendo la tradizione, paragona le lacrime del pentimento al sangue dei martiri. Il pentimento appare perciò come un frutto dell'azione della grazia divina sull'anima, alla quale Dio inizialmente concede di prendere coscienza dei suoi peccati. Questa presa di coscienza penetra nell'anima quando Dio ci vede soffrire ogni sorta di prove. Isacco considera più importante essere consapevoli dei propri peccati che compiere miracoli o avere visioni soprannaturali o mistiche, giacché proprio attraverso una tale consapevolezza si intraprende la via del pentimento, che è virtù più grande di tante altre:
Chi conosce i propri peccati è più grande di chi fa del bene al mondo intero con la sua sola presenza. Chi geme sulla propria anima, anche per un'ora soltanto, è più grande di chi risuscita un morto con la preghiera e abita in mezzo agli uomini. Chi è giudicato degno di vedere se stesso è più grande di chi è giudicato degno di vedere gli angeli, giacché quest'ultimo vede con gli occhi del corpo mentre il primo scruta dentro di sé con gli occhi dell'anima. Colui che segue Cristo pentendosi nella solitudine è più grande di chi loda Dio nel mezzo di un'assemblea.
Il pentimento unisce cuore e intelletto. Isacco riconosce nel "dolore del cuore" e nella "tristezza della mente" due attributi del pentimento. Il "cuore affranto e umiliato" del salmista (cf. Sal 51,19) si ottiene attraverso il processo del pentimento, quando la presa di coscienza del peccato coincide con la liberazione dal suo peso; in una sua preghiera Isacco dice:
Sei tu che concedi il pentimento e un cuore afflitto al peccatore che si pente; così tu rendi leggero il suo cuore togliendogli il peso del peccato che lo prostra, grazie al sollievo dato dall'afflizione e dal dono delle lacrime.
Il perdono dei peccati è risultato e frutto del pentimento al quale fa immediatamente seguito, per quell'amore smisurato di Dio per gli uomini che ha spinto il Figlio di Dio non solo a perdonare i peccatori ma anche a farsi uomo per salvarli dal peccato:
Poiché il suo volto inclina sempre verso il perdono ... egli effonde su di noi la sua grazia immensa e senza limiti come l'oceano. A qualsiasi uomo che dia segno anche solo di un minimo sentimento di dolore per quanto ha fatto e di un desiderio di compunzione. Dio accorda immediatamente, lì e subito, il perdono dei peccati.
Dunque il cristiano, purché si penta, non ha il diritto di dubitare del perdono di Dio per i suoi pur gravi peccati. Tale fiducia nel perdono deriva dalla concezione di Isacco della misericordia di Dio, più grande della sua giustizia, e anche dalla sua concezione della provvidenza divina e più particolarmente dell'incarnazione di Dio il Verbo, che già conteneva la promessa di una riconciliazione tra Dio e il genere umano:
Vedendo e ascoltando tali cose, chi potrebbe essere così turbato dal ricordo dei propri peccati da nutrire questo dubbio nell'animo: "Dio è davvero pronto a perdonarmi le cose che mi fanno soffrire e il cui ricordo mi tormenta? Cose di cui ho orrore ma verso le quali continuo a inclinare e la cui sofferenza, dopo averle commesse, è più dolorosa di una puntura di scorpione? Le aborro, nondimeno mi ci trovo continuamente invischiato, e se da una parte me ne pento con dolore, dall'altra vi faccio sempre tristemente ritorno". Ecco cosa pensano molti tra coloro che hanno timore di Dio e si applicano alla virtù, trafitti dal dolore della compunzione. Piangono i loro peccati, ma la prosperità del mondo li costringe a far fronte alle cadute da essa stessa provocate, e così vivono tutto il tempo tra peccato e pentimento. Cara umanità, non dubitiamo dunque della speranza della nostra salvezza, vedendo pieno di sollecitudine per essa colui che ha patito per causa nostra. La sua misericordia è ben più grande di quanto noi possiamo concepire, la sua grazia maggiore di quanto noi possiamo chiedere. La destra del Signore si stende infatti giorno e notte spiando l'occasione per sostenerci, confortarci e incoraggiarci insieme a quanti si rammaricano della loro poca rettitudine; soprattutto per vedere se c'è qualcuno che soffre anche un minimo di dolore e tristezza, per potergli accordare il perdono dei peccati.
Così, attraverso un atto di pentimento, avviene la riconciliazione tra Dio e il peccatore. Da quest'ultimo ci si aspetta che si penta dei peccati commessi, si risolva, con un atto di volontà, a guardarsene per il futuro, e perseveri nella preghiera davanti a Dio per chiedergli perdono. Tale perdono viene da Dio, che riconcilia l'uomo con la propria persona e lo rende partecipe del suo amore.



Una scuola di preghiera

II tema della preghiera è quello più spesso evocato e più approfonditamente sviluppato. Chi legge le sue opere non solo è in grado di farsi un'idea precisa del modo in cui pregavano Isacco e i fedeli della chiesa d'oriente di quel tempo, ma dispone per giunta di una descrizione dettagliata riguardo alla teoria e alla prassi della preghiera secondo la tradizione cristiano-orientale nel suo insieme. Per questi motivi gli scritti del Siro sono stati una scuola di preghiera per i suoi contemporanei e lo sono rimasti per molti cristiani nelle diverse regioni del mondo in cui si continua a leggerli e a metterne in pratica i consigli.

La preghiera

La conversazione della mente con Dio costituisce l'attività spirituale più elevata e più importante per ogni cristiano, e non può essere paragonata a nessun'altra attività: proprio come nulla può essere paragonato a Dio, così non c'è ne servizio ne opera che possano essere paragonati alla conversazione con Dio nella quiete. Per preghiera Isacco intende l'insieme degli atti che accompagnano la conversazione della mente con Dio:
Ogni applicazione dell'intelletto a Dio e ogni meditazione sulle cose spirituali che sia circondata di preghiera si chiama preghiera ed è compresa sotto questo nome, che si tratti di letture diverse, delle grida di una bocca che rende grazie a Dio, di pensieri dolorosi riguardo al Signore, di inclinazioni del corpo, di alleluia della salmodia e di tutto ciò che è alla base di un insegnamento sulla vera preghiera.
Secondo il pensiero ascetico tradizionale dei cristiani d'oriente la preghiera è la base della vita spirituale cristiana, fonte e origine di ogni bene.
Isacco definisce la preghiera come "la libertà della mente, la sospensione di tutto ciò che appartiene alla terra e un cuore il cui sguardo è interamente rivolto al desiderio ardente che accompagna la speranza delle cose a venire". Un altro passo presenta la preghiera come un'attività che rende lo spirito dell'uomo simile a Dio:
Nulla è tanto amato da Dio e onorato dagli angeli, nulla umilia tanto Satana e incute terrore ai demoni, fa tremare il peccato, fa scaturire la conoscenza, attira la misericordia, cancella i peccati, conquista l'umiltà, rende sapiente il cuore, procura consolazioni e unifica l'intelletto, nulla produce tutti questi effetti così pienamente come un solitario inginocchiato per terra e dedito alla preghiera continua. E quello il porto della conversione che tanti pensieri di pentimento mescolati alle lacrime ardentemente desiderano. Essa è il tesoro della forza, il lavacro del cuore, il sentiero della purezza, la via delle rivelazioni e la scala dell'intelletto. Essa rende la mente simile a Dio e attraverso i suoi slanci gli fa il dono di riceverlo, come se fosse già nelle realtà future.
Nell'ora della preghiera, quando la mente è raccolta e tutti i sensi sono stati ricondotti all'armonia, si produce un incontro tra Dio e l'orante. "Perché tutte le rivelazioni di Dio ai santi giungono nel momento della preghiera?", si chiede Isacco, e risponde: "Perché nessun tempo come quello della preghiera è fatto per la santità". Ecco perché tutti i doni spirituali e tutte le visioni mistiche furono accordate ai santi durante le loro preghiere. Fu allora che un angelo apparve a Zaccaria per annunciargli il concepimento di Giovanni il Battista (cf. Lc 1, 11 ss.); fu durante la preghiera dell'ora sesta che Pietro ricevette una visione da parte di Dio (cf. At 10,9 ss.), e l'angelo apparve a Cornelio mentre era raccolto in preghiera (cf. At 10,3 ss.).

Vediamo ora le principali condizioni poste da Isacco perché la preghiera sia vera.
La prima condizione è di pregare attentamente e senza distrazioni: le attività esteriori non dovrebbero mai distoglierci dalla preghiera.
Bisogna poi combattere i pensieri estranei alla preghiera, che provengono dal demonio e turbano la mente: «Non dipende da noi che pensieri estranei si introducano o meno nella nostra mente quando preghiamo; ma fermarsi o non fermarsi a meditare su di essi, questo sì che dipende da noi». Così dicendo Isacco si rifà all'insegnamento monastico corrente sulla vigilanza (in greco népsis), che implica un atteggiamento di attenzione tale da vigilare sull'intelletto e scacciarne ogni pensiero estraneo non appena si presenta; insegnamento già impartito con straordinaria chiarezza da Evagrio nei suoi testi sul discernimento delle passioni e dei pensieri, e sulla vigilanza.
In terzo luogo, è importante evitare durante la preghiera tutto ciò che e frutto di immaginazione: ogni immagine o rappresentazione che prendesse forma nella mente costituirebbe una barriera tra l'uomo e Dio e rischierebbe di distruggere l'opera della preghiera.
In quarto luogo, bisogna pregare con umiltà. La preghiera dell'umile passa direttamente dalla sua bocca all'orecchio di Dio:
A Dio non dire niente che sappia di erudizione, ma avvicinati a lui con il pensiero di un bambino, e diventerai degno di quella protezione di cui i padri circondano i loro figli più piccoli.
In quinto luogo, è importante pregare con sentimenti profondi e lacrime. L'afflizione del cuore unitamente alle sofferenze corporali così come le prostrazioni devono diventare parte integrante della preghiera.
In sesto luogo, è importante pregare con pazienza e ardore, due qualità che hanno a che fare con l'amore di Dio.
In settimo luogo, ogni parola della preghiera deve sgorgare dalle profondità del cuore. Anche se sono tratte dai salmi, le parole della preghiera devono essere pronunciate come se fossero di colui che prega:
Recitando i versetti dei salmi, non fare come chi ripete le parole di un altro, per non restare completamente estraneo alla compunzione e alla gioia racchiuse nei salmi. Al contrario, recita le parole della salmodia come se fossero veramente tue, in modo da formulare la tua supplica con comprensione e con una compunzione dotata di discernimento.
Isacco tiene in grande considerazione la salmodia e sottolinea l'importanza di meditare le parole dei salmi:
Le parole sorprendenti depositate nei cantici affidati alla santa chiesa, insieme alle molte altre parole elevate che lo Spirito ha sparso in questi canti armoniosi, possono secondo alcuni prendere il posto della preghiera perfetta. A meditarle, esse fanno nascere in noi preghiere pure e intuizioni elevate e ci avvicinano alla limpidezza della mente e allo stupore di fronte a Dio, e a tutto ciò che Dio userà per illuminarci con la sua sapienza al momento opportuno, quando sceglieremo versetti appropriati per offrirli al Signore con l'intento di farne una supplica, e li ripeteremo a lungo e con calma.
In ottavo luogo, non bisogna "preoccuparsi della quantità della preghiera, bensì mirare alla qualità". Può succedere che un solo versetto di un salmo basti ad alimentare un lungo momento di preghiera; ma in altri casi il monaco deve cambiare spesso salmo.
Non è poi escluso che il nostro autore alluda alla pratica, diffusa tra i monaci, della preghiera continua sulla base di una breve formula come la "preghiera di Gesù".
In nono luogo, al momento della preghiera bisogna essere certi della propria assoluta fiducia in Dio. Per questo non si devono chiedere a Dio i beni materiali che egli ci darebbe comunque, anche senza esserne pregato.
Infine, la preghiera non è priva di relazione con la vita concreta di ciascuno di noi. Essa deve corrispondere alla condotta di un monaco: una preghiera che non si accompagna a una bella condotta è come un'aquila che perde le penne. Se l'orante trascura gli altri elementi dell'ascesi, la sua preghiera ne risentirà.
Secondo Isacco, dunque, le caratteristiche della preghiera sono l'attenzione e la vigilanza, l'assenza di distrazioni, di pensieri estranei e immaginazioni, l'umiltà, il pentimento e le lacrime, la pazienza e il fervore, le parole che affiorano dal profondo del cuore, la cura della qualità e non della quantità, la fede, l'abbandono fiducioso a Dio e uno stile di vita che le sia consono. Una preghiera dotata di queste qualità arriverà presto e facilmente alle orecchie di Dio.
Ma perché sembra che a volte Dio tardi a rispondere alle nostre domande o che addirittura non le esaudisca? Isacco ipotizza due ragioni. La prima è la provvidenza di Dio, grazie alla quale egli dona a ciascuno secondo la sua misura e la sua capacità di ricevere. Dipende anche dai nostri peccati che ci allontanano da Dio.

La lectio

Un altro elemento importante della preghiera era costituito dalla recitazione di testi in spirito di preghiera, che noi chiamiamo lettura o lectio divina. Per Isacco, come per tutta la tradizione monastica antica, tale lettura consisteva non tanto in uno studio intellettuale del testo biblico, quanto piuttosto in un dialogo, un incontro, una rivelazione da esso ricevuta: il testo della Bibbia è un mezzo per fare esperienza diretta del dialogo con Dio, per incontrarlo misticamente e raccogliere intuizioni sulla sua realtà profonda.
Isacco parla della lettura della Scrittura come del mezzo più importante per la trasformazione spirituale che accompagna l'abbandono di una vita di peccato:
L'inizio di un cammino di vita consiste nell'occupare incessantemente l'intelletto con le parole di Dio e nel vivere in povertà ... Per bandire dalla nostra anima le tendenze alla dissolutezza che vi si sono incrostate e cacciarne i ricordi attivi che si ribellano nella carne e vi producono una fiamma inquieta, niente è più efficace che immergersi nell'amore ardente per esserne istruiti e scrutare da vicino le intuizioni profonde contenute nelle divine Scritture. Quando i pensieri di un uomo sono totalmente e deliziosamente immersi nei tesori di sapienza celati nella Scrittura, con l'aiuto delle facoltà da essa illuminate egli si getta dietro le spalle il mondo con tutto ciò che gli appartiene ... Spesso non sa neppure più come servirsi dei pensieri che visitano abitualmente la natura umana, e la sua anima è rapita a causa dei nuovi incontri che affiorano dall'oceano dei misteri della Scrittura.
Nella cella, la lettura riguarda non solo la Scrittura ma anche gli scritti dogmatici e ascetici dei padri della chiesa. Isacco raccomanda entrambi.
Leggere la Scrittura, i padri e le vite dei santi, così come pregare, significa frequentare Dio. Egli consiglia di alternare lettura e preghiera, in modo che i pensieri provenienti dalla Scrittura riempiano la mente durante la preghiera. Passando da una frequentazione all'altra, la mente si rammenta sempre di Dio:
Leggi spesso e avidamente gli scritti dei dottori della chiesa che trattano della provvidenza di Dio ... Leggi anche i due Testamenti che Dio ci ha consegnato perché potessimo conoscere l'universo intero ... Per passare da una frequentazione all'altra cerca dunque di leggere libri che ti spianino le vie sottili della disciplina ascetica, della contemplazione e della vita dei santi ... Per mezzo della lettura ogni volta l'anima è di nuovo illuminata, rinnovata e aiutata a pregare senza posa e senza inquietudine.
Isacco chiama la lettura "fonte della preghiera pura", ma sottolinea altresì che essa deve limitarsi alla Scrittura e alla letteratura ascetica. Se il monaco è assorbito dalla lettura di numerosi libri su argomenti d'ogni sorta, la sua mente ne sarà distratta e impedita dal raggiungere lo stato della preghiera pura. […]

Vediamo ora qualche consiglio di Isacco sul modo di leggere la Scrittura.
La prima condizione per ogni lettura fatta in cella sarà il silenzio, la quiete: "Persevera nella lettura mentre ti trovi nella quiete, affinché il tuo intelletto sia attratto a ogni istante verso la meraviglia e lo stupore".
La seconda condizione è il raccoglimento della mente e l'assenza di pensieri provenienti dall'esterno:
Liberati da ogni preoccupazione riguardante il corpo e i grattacapi degli affari, affinché, attraverso la dolce comprensione del senso delle Scritture che sorpassa ogni altra sensazione, tu possa gustarne nell'anima il dolcissimo sapore.
La terza condizione è di pregare prima di cominciare a leggere:
Non accostarti alle parole dei misteri contenuti nelle divine Scritture senza pregare e supplicare Dio di aiutarti, ma di': "Signore, concedimi di sentire la forza che esse contengono!". Considera la preghiera come la chiave di una vera comprensione della divina Scrittura.
La comprensione del senso interiore e nascosto della Scrittura è il fine principale della lettura.
Non scrutinare con pedanteria parole che, scritte sulla base dell'esperienza, hanno l'intento di sostenere il tuo genere di vita e aiutarti con le loro elevate intuizioni a elevare te stesso. Scopri l'intenzione soggiacente a ogni passo delle Scritture che incontri, per immergerti più profondamente in esso e sondare le intuizioni profonde negli scritti di uomini che ricevettero l'illuminazione. Coloro che nel loro genere di vita sono condotti dalla grazia divina a ricevere l'illuminazione si accorgono sempre di qualcosa di simile a un raggio spirituale che passa attraverso le righe e le rende capaci di distinguere le parole dette in modo ordinario da quelle importanti per l'illuminazione dell'anima. Chi legge in modo ordinario righe che contengono un significato importante rende ordinario anche il suo cuore e lo priva di quella potenza santa che può procurargli un sapore dolcissimo, attraverso intuizioni che immobilizzano l'anima nello stupore. Ogni cosa abitualmente segue ciò che è proprio della sua specie; così l'anima che ha ricevuto una partecipazione dello Spirito e sente una frase in cui si nasconde una potenza spirituale, la tiene ardentemente per sé.
Questo passo si può considerare il credo di Isacco circa il modo di comprendere la Scrittura. Egli distingue da una parte "le parole dette in modo ordinario", che non parlano né al cuore né alla mente, dall'altra "ciò che è detto spiritualmente" e si rivolge direttamente all'anima del lettore. Questa distinzione non significa che la Scrittura contenga contemporaneamente parole significative e parole insignificanti, ma piuttosto che non tutte le parole della Scrittura sono ugualmente importanti per tutti i lettori. Isacco pone qui l'accento sull'atteggiamento soggettivo del lettore: ci sono parole e frasi che lo lasciano freddo e indifferente, altre che lo infiammano al fuoco dell'amore divino. E importante non lasciar passare inosservati quei versetti della Scrittura che sono "pieni di senso", per non restare privati delle intuizioni spirituali che essi contengono.
Quando un monaco legge la Scrittura cercando di afferrarne il contenuto nascosto, la sua comprensione aumenta in proporzione alla lettura e lo conduce per gradi a uno stato di stupore spirituale, raggiunto il quale egli si trova completamente immerso in Dio.
La lettura è la fonte della preghiera. Grazie alla lettura e alla preghiera "siamo trasportati verso l'amore di Dio la cui dolcezza si espande incessantemente nei nostri cuori come il miele nel favo, e le nostre anime esultano al sapore che il servizio nascosto della preghiera e della lettura delle Scritture riversa nel nostro cuore". In seguito alla lettura e alla preghiera e all'amore di Dio che da esse promana, il cuore dei lettori si infiamma e rimane in conversazione costante con Dio, e il loro intelletto "fa schiudere un simbolo particolare della verità, risultato delle delizie continue che provengono da queste parole importanti con le quali essi si danno pena notte e giorno". La ricerca dei sensi spirituali nelle parole della Scrittura li conduce a uno stato di profonda gioia interiore:
Cosa c'è di più di grande che gioire continuamente in Dio lodandolo a ogni istante con un nuovo canto di lode scaturito dallo stupore dell'anima in letizia, contemporaneamente a molte altre cose che nascono dalla stessa fonte, come la preghiera che zampilla improvvisamente, perennemente e spontaneamente dalle profondità di un cuore in cerca della contemplazione?
Isacco denuncia poi quelli che leggono la Scrittura unicamente allo scopo di ricavarne materia di gloria umana, o per rendere la mente più acuta. La Scrittura dev'essere letta solo "a causa della verità" : allora soltanto la mente del lettore
abita continuamente in cielo, conversando a ogni istante con Dio, e i suoi pensieri navigano verso il mondo a venire cui anelano ... La sua mente medita sulla speranza futura e, nel corso della sua vita, non sceglie altro compito ne fatica ne servizio che sia più grande di questa sola occupazione.
Giunto a questo stadio l'uomo è come un angelo che non pensa più ad altro che a Dio e alle cose di Dio. Queste citazioni bastano a mostrare l'estrema importanza agli occhi di Isacco della lettura delle Scritture e dei padri, e a stabilire che la lectio faceva parte della sua concezione della preghiera. Bisogna ricordare che nell'antichità cristiana, e più in particolare nella pratica dei monaci, la lettura, anche solitaria, non si faceva solo con gli occhi bensì ad alta voce. La Scrittura veniva letta lentamente, con molte pause, e ogni frase o parola era oggetto di meditazione. La "lettura pregata" , cioè una lettura che investe il massimo possibile di attenzione su ogni singola parola, resta la forma ideale per chi vuoi penetrare il significato spirituale delle sante Scritture. L'esperienza e le raccomandazioni di Isacco mantengono qui tutto il loro valore.
Ad onta del suo grande amore per la lettura, specialmente della Bibbia, egli tuttavia ammette che possa esistere uno stato spirituale nel quale nessuna lettura è più necessaria. […]


Appunti da Ilarion Alfeev, La forza dell'amore. L'universo spirituale di Isacco il Siro, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose

mercoledì 11 aprile 2012

Tempo di Pasqua. Significato e Norme

Il tempo di Pasqua inizia la domenica di Risurrezione e si protrae per Cin­quanta giorni fino alla solennità di Pentecoste, e per questo motivo è detto anche Cinquantina pasquale. Si chiama «tempo della mistagogia»: il mistero pasquale, che nella sua concenrrazione teologale è stato celebrato nel Triduo santo, è scandito nei suoi diversi aspetti.
Nella tradizione i Cinquanta giorni che seguivano la celebrazione della Pasqua annuale venivano considerati come una grande domenica, un solo «grande giorno». Massimo di Torino (padre della Chiesa morto nella prima metà del V sec.) afferma circa i Cinquanta giorni che seguono la celebrazione della Pasqua:
«A guisa... della domenica, tutto il corso dei cinquanta giorni è celebrato e tutti questi giorni sono considerati come domeniche; la risurrezione, infatti, è di domenica. La domenica il Salvatore risorgendo ritornò tra gli uomini e dopo la risurrezione vi rimase per tutto il periodo di cinquanta giorni. Era dunque necessario che fosse uguale la festività di quei giorni dei quali era uguale anche la sacralità» (Serm., 44,1). Per Massimo e per la Chiesa antica quindi i cinquanta giorni del tempo di Pasqua erano vissuti come «una perenne e ininterrotta festi­vità» nella quale si celebrava nella gioia la risurrezione del Signore. Per questo era vietato ogni atteggiamento e ogni gesto che potesse oscurare il carattere festivo e gioioso di questi giorni: digiuno, genuflessioni... Tutto doveva esprimere la gioia della Chiesa per la vittoria del Signore sulla morte e per la nuova vita che la partecipazione alla Pasqua di Cristo fa germogliare nei credenti. 


Per comprendere il senso del tempo di Pasqua, è particolarmente significativa una preghiera che troviamo nella celebrazione della Veglia pasquale. Si tratta della orazione dopo la VII lettura. Il testo, che ha origini molto antiche, chiede che «tutto il mondo veda e riconosca che db che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo di Cristo, che è principio di tutte le cose». Al termine dell'itinerario spirituale della Quaresima, la Chiesa chiede occhi per riconoscere la nuova vita che la Pasqua del Signore in essa genera. Il tempo di Pasqua consiste proprio in questa «manifestazione» della vita del Risorto nella Chiesa e nell'umanità. Il Cristo risorto - se seguiamo attentamente il lezionario - è presente come Vivente, come Pastore, come Vite senza la quale i tralci non possono fare nulla, come Via che conduce al Padre... Nel medesimo tempo il lezionario, mentre ci annuncia la presenza viva del Risorto nella comunità dei credenti, delinea anche i tratti irrinunciabili del volto della Chiesa e le realtà che stanno alla base della sua vita e che le sono state donate appunto dalla pasqua del Signore.
Anche i prefazi ci presentano il legame tra la Pasqua di Cristo e la vita nuova della Chiesa: «E lui il vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo, è lui che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita» (Prefazio I). E ancora: «Per mezzo di lui rinascono a vita nuova i figli della luce, e si aprono ai credenti le porte del regno dei deli. In lui morto è redenta la nostra morte, in lui risorto tutta la vita risorge» (Prefazio II).
Il tempo di Pasqua termina con la solennità di Pentecoste nella quale si celebra il «compimento della Pasqua» (Prefazio) grazie allo Spirito, che è la pienezza del dono di Dio, il dono atteso per i tempi ultimi. Il testo del Prefazio afferma:
«Oggi hai portato a compimento il mistero pasquale e su coloro che hai reso figli di adozione in Cristo tuo Figlio hai effuso lo Spirito Santo... ». Nel dono dello Spirito, che è il frutto per eccellenza della Pasqua del Signore, si compiono le promesse antiche e la Chiesa può portare fino ai confini del mondo l'annuncio del Vangelo.



1. Le Domeniche della Cinquantina sono state considerate come «domeniche di Pasqua» - non "dopo" Pasqua, come prima della riforma conciliare - e anno la precedenza su ogni festa del Signore e su ogni solennità. Tutte quelle solennità che coincidono con queste domeniche si posticipano al lunedì, secondo la Variazione introdotta il 22.4.1990 da parte della «Congregazione del culto divino e della disciplina dei sacramenti».
2. Anche le celebrazioni in onore della B. V. Maria e dei Santi, che ricorrono durante la settimana, non possono essere rinviate alle domeniche "di" Pasqua.

martedì 10 aprile 2012

Maria, Simone e gli altri....

Risurrezione e dono dello Spirito sono l'apice della salvezza. L'angelo radiante di bellezza è una controfigura del Cristo Risorto (Mt 28,3). La bellezza suscita l'amore e questo sentimento ci porta all'agire. In realtà noi incontriamo il Cristo in modo reale quando sentiamo che il nostro cuore arde per Lui (Lc 24,32). L'amore ci redime. “La nostra identità ci viene conferita nell'amore che gli altri hanno per noi. La nostra identità è egualmente determinata dall'amore che abbiamo per gli altri” (Bruemmer). 
Ad esempio, per quanto riguarda Maria Maddalena, la sua identità le viene conferita dall'amore che Gesù ha per lei. Questo è significato dal fatto che il Maestro la chiami per nome. Accogliendo l'amore che Gesù ha per lei, ella diventa veramente se stessa. 
Un altro esempio ci viene dato da Pietro. Egli rinnega Gesù - nel racconto di Giovanni - ma non piange il suo peccato . Questo non significa che egli abbia rotto il rapporto con il Signore. In seguito corre al sepolcro e incontra Gesù con gli altri discepoli nel cenacolo (Gv 20,2-10; 19-23). Questi incontri non risolvono l'incrinatura particolare della relazione che Pietro ha provocato con il suo rinnegamento. È necessario un incontro personale e il riconoscimento del fatto. La piena comunione è ristabilita nell'episodio della richiesta triplice d'amore. In questo caso, in modo velato (l'apostolo non riceve alcuna umiliazione), Gesù riporta alla luce un passato sepolto, rimosso ma non risanato. 
Il lettore è invitato a fare altrettanto. Che cosa nascondiamo al Signore? Che cosa c'è ancora non del tutto chiaro nella nostra relazione con Lui? La confessione non è un modo ottimo per guarire le nostre memorie?
L'episodio fa parte del capitolo 21 del Vangelo di Giovanni. Quest'ultimo capitolo, anziché essere un'appendice quasi irrivalente, è un tratto in cui si compie una sintesi di alcuni grandi temi del Vangelo. Da una parte la vita terrena Gesù viene rievocata e compresa molto meglio, dall'altra il Risorto riprende quella stessa vita, accompagnando i discepoli lungo la storia. Il capitolo inizia con la proposta di Pietro di tornare a fare i pescatori (Gv 21,3). Pietro è pieno d'incertezza sul passato e sul suo futuro. Sembra quasi aver accantonato Gesù. L'annuncio del Regno potrà ancora riprendere?
Nel manifestarsi sul lago, al contrario, il Risorto ricomincia la vita con i discepoli ed offre loro la possibilità di ricominciare. Gesù si manifesta ai discepoli in Galilea, là dove si era manifestato la prima volta (nel segno del vino nuovo, a Cana). Egli si manifesta allo spuntare del giorno, quando ogni tenebra viene vinta. Viene dissipata anche la tenebra dell'incredulità. Il tema dela luce ricorre anche altrove nel Vangelo. Il lettore lo ha già trovato nel Prologo e nell'episodio del cieco nato. 
Il racconto della pesca, in maniera velata, richiama altri eventi significativi della vita trascorsa con Gesù. La pesca miracolosa dei 153 grossi pesci ricorda la moltiplicazione dei pani. La ricchezza della pescata significa che in Gesù Dio comunica una vita in abbondanza. 
Le reti sono tirate a riva, come Gesù vuole [at]tirare i suoi ascoltatori al Padre. Così come intende radunare i figli di Dio che sono dispersi. La rete rimane intatta come la comunità dei discepoli rimane una. Gesù, offrendo loro pane e pesce evoca il suo gesto di donare il pane, ossia se stesso. 
Ci sono altri rimandi più sottili e meno significativi. 
L'episodio rinvia, dunque, ai fatti e agli insegnamenti della vita trascorsa. Il passato è recuperato. 
In questo contesto di recupero ma anche di ripresa, Pietro deve imparare ad accettare e a riconoscere la colpa del suo fallimento. Le tre confessioni controbilanciano i tre rinnegamenti. 
Non c'è solo questo. Egli viene chiamato con il nome con il quale era stato denominato all'inizio: “Simone, figlio di Giovanni” (Gv 1,42). 
Ora riceve una missione impegnativa; possiamo dire pericolosa visto che essa lo condurrà al martirio. Il passato di Pietro viene ripreso, recuperato e risanato. L'apostolo è richiamato al servizio del Signore. Ora è in grado di corrispondere con generosità. 
Il Risorto è Colui che chiama in modo amorevole, che ci dona la nostra identità nel rapporto d'amore. Anche quando noi lo dimentichiamo, ci chiudiamo nel nostro piccolo mondo, Egli torna presso di noi, non per perseguitarci ma per impedire che restiamo ad un livello inferiore a quello che possiamo avere. La Risurrezione è anche recupero della nostra identità grazie al risvegliarsi in noi dell'amore per il Signore.