mercoledì 28 marzo 2012

Passione di Gesù secondo Marco



Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».
Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.
14,1-11. Il passo si apre e si chiude con una menzione di tentativi  messi in opera per eliminare Gesù. All'inizio si parla della macchinazione dei sacerdoti e degli scribi (10-11) e alla fine di quella di Giuda. Tra questi due fatti negativi, Marco inserisce l'episodio dell'unzione di Betania (3-9). “Il gesto di questa donna acquista senso per il fatto che essa designa il luogo in cui s'incarna il mistero del Regno di Dio” (Cur 393). 
L'ordine etico che chiede la solidarietà verso i poveri non viene infranto ma superato da un'esigenza d'amore e di riconoscenza. Gesù merita questo tributo di lode e tale riconoscimento. Ora è Lui il povero, divenuto tale volontariamente, per arricchirci con la sua povertà. 
La donna rappresenta tutta la Chiesa che in ogni epoca comprende quanto sia stata amata e, a motivo della misericordia ricevuta, offre a Gesù un tributo  d'amore. Il gesto supera la mentalità di chi crede che la Chiesa debba interessarvi in modo esclusivo di questioni sociali o d'interventi solidali. Quest'ultimi tengono certamente un'importanza primaria ma non sono né l'unica attività della Chiesa e neppure la più importante. Al centro della vita di fede deve stare una comunione profonda con il Signore, l'amore riconoscente per Lui.
14,12-16. La preparazione della cena attesta la prescienza di Gesù. Tutto è previsto dal disegno di Dio. L'evangelista mette in evidenza che ora si sta per consumare non una Pasqua qualsiasi ma quella di Gesù: “Dov'é la mia stanza dove io mangerò la Pasqua con i miei discepoli?” (v.14). Ora la Pasqua antica sta per ricevere un contenuto e un significato del tutto nuovo.




Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?». Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
14,17-21. L'istituzione dell'Eucaristia è preceduta dal racconto del del tradimento di Giuda e seguita da quello dell'abbandono dei discepoli (26-31). Gesù si dona a persone che non sono in grado di sostenere l'amicizia con Lui. Egli le ha chiamate non perché siano più affidabili o moralmente più meritevoli, ma per un dono gratuito. 
Gesù non nomina Giuda in modo diretto. Stando a questo passo, non sapremmo chi sia stato il traditore. Ognuno dei discepoli, anziché affermare: Non sono io (come ci aspetteremmo), pronunciano una parola di dubbio: Sono forse io? Il maestro non risponde ma precisa che a tradirlo sarà uno di coloro che mangiano con lui. Questo modo di dire spinge ognuno di noi che ascoltiamo tale racconto a porci la stessa domanda: sono forse io? 
Chi non ha mai abbandonato ilo Signore? Chi ha vissuto sempre come suo discepolo? Chi si è comportato sempre da vero cristiano? Gesù raduna attorno a sé uomini che non sono degni di Lui. Questo non costituisce un disastro. “Dopo la resurrezione, vi precedo in Galilea”. Ci chiama sempre di nuovo, ci precede, ci rinnova con il suo perdono. La risurrezione è un nuovo inizio per Lui ma anche per noi.




E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
14,22-.25. Nella sua Pasqua, Gesù dona se stesso. Il pane spezzato richiama la sua morte violenta; il vino, il sangue versato in croce. Ci nutriamo di Lui nella sua Pasqua. Nutrirsi di Lui significa ricevere la sua carità; assumere la sua obbedienza a Dio e la sua fiducia in lui, la sua prontezza a servire i fratelli. 
Inoltre il suo grande passaggio diventa nostro. “Non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò, nuovo, nel regno di Dio”. Donando se stesso in croce, apre il regno di Dio. La cena è soltanto l'inizio di un banchetto che avverrà nel futuro. Gesù ci precede presso il Padre perchè un giorno possiamo essere con Lui. 





Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse. Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.
14,26-31. Gesù preannuncia la defezione di tutti i discepoli. Ciò non deve gettare nello sconforto perché Egli prevede anche una via d'uscita: vi precederò in Galilea. L'analisi del comportamento degli uomini non deve rimanere limitato alla verifica della nostra incapacità perché da ora compare un evento nuovo capace di riaprire la storia più meschina.
Pietro rifiuta l'idea di essere tra coloro che abbandoneranno il Signore. Insiste nel ritenere che tale meschinità non potrà coinvolgerlo. É difficile ammettere la nostra povertà, accettare la tenebra che persiste in noi. Il camino con Gesù rivela, invece, anche la nostra povertà. La presunzione di Pietro, che trascina anche quella degli altri, dovrebbe premunirci. Almeno dovremmo imparare a sperare, nel caso di una caduta, visto che il nostro caso si è già verificato nell'ambito dei primi discepoli. 






Giunsero a un podere chiamato Getsèmani ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».
14,32-41. Il passo ci rivela l'umanità autentica di Gesù. Egli vuole essere solo con Dio ma si fa accompagnare da tre discepoli. Tuttavia soltanto nel Padre troverà un vero sostegno.
Lo chiama col nome di Abba e quindi non dubita di essere amato da Lui. Continua a considerarlo Dio buono e onnipotente. Non prega allora per recuperare la fiducia in Dio ma per passare dal “ciò che io voglio” al “ciò che vuoi tu”. Il suo stare con Dio, il conversare con Lui, gli fa vedere la sua morte in un modo nuovo. 
Il nostro rapporto con Dio modifica il nostro rapportarci con  i fatti della vita e il nostro relazionarci con gli uomini. La preghiera sincera e perseverante è davvero una scuola e un cambiamento di vita. Gesù realizza per sé il suggerimento di abbandonare tutto già dato a quelli che chiamava alla sua sequela, tuttavia Egli non lascia soltanto dei beni o delle persone ma tutto se stesso e consegna a Dio la vita e la sua persona (* vedere approfondimento alla conclusione del commento). 






Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
Il triplice andirivieni dal luogo della preghiera al posto dove stanno i discepoli dormienti permette di consolidare il richiamo al vegliare. Soltanto nella vigilanza, nella quale ha grande parte la preghiera, possiamo resistere al sonno che è la prepotenza della carne. Gesù attua per noi la salvezza mentre eravamo estranei ed indifferenti. Il Signore concede la sua grazia ai suoi amici nel sonno.






E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!». Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
14, 43-52. Il gesto di Giuda è odioso anche perché si serve d'un gesto d'affetto per compiere un'azione malvagia. Da che cosa è animato? Da amore geloso, da amore deluso? Non lo sappiamo. Vediamo soltanto come Gesù, entrando in relazione con noi, viene coinvolto dall'ambiguità della nostra passionalità. La persona umana non è mai chiara. La folla si è armata con una precauzione inutile. Nella battaglia che scoppia l'unica vittima è un orecchio tagliato. Ma chi circonda Gesù con amore non condivide ancora affatto ciò che è Gesù. Non ha accolto la sua non violenza. Ogni amore religioso ha bisogno di maturazione per diventare vero. Amare Gesù non significa armarsi contro qualcuno. Non si difende il Vangelo introducendo in esso qualcosa che gli è estraneo. Con la sua dichiarazione Gesù attesta la sua innocenza e l'inutilità delle precauzioni armate. Evidenzia nel contempo la disonestà del raggiro dell'autorità. Arrestarlo è un'opera delle tenebre e perciò deva accadere di notte.
Un giovane sfugge alla presa dei soldati. Che cosa significa il fatto? Rappresenta Gesù che, sebbene sia catturato, potrà sfuggire alla presa dei nemici?






Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano.
Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte.
Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.
14,53-65. Il tribunale è ingiusto perchè ha già preso la decisione prima di esaminare la causa. Gesù, se viene considerato come l'interprete autentico del volere del Padre, è del tutto innocente. Davanti a Dio è il Santo. Dal punto di vista del Sinedrio, è uno che corrode la loro religione ma sopratutto il loro potere. Il Sinedrio non sbaglia nell'osservare che i gesti e i detti di Gesù debordano dalla loro legge. Egli ha introdotto vino nuovo e questo preme contro le pareti delle botti invecchiate che sono già scoppiate. Tuttavia da sempre gli interpreti del volere di Dio sono rifiutati. Gli uomini cambiano opinione a fatica, tanto più se una prospettiva diversa minaccia i loro comodi e vantaggi.
Circa le testimonianze apportate, c'è da rilevare che Gesù non ha detto che sarebbe stato Lui a distruggere il tempio ma che il tempio sarebbe andato distrutto. Tuttavia per Lui ormai era cosa morta molto di ciò che era legato al tempio. Infine Gesù viene condannato per quello che é. Avrebbero dovuto accoglierlo, adattarsi al nuovo messaggio ma non si sono sbagliati nel vedere in Lui uno che esorbitava dai limiti della loro prospettiva religiosa.
Trovandosi in difficoltà di fronte alla contradditorietà delle false testimonianze, il Sommo Sacerdote formula una domanda che dovrebbe costringere Gesù ad uscire allo scoperto. Egli, allora non si ritrae e proclama la verità e l'identità della sua persona. Ciò che il Vangelo annuncia  sarà considerato una bestemmia inaccettabile per Israele.






Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». Ma egli di nuovo negava. Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate». E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». E scoppiò in pianto.
14,66-72. Pietro segue Gesù ma da lontano. Non vuole essere codardo ma neppure compromettersi. Propria la misura presa per mostrare una fedeltà apparente lo espone al rischio ancora di più. Non bisogna esporsi, sentirsi troppo sicuri. La tentazione deve sorprenderci, non dobbiamo inseguirla. Caduto nell'ambiguità, Pietro precipita. Da un semplice diniego, passa all'imprecazione e allo spergiuro. Il peccato non è mai un compagno fastidioso, ma un padrone severo. Giuda ha reagito all'errore con il rimorso, Pietro con il dolore del pentimento. Siamo simili negli errori ma molto differenti nel come reagiamo di fronte ad essi. Il pentimento è la via normale di salvezza per tutti.






E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito. A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
15,1-20. I responsabili della consegna a Pilato sono i capi del popolo. Il governatore indaga sulla posizione politica di Gesù; vuole sapere se si consideri il re della nazione. Gesù però è re in senso religioso. Per questo non risponde a Pilato. Non gli crederebbe, non lo comprenderebbe. Pilato, che è sicuro dell'innocenza di Gesù, preferirebbe liberarlo. Forse non per essere giusto ma per porre in imbarazzo i suoi avversari politici. Infine cede all'insistenza della folla, sobillata dai capi. Gesù diventa allora un uomo consegnato agli uomini; deve sottostare ai loro giochi e passioni. È posto in loro balìa.






Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!».
Gesù cade nelle mani dei soldati. Diventa uno degli ultimi, un povero nelle mani di oppressori. Questo fatto sollecita la giustizia di Dio.
Il processo di Gesù è giunto al termine. Eccolo ora consegnato alla morte. A questa sorte viene associato un passante designato come "padre di Alessandro e di Rufo", forse due cristiani ben noti nelle comunità primitive. La crocifissione di Gesù viene a trovarsi sulla strada di questo contadino, che si disinteressa di tutte le questioni politiche che toccano Gerusalemme. Lui se ne sta in disparte, non chiede nulla a nessuno, non è per nulla coinvolto in tutta questa vicenda, eppure vi si scontra in pieno e la sua vita, così come quella dei suoi discendenti, ne viene radicalmente trasformata.






Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero.
Gesù viene condotto al Golgota (in latino calvario, "luogo del cranio", forse a causa dell'aspetto del luogo). Egli si rifiuta di prendere la bevanda che si dava allora ai condannati, forse perché sentissero meno il dolore. Marco non si sofferma sul supplizio: "Lo crocifiggono" (v. 24). Queste due parole evocano, senza bisogno di altri dettagli, tutto l'orrore di quella pena. La spartizione delle vesti, abituale in quelle occasioni, permette all'evangelista di collegare gli eventi al compimento delle Scritture (cf. Sal 22,19). Viene data la prima delle tre precisazioni di orario (cf. in seguito vv. 53 e 34): il fatto si svolge tra le otto e le nove del mattino. Si può discernere qui una divisione della giornata ordinata alla morte di Gesù: dopo la comparizione dinanzi a Pilato, al mattino presto (cf. 15,1), Gesù viene crocifisso "all'ora terza" (v. 25), è ancora in croce "all'ora sesta" (mezzogiorno: 15,33), pronuncia le sue ultime parole "all'ora nona" (15,34), e, "venuta la sera" (15,42), viene messo nella tomba. 






La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra. Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!».
26-27. L'epigrafe fissata sulla croce porta la menzione: "II re dei giudei"; questo titolo costituisce il motivo della condanna: è in quanto liberatore di Israele che Gesù viene condannato. Marco menziona poi la crocifissione dei due ladroni "uno alla sua destra, l'altro alla sua sinistra" (v. 27). È un re dei giudei schernito dai soldati e dal suo stesso popolo, un re crocifisso affiancato da due fuorilegge, "uno alla sua destra, l'altro alla sua sinistra" (cf. 10,35-37, il posto che volevano occupare i figli di Zebedeo nella gloria!).






Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.
15,33. L'ora sesta è il momento in cui le tenebre scendono sulla terra, e questo dura fino all'ora nona. Molti commentatori pensano che si tratti di un'allusione ad Amos 8,9 ("In quel giorno ... farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerò la terra in pieno giorno!"). Comunque sia, queste tenebre sono il segno che siamo al cuore di una grave crisi e che la morte del giusto è un giorno di lutto anche per la creazione.




Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
15, 34-36. Questo giorno di lutto è anche, per Gesù, il giorno in cui vive l'abbandono radicale. Recitando il salmo 22,2, egli grida la sua incapacità di comprendere ciò che gli sta accadendo: lui, che aveva proclamato l'imminenza dell'avvento del regno di Dio (cf. 1,14-15), si ritrova solo dinanzi alla morte. Se non è troppo azzardato, si potrebbe dire che Gesù è stato effettivamente abbandonato da un dio, o più esattamente da una certa immagine di Dio. Sulla croce Gesù non scopre forse che l'unico Dio presente al suo fianco è il Dio che muore con lui e non quello che potrebbe evitargli la morte? In ogni caso Gesù non è stoico: non affronta la morte senza che il dubbio si insinui in lui, non è il tipo dell'eroe tragico che combatte la morte senza temerla. Al cuore della tempesta, gli restano solo le parole del salmista.




Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo.
38. Probabilmente, anche se Marco non lo precisa, bisogna pensare qui alla tenda che separa il luogo santo dal luogo santissimo, quel luogo santissimo dove il sommo sacerdote entrava solo una volta l'anno, con molte precauzioni, per offrire l'offerta in vista del perdono. Nella morte di Gesù viene abolita l'era del tempio e del sacrificio (idea che sarà sviluppata lungamente dalla Lettera agli Ebrei). All'inizio dell'evangelo i cieli si sono "squarciati" in occasione del battesimo di Gesù: in lui Dio si rivelava agli uomini in modo decisivo; quasi al termine del suo racconto Marco sottolinea che anche la morte di Gesù è occasione di una lacerazione, quella del velo del tempio, lacerazione che inaugura un nuovo modo di accedere a Dio. La morte di Gesù viene qui interpretata come un evento che interviene sugli equilibri della storia: quando Gesù muore, si apre una nuova epoca per l'umanità.






Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
39. Testimone di questa morte è uno dei carnefici, responsabile dei soldati che hanno sferzato e crocifisso Gesù. Egli "vede" come Gesù è morto e afferma: "Davvero quest'uomo era Figlio di Dio".
È nella sua morte che Gesù viene confessato in modo autentico come Figlio di Dio. Ciò che i demoni già sapevano, ma che dicevano nel peggiore dei modi (cf. 1,25.34; 3,12), ciò che la voce dal cielo aveva proclamato solo per Gesù o per pochi discepoli frastornati (cf. 9,7), quella relazione intima che Gesù intratteneva con il Padre (cf. 14,32-42) ora viene resa pubblica, ed è al momento della morte del Figlio che lo diventa. Qui vi è qualcosa di cui non si può sottovalutare la portata.




* Approfondimento: 
Obbedienza orante di Gesù

C'era una distanza da colmare, un culmine da attingere, là dove si compie il destino di ogni uomo: nella morte. Il suo destino era morire di una morte divinamente filiale.
Gesù si è messo in cammino e, camminando, è diventato il cammino di accesso presso il Padre, contemporaneamente «precursore» e «cammino vivente e nuovo» per entrare nel santuario. È traghettatore e passaggio, «Cristo nostra pasqua», salvatore e salvezza.
L'obbedienza è la virtù filiale per eccellenza; Gesù è «diventato obbediente». Ha lottato per diventarlo: «Abbà! Se è possibile [...] Non la mia volontà, ma la tua». «Attraverso la sofferenza, ha imparato la sottomissione». Egli doveva diventare obbediente, non che fosse mai stato non sottomesso, ma sulla terra nessuno è in grado di porre un atto assoluto, eterno. Tutto è frammentato, misurato dal tempo. Oggi si pone un atto di obbedienza a Dio, l'indomani esso è da rifare. Ma Gesù è «diventato obbediente fino alla morte», in un assoluto di sottomissione, proporzionatamente all'infinita paternità di Dio. Accettando la morte, acconsente a non esistere se non per il Padre che lo genera e diventa, nella pienezza della sua libertà umana, il Figlio che egli è fin dal principio.
Gesù ha progredito nell'amore. Figlio del Dio d'amore, ha sempre amato, «non ha cercato ciò che gli piaceva». Ma non aveva mai posto l'atto assoluto dell'amore, di cui dice: «Nessuno ha un amore più grande che dare la propria vita...». Nella morte, egli è «fatto amore», pienamente, senza limite alcuno: egli è divinizzato, «divenuto spirito vivificante», il Figlio in tutto simile al Padre.
Gesù fu un uomo di grande preghiera. Il Padre non deve pregare: è fonte; invece la preghiera si lascia riempire dalla fonte. Essa si espone a Dio, si apre a lui nel desiderio. È un atto filiale. Chi prega si lascia generare, si fìlializza pregando.
Gesù è in preghiera nelle grandi tappe della sua vita, le quali tutte annunciano la sua morte. Egli prega al battesimo, che anticipa «il battesimo con cui doveva essere battezzato». Mentre prega, il cielo si apre, lo Spirito scende su di lui: «Una voce viene dal cielo: "Questi è mio Figlio"». Gesù in preghiera è Gesù nella sua fìlialità. Sulla montagna, «mentre pregava, il suo volto divenne un altro», divenne il vero volto del Figlio. La voce proclama di nuovo: «Questi è mio Figlio...». Mosè ed Elia annunciano «l'esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme».
«L'alta montagna» della trasfigurazione era l'immagine della montagna altissima della pasqua del Figlio. La passione si apre con l'implorazione: «Abbà! Padre! A te tutto è possibile, allontana da me questo calice!». «Con grandi grida e lacrime, offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte. E fu esaudito». Non è esentato dal morire e, tuttavia, è salvato dalla morte, è salvato all'interno della morte:
il Padre lo genera nella morte.
Secondo Luca, il senso della morte si esprime in un'ultima preghiera. Viene citato un versetto del Salmo 31, Gesù lo fa precedere dal nome del suo Abba: «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito». Il destino di Gesù si compie in un atto di preghiera, e contemporaneamente si compie la sua missione.
La preghiera è stata definita come un'ascesa dello spirito verso Dio. Non è solamente con lo spirito, ma con tutto il suo essere che, morendo, Gesù è asceso verso Dio. La preghiera è stata anche definita come l'accoglimento fatto al dono di Dio. Gesù muore in una recettività illimitata, aperto al Padre che lo genera. Pregare è un atto filiale, Gesù muore in un atto di preghiera, un atto filiale. Alla preghiera corrisponde l'esaudimento. «Padre, nelle tue mani...», dice Gesù; il Padre dichiara: «Tu sei mio Figlio, oggi io ti genero».
«Tutto è compiuto». Niente si aggiungerà. L'ascesa del Figlio raggiunge la sommità; la sua discesa è pervenuta all'estrema profondità. L'incarnazione è totale. Le attività di Gesù sulla terra convergono verso questo punto da cui scaturiscono, come i fiumi si gettano nel mare, loro patria originaria: «Padre, l'ora è giunta, glorifica il Figlio tuo... presso di te, con quella gloria che avevo presso di te, prima che il mondo fosse».
Offerto al Padre in totale recettività, Gesù muore, dunque generato. È nato alla pienezza del suo mistero. Poiché egli è Figlio, è andato verso il Padre, ha obbedito, si è aperto a lui nella preghiera. La morte è il sacro divinamente filiale del l'uomo Gesù. Il Padre lo genera nella pienezza che i discepoli avevano già intravisto sulla montagna della trasfigurazioni ma questa pienezza è di una novità radicale, tanto radicai quanto la differenza tra la morte e la vita sulla terra. In questa morte senza limite, la filiazione si dispiega all'infinito. (Fr.-X. Durrwell)

domenica 25 marzo 2012

Sette parole di Gesù in croce (K. Rahner)

Prima parola
«Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» 
(Lc 23,34)

Tu pendi dalla croce. Ti ci hanno inchiodato. Da questo palo innalzato fra terra e cielo non puoi più staccarti. Le ferite bruciano nel tuo corpo. La corona di spine tormenta il tuo capo. I tuoi occhi sono irrigati di sangue. A causa delle ferite delle mani e dei piedi le tue membra sono come trapassate da un ferro rovente. E la tua anima è un mare di dolore, di desolazione, di disperazione.
Coloro che hanno architettato tutto ciò stanno sotto la tua croce. Non se ne allontanano, neanche per lasciarti morire solo. Rimangono, ridono. Trovano che hanno avuto ragione, e lo stato in cui sei ne è la dimostrazione più evidente: la prova che quanto hanno fatto è l'adempimento della più santa giustizia, un servizio reso a Dio di cui possono andare orgogliosi. Per questo sghignazzano, in-sultano, bestemmiano. E su di te si abbatte, più spaventosa di tutti i dolori del corpo, la disperazione per una simile malvagità. Ci sono davvero degli uomini capaci di tale perfìdia? C'è mai un pur minimo punto in comune fra te e loro? Può mai un uomo torturarne un altro persino in morte? Torturarlo con la menzogna, la perfidia, il tradimento, l'ipocrisia e la malvagità persino in punto di morte, e in tutto ciò rivendicare per sé l'apparenza del diritto e l'aria dell'innocente e la posa del giudice obiettivo? E Dio permette che ciò accada nel suo mondo? Che la risata e lo scherno dei nemici risuonino gagliardi e trionfanti nel suo mondo? O Signore, il nostro cuore si sarebbe già spezzato in una furiosa disperazione. Noi avremmo maledetto i nostri nemici e Dio con loro. Noi avremmo urlato come pazzi e cercato di strappare i chiodi per riuscire a stringere ancora una volta il pugno.
Tu invece dici: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. Sei incomprensibile, Gesù. Nella tua anima martoriata e scompigliata dal dolore c'è ancora una zolla sulla quale possa fiorire questa parola? Sei proprio incomprensibile! Tu ami i tuoi nemici. Li raccomandi al Padre tuo. Preghi per loro. Ah, Signore, se non fosse una bestemmia direi che tu li discolpi con la più inverosimile delle scuse: non avrebbero saputo. Eppure sapevano tutto. Ma hanno voluto ignorare tutto. E ciò che si vuole ignorare, in realtà lo si sa nella cella più profonda e segreta del cuore. Ma al tempo stesso lo si odia e perciò non si vuole lasciarlo salire alla coscienza chiara. E tu dici che essi non sanno quello che fanno! Ma una cosa certamente non hanno conosciuto: il tuo amore per loro, poiché quello lo può conoscere solo colui che ti ama. Solo all'amore, infatti, è dato di comprendere il dono dell'amore.
Pronuncia anche sui miei peccati la parola di perdono del tuo incomprensibile amore. Di' anche per me al Padre: Perdonalo, perché non sa quello che fa. Invece lo sapevo. Tutto sapevo. Ma non conoscevo ancora il tuo amore.
Concedimi di pensare alla prima parola che dicesti sulla croce anche quando nel Padre Nostro affermo distrattamente di perdonare ai miei debitori. O mio Dio inchiodato sulla croce dell'amore: io non so se qualcuno mi debba realmente qualcosa che io possa rimettergli. Ma in ogni caso mi occorre la tua forza affinché io sappia perdonare di cuore a coloro che il mio orgoglio e il mio egoismo considerano nemici.



Seconda parola:
«In verità ti dico:
oggi tu sarai con me in paradiso» (Lc 23,43)

Tu sei in agonia, e nel tuo cuore pieno di dolore c'è ancora posto per la sofferenza altrui! Stai per morire, e ti preoccupi di un criminale il quale, persino nei suoi tormenti, deve ammettere che il suo martirio infernale non è un eccesso di pena per la sua vita malvagia! Vedi tua Madre, e ti rivolgi in primo luogo al figlio perduto! L'abbandono di Dio ti sta uccidendo, e tu parli di paradiso! I tuoi occhi si stanno ottenebrando nella notte della tua morte, ma ciononostante vedono la luce etema. In morte si è intenti solo a se stessi, perché si è lasciati soli e abbandonati. Tu invece ti dai pensiero del­le anime che devono entrare con tè nel tuo regno. O cuore misericordiosissimo! O cuore forte ed eroico!
Un miserabile delinquente ti chiede di ricordarlo e tu gli prometti il paradiso. Diventa tutto nuovo, se tu muori? Una vita di peccati e di vizi si tra­sforma così rapidamente, se tu ti avvicini ad essa? Quando tu pronunci le parole dell'assoluzione so­pra la vita di un criminale, vengono graziati e tra­sformati persino i peccati e le perfidie più ripu­gnanti, al punto che nulla più gli impedisce l'in­gresso nella santità di Dio. Ecco, una briciola di buona volontà, quanta fosse bastata per evitare la sorte peggiore, noi l'avremmo ammessa anche in un bruto e malfattore del genere. Ma le abitudini perverse, gli istinti viziosi, la brutalità e il fango, la bassezza... tutto ciò non scompare con una bri­ciola di buona volontà e con un fugace pentimen­to sul patibolo! Uno di tal fatta non può andare in cielo così in fretta come i penitenti e le anime che si sono purificate con una lunga ascesi, o come i santi, i quali non fecero altro che affinare il corpo e l'anima per renderli degni del Dio tre volte san­to! Tu invece pronunci la parola onnipotente del­la tua grazia, essa penetra nel cuore del ladrone e trasforma il fuoco infernale della sua agonia nella fiamma purificatrice dell'amore a Dio; in un attimo questo amore illumina tutto ciò che in quel cuore rimaneva ancora come opera del Padre tuo e divora tutto ciò che in codesta vita si oppo­neva a Dio come debito cattivo della creatura. E il ladrone entra con tè nel paradiso del Padre tuo.
Darai anche a me la grazia di non perdere mai il coraggio di esigere temerariamente tutto dalla tua bontà, di aspettarmi tutto? Il coraggio di dire, fos­si anche il più rinnegato dei criminali: Signore, ri­cordati di me, quando sarai nel tuo regno! Signore, che la tua croce s'innalzi accanto al mio letto di morte. E che la tua bocca ripeta anche a me:
In verità ti dico, oggi stesso sarai con me in pa­radiso. Questa tua stessa parola mi renda degno di entrare, completamente assolto e santificato dalla potenza purificatrice della morte subita con tè e in tè, nel regno del Padre tuo.


Terza parola:
«Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre» (Gv 19,26)
Adesso, con la morte, era giunta l'ora in cui tua Madre poteva esserti nuovamente vicina. Adesso che non ti si chiedeva più alcun miracolo ma tu do­vevi morire, poteva essere accanto a tè colei alla quale avevi detto: «Donna, che importa a tè e a me? La mia ora non è ancora giunta» (Gv 2,4). Adesso è giunta l'ora in cui il Figlio e la Madre sono legati. E questa è l'ora del distacco, l'ora della morte. L'ora in cui alla Madre, che era vedova, viene tolto l'unico Figlio.
E così il tuo sguardo contempla ancora una volta la Madre. Tu non hai risparmiato nulla a questa Madre. Tu non fosti soltanto la gioia della sua vita: fosti pure la sua amarezza e la sua pena. Ma l'una e l'altra cosa erano grazia tua, perché l'una e l'altra provenivano dal tuo amore. Perché ti ha assistito e servito sia nella gioia che nel dolore, per questo ami tua Madre. Infatti solo così essa è di­ventata veramente Madre tua. Per tè, fratelli e sorelle e madre sono coloro che compiono la volontà del Padre tuo che sta nei cieli. Pur nel tormento, il tuo amore è ancora vibrante di quella tenerezza che su questa terra unisce tra loro un figlio e sua madre. Così la tua morte consacra e santifica anche queste dolci e preziose realtà terrene che inteneriscono i cuori e rendono bella la terra. Queste co­se non muoiono affatto nel tuo cuore, nemmeno quando è schiacciato dalla morte. E così tu le salvi per il cielo. E poiché persino nella morte hai amato la terra; poiché pur mentre morivi per la no­stra salvezza eterna ti sei commosso per il pianto di una madre; poiché anche nel trapasso ti sei preoccupato della sorte terrena di una vedova e hai donato a un figlio una madre e a una madre un figlio, per questo un giorno vi sarà una nuova terra.
Ma essa non stava sotto la tua croce semplicemente con il dolore solitario di una madre cui si sta ammazzando il figlio. Stava là a nome nostro. Stava là come madre di tutti i viventi. Offriva il Figlio per noi. A nome nostro pronunciava il suo «fìat» per la morte del Signore. Essa era la Chiesa sotto la croce, era la discendenza dei figli di Èva, partecipava al combattimento cosmico tra il ser­pente e il Figlio della Donna. Perciò, donando questa Madre al discepolo prediletto, tu l'hai do­nata a ciascuno di noi.
Figlio, figlia - dici anche a me -, ecco tua Madre. O parola che ci affidi un lascito eterno! Sotto la tua croce, o Gesù, sta come discepolo amante solo colui che, a partire da quell'ora, ac­coglie la Madre tua con sé. Le sue mani materne e pure distribuiscono tutte le grazie meritate dalla tua morte. Concedici la grazia di venerare e amare tua Madre. Dille ancora, guardando a me poverello:
Donna, ecco tuo figlio; Madre, ecco tua figlia.
Doveva toccare a un cuore puro, verginale il compito di dire a nome del mondo il «sì» alle noz­ze dell'Agnello con la Chiesa sua sposa, con l'umanità riscattata e purificata dal tuo sangue. Se io mi lascio da tè affidare al cuore verginale di tua Madre, la tua morte non sarà avvenuta invano per me, io sarò accanto a lei quando irromperà il gior­no delle tue nozze eterne e tutta la creazione, tra­sfigurata per l'etemità, ti sarà congiunta in eterno. 




Quarta parola:
«Dio mio. Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46)
Ti si sta avvicinando la morte. Non la fine della vita corporale, che è liberazione e pace, ma la morte nel senso di ultimo abisso, di inimmaginabile distruzione e miseria. Si sta avvicinando la morte quale svuotamento, quale paurosa impotenza, desolazione schiacciante in cui tutto indietreggia, tutto fugge, nulla più esiste se non un abbandono che è bruciante e soprattutto indicibilmente morto. E in questa notte dello spirito e dei sensi, in questo vuoto del cuore in cui tutto viene bruciato, la tua anima persiste nella preghiera;
questa spaventosa desolazione di un cuore bruciato dal dolore diventa in tè una straordinaria invocazione a Dio. O preghiera del dolore, dell'abbandono, dell'impotenza abissale, preghiera di un Dio derelitto, sii tu stessa adorata! Se tu. Gesù, preghi in tal modo, se tu preghi in tale miserrimo stato, ci può mai essere un abisso dal quale non sia consentito invocare il Padre tuo? Ci può mai essere una disperazione la quale non riesca, cercando rifugio nel tuo abbandono, a trasformarsi in preghiera? Ci può mai essere un ammutolimento nel dolore il quale sia costretto ad ignorare che un tal grido silenzioso venga ancora udito nei tripudi del cielo?
Per esprimere la tua miseria, per fare del tuo sconfinato abbandono una preghiera, pregasti l'inizio del Salmo 22. Infatti le tue parole: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?, sono il primo versetto di questa antichissima lamentazione che il tuo stesso Spirito Santo aveva posto quale grido straziante nel cuore e sulle labbra del giusto dell'Antico Testamento. Anche tu dunque, se mi è lecito esprimermi così, nella tua lancinante sofferenza hai voluto pregare quelle stesse cose che innumerevoli generazioni avevano già pregato prima di tè. In certo qual modo, in quella messa solenne nella quale offristi tè stesso come sacrifìcio etemo, tu stesso hai pregato con parole già improntate dall'uso liturgico, e con tali parole hai potuto dire tutto. Insegnami a pregare con le parole della tua Chiesa, così che esse diventino le parole del mio cuore.

Quinta parola:
«Ho sete!» (Gv 19,28)

L'evangelista Giovanni inquadra nel modo seguente questa parola da lui riportata: poiché tu sapevi che tutto era ormai compiuto, affinché si adempisse la Scrittura esclamasti: Ho sete! Anche qui tu hai dato conferma a una parola scritturistica attinta dai Salmi, una parola che lo Spirito di Dio aveva già anticipato profeticamente della tua passione. Infatti nello stesso Salmo 22 si dice di te: «Inaridito come un coccio è il mio vigore e la mia lingua mi si è attaccata al palato» (v. 16). E nel Salmo 69,22: «Nella mia sete mi hanno abbeverato di aceto».
O servo del Padre, obbediente fino alla morte e alla morte di croce, tu guardi oltre ciò che ti tocca, guardi a ciò che ti deve toccare; guardi oltre ciò che compi, guardi a quel che devi compiere; guardi oltre i fatti, guardi al dovere. Anche nell'agonia, in cui solitamente lo spirito si ottenebra e la chiara coscienza si spegne, tu sei in una certa misura ansiosamente attento a che tutti i dettagli della tua vita coincidano con l'immagine eterna ch'era presente nella mente del Padre quand'egli ti pen­sava. E così, propriamente, tu non badi alla sete in­dicibile del tuo corpo dissanguato, coperto di fe­rite brucianti, nudo ed esposto al sole implacabi­le d'un mezzogiorno d'Oriente. Piuttosto, tu che ami la volontà del Padre fino alla morte, affermi con un'umiltà quasi inconcepibile, degna di ado­razione: sì, anche quello che per bocca dei profe­ti era stato predetto di me come volontà del Padre, anche quello è adempiuto; sì, io ho davvero sete. O cuore regale, per il quale anche il tormento che brucia il tuo corpo con rabbia insensata altro non è che l'adempimento di un mandato dall'alto!
Appunto così hai inteso tutta la tua passione nella sua asprezza crudele. Essa era compito, non cieco destino; volontà del Padre, non malvagità de­gli uomini; atto salvifico del tuo amore, non cri­mine dei peccatori. Tu soccombesti perché noi fossimo salvati; moristi perché noi vivessimo; avesti sete perché noi ci ristorassimo alle acque del­la vita. Tu bruciasti di sete perché dal tuo costato trafitto scaturisse la fonte dell'acqua viva. A que­sta stessa fonte ci hai invitato quando, alla festa dei Tabernacoli, gridasti a gran voce: Chi ha sete, venga a me, e beva chi crede in me; poiché fonti d'acqua viva dello Spirito sgorgheranno dal cuo­re del Messia (cfr. Gv 7,37s).
Tu hai sofferto la sete per me, hai sete del mio amore e della mia salvezza: come il cervo asseta­to anela alle sorgenti d'acqua, così la mia anima ha sete di te.

Sesta parola:
«Tutto è compiuto» (Gv 19,30)
Hai detto proprio così: Tutto è compiuto. Sì, Signore, è la fine. La fine della tua vita. La fine della tua gloria, della tua speranza umana, la fine della tua lotta e del tuo lavoro. Tutto è ormai passato. Tutto s'è fatto vuoto. E la tua vita si è dileguata. Disperazione e impotenza. Ma questa fine è il tuo compimento. Poiché una fine in fedeltà e nell'amore è un compimento. E il tuo tramonto è la tua vittoria.
O Signore, quando finalmente capirò questa legge della tua vita, e perciò anche della mia vita? La legge per cui la morte è vita, il rinnegamento di sé conquista su di sé, la povertà ricchezza e il dolore grazia, la legge per cui la fine è in verità il compimento?
Sì, tu hai compiuto tutto. Compiuta è la missione che il Padre ti aveva affidata. Il calice che non do­veva passare è stato bevuto sino alla feccia. La morte, quella spaventosa morte, è stata subita. La sal­vezza del mondo è stata attuata, la morte sconfitta, il peccato schiacciato. Il potere degli spiriti delle te­nebre è stato reso impotente. La porta della vita è stata spalancata, la libertà dei figli di Dio conquistata. Ora può soffiare l'impetuoso Spirito della grazia! E già il buio mondo comincia lentamente, come in un'alba, ad arrossarsi alla vampa del tuo amore. Ancora un po' di tempo - quel po' di tempo che noi chiamiamo storia del mondo - e poi il mondo stesso s'infiammerà al braciere luminoso della tua divinità, e l'universo intero sarà sommerso nel beato oceano di fiamme che è la tua vita. Tutto è compiuto.
Porta a compimento nel tuo Spirito anche me, tu che porti a compimento l'universo, o Verbo del Padre, che tutto hai compiuto nella tua carne e nel tuo martirio. Potrò dire anch'io, alla sera della mia vita: Tutto è compiuto; ho condotto a termine la missione che mi hai affidato? Potrò ripetere anch'io, quando le ombre della morte scenderanno su di me, la tua preghiera sacerdotale: «Padre, l'ora è venuta-Io ti ho glorificato sulla terra compiendo l'opera che mi avevi assegnato da compiere. Padre, glorificami presso di te» (Gv 17,ls)? O Gesù, qualunque sia la mia missione: grande o piccola, dolce o amara, vita o morte, concedimi di compierla nel modo che tu - tu che hai compiuto tutto, anche la mia vita - l'hai già compiuta affinché io fossi capace di portarla a compimento.



Settima parola:
«Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito» (Lc 23,46)

O Gesù, il più abbandonato degli uomini, tu la­cerato dal dolore, sei alla fine. Quella fine in cui a un uomo viene tolto tutto, persino l'anima e la li­bera scelta tra il sì e il no, gli viene tolto tutto il suo essere. Questa, in realtà, è la morte. Ma chi (o che cosa) è costui che toglie? Il nulla? Il destino cieco? La natura spietata? No, è il Padre! È Dio, che è sapienza e amore insieme. Perciò ti lasci to­gliere a tè stesso. Ti abbandoni in piena confi­denza a quelle mani invisibili e lievi che noi uomini increduli, trepidi per il nostro io, sentiamo come gli artigli del cieco destino e della morte che ci strozzano improvvisi e spietati. Ma tu lo sai: sono le mani del Padre. E i tuoi occhi ottenebrati nella morte vedono ancora il Padre, si fissano nell'occhio grande e tranquillo del suo amore, e la tua bocca pronuncia l'ultima parola della tua vita: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.
Tutto dai a lui che tutto ti diede. Tutto deponi senza garanzia e senza riserve nelle mani del Padre tuo. È molto, è pesante e amaro! E tu hai do­vuto portare da solo ciò che formava il peso del­la tua vita: gli uomini, la loro volgarità, la tua missione, la tua croce, l'insuccesso e la morte. Ma ora hai finito di portare. Poiché ora puoi de­porre tutto, anche te stesso, nelle mani del Padre. Tutto. In quelle mani che sorreggono così bene, co­sì delicatamente! Come fossero mani materne.
Esse circondano la tua anima come si fa con un uc­cellino quando lo si racchiude amorevolmente e dolcemente fra le mani. Adesso nulla più è pesante, tutto è leggero, tutto è luce e grazia. E tutto è al ri­paro nel cuore di Dio, dove uno piangendo può sfo­gare ogni affanno e il padre con un bacio asciuga le lacrime che rigano le guance del bambino.
O Gesù, un giorno deporrai anche la mia povera anima e la mia povera vita nelle mani del Padre? Allora deponi tutto, il peso della mia vita, il peso dei miei peccati, non sulla bilancia del giudizio ma tra le braccia del Padre. Dove fuggire, dove nascondermi, se non presso di te, che mi sei fratello nelle amarezze, che hai patito per i miei peccati? Ecco, oggi io vengo a te. M'inginocchio sotto la tua croce. Bacio quei piedi che, senza farsi sentire e senza farsi fuorviare, mi seguono con passo san­guinante lungo le strade tortuose della mia vita. Abbraccio la tua croce, o Signore dell'amore eter­no, o cuore di tutti i cuori, o cuore trafitto, o cuo­re paziente e indicibilmente buono! Abbi pietà di me. Accoglimi nel tuo amore. E quando il mio pel­legrinaggio si avvicinerà alla fine e il giorno de­clinerà, e le ombre della morte mi avvolgeranno, pronuncia anche sulla mia fine la tua ultima parola: Padre, nelle tue mani consegno il suo spirito. O buon Gesù! Amen.






sabato 24 marzo 2012

Caratteri essenziali della spiritualità cristiana

Tra le molteplici denominazioni utilizzate per parlare dell'esperienza di fede vissuta (la “via”, avere la vita eterna, accogliere il regno), nella tradizione cristiana ha avuto un particolare rilievo la locuzione conoscere il mistero; oppure conoscere il mistero del Vangelo. Per evidenziare i caratteri prioritari dell’agire cristiano, è opportuno seguire questa pista. Iniziamo col chiederci: che cos’è il Vangelo e che cos’è il mistero?

Il mistero del Vangelo

Quando oggi sentiamo parlare di vangelo, pensiamo spontaneamente al libro che contiene gli scritti dei quattro evangelisti. In epoca biblica, invece, il termine non significava un testo scritto ma l’annuncio di un evento lieto in fase di realizzazione. Nel Primo Testamento, ad esempio, il ritorno dall'esilio, la riunificazione del popolo e la ricostruzione di Gerusalemme, opere attribuite al volere di Dio, sono annunciate come un vangelo.
«Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio. Senti? Le tue sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore in Sion. Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme (Is 52, 7-9)».
I destinatari di questi vangeli, più che ricevere degli insegnamenti, vengono a conoscenza di avvenimenti che Dio sta realizzando (cf Is 40,9-11).
Nella predicazione degli apostoli, è la proclamazione gioiosa che rende noto lo svolgersi dell'azione decisiva di Dio a favore degli uomini, per mezzo di Gesù Cristo. Il vangelo parla quindi di Dio che agisce per mezzo Cristo. (Rm 16, 25-26).
Lo stesso si può dire riguardo a mistero. Mistero non è una verità incomprensibile, da accettare in modo cieco. È il progetto di Dio; corrisponde a ciò che Egli vuole operare nel mondo, a favore degli uomini. È vero che è, essendo stato ignorato a lungo, presenta qualcosa di sconosciuto per quanto riguarda il suo inizio, ma in seguito è stato fatto conoscere da Dio stesso (1 Cor 2,7; Rm 16,25). Il mistero ha la sua fonte in Dio e partecipa alla natura di Dio, il nascosto per essenza (Is 45,15; abita in una nube oscura, cf. 1 Re 8,12, o in una luce inaccessibile cf. 1 Tm 6,16). Tuttavia, nonostante questo punto di partenza, il termine mistero è sempre accompagnato da verbi di rivelazione: svelare, manifestare, far conoscere. «Dio ci ha fatto conoscere un mistero. Ciò che era nascosto e taciuto da lunghissimo tempo è oramai cosa nota e a portata di mano per tutti» (Penna 27). L'intenzione profonda che anima questo progetto è la volontà di donare se stesso in Cristo, in modo totale.
Il destinatario della comunicazione del mistero è la comunità cristiana. In opposizione ai misteri ellenistici, la rivelazione ha un carattere pubblico. Tutti devono conoscere ciò che Dio sta compiendo. La comunità lo può attingere al meglio grazie alla mediazione interpretativa degli apostoli e di profeti, ossia di istruttori ispirati (Ef 1,9; 3,5; Col 1,26-27).
In che modo veniamo a conoscerlo? Mediante la predicazione che si serve delle Scritture profetiche. I libri Sacri ci aiutano ad approfondire l’annuncio ricevuto.  «D’altra parte il mistero non si esaurisce nell’enunciabile, ma supera ogni possibile incapsulazione letteraria, proprio perché non si limita alla inaccessibilità razionale ma chiede spazio nella vita vissuta» (Penna 43). La rivelazione del mistero sollecita ed apre la nostra risposta. Noi siamo destinati a venirne a conoscenza e sollecitati a corrispondervi. Il mistero del Vangelo ha un carattere di attualità perché esso si dispiega in modo che tutti gli uomini vi possano partecipare. Vangelo e mistero si riferiscono anche a ciò che Dio sta operando nel presente. Attualità e possibilità di partecipazione sono due risvolti essenziali.

«... perché le conosca la generazione futura. Non siano come i loro padri...» (Sal 78)

Seguire Cristo vivendo in Lui

Nella storia della spiritualità cristiana, prevalgono due modi di vedere il nostro rapporto con Cristo, il primo lo coglie come sequela del Signore e il secondo come vita in Lui. I due aspetti, ben distinti, non vanno tuttavia mai disgiunti. Siamo chiamati a seguire Gesù, come nostro maestro, ma soprattutto ad essere partecipi di Lui. Il secondo aspetto è più importante perché rende possibile il primo. Come persone partecipi di lui, dopo aver ricevuto la sua stessa vita, cerchiamo di rimanere in essa, finché si dilaterà in noi in pienezza.
Possiamo considerarci discepoli di Gesù e metterci alla sua sequela, perché Egli è passato in noi e vive in noi. Ci comunica la sua vita, la sua luce, la sua forza, la sua mitezza, il suo coraggio, il suo desiderio del Padre, l'unione con Lui. Se non fosse così, non potremmo neppure prospettarci di seguirlo.
Interpretare la vita cristiana soltanto come sequela potrebbe indurci in errore. C'è il rischio di situare Gesù alla pari di tanti altri maestri di vita dell'umanità. Oppure semplicemente il migliore di tutti. Questo, intanto, non corrisponderebbe all'elemento essenziale della fede cristiana: Gesù è l'unico vero rivelatore del Padre e l'unico Salvatore.
«La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull'uomo, sull'essere dell'uomo e sul suo dover essere - una sorta di concezione religiosa del mondo -, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita; una personalità che nonostante il suo fallimento rimane grande e può imporsi alla nostra riflessione, ma rimane in una dimensione puramente umana e la sua autorità è valida nella misura in cui il suo messaggio ci convince. Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell'uomo» (Ratzinger Gesù di Nazaret /2 269-270)
Inoltre, ponendo Gesù al livello di altri maestri, metteremmo subito una distanza netta tra noi e lui. In primo luogo una distanza affettiva: noi lo ameremmo, spinti da ammirazione, ma non ci sentiremmo amati da Lui. Ci troveremmo soli.
In secondo luogo, dovremmo affrontare spesso lo smacco della disillusione. Imitare una persona di grande levatura appare molto difficile e finiamo con l'imbatterci con la nostra povertà.
Ora le cose non stanno così. La vita cristiana non è soltanto sequela di Cristo ma vita in Cristo. Egli è in noi e noi siamo in Lui. A rendere possibile questo passaggio è la presenza in noi dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo è Gesù Cristo in noi.
Non c'è un testo biblico migliore capace di illuminare la nostra situazione di vita di questo passo di san Paolo: «Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18). Noi riflettiamo la gloria del Signore. Come la luce del sole sfolgora da uno specchio, così nel cristiano brilla la gloria del Signore. Il cristiano risplende nella misura in cui è conforme al Signore Gesù. È chiaro, tuttavia, che condivideremo lo splendore del Signore, al massimo delle nostre possibilità, soltanto nella vita futura. Tutto questo movimento di trasformazione è compiuto dallo Spirito Santo: tutto prende inizio a partire dalla sua presenza, tutto si sviluppa e si completa grazie alla sua ispirazione.
La spiritualità cristiana si chiama così in seguito alla presenza in noi dello Spirito Santo in noi. Quanto ho richiamato si trova riassunto bene in una pagina d'un classico della spiritualità:
«… il cristiano è tale per la partecipazione allo spirito di Gesù Cristo [...] Lo Spirito è la somiglianza con Gesù e con i suoi modi di comportarsi. Poiché siamo cristiani per il possesso dello Spirito di Gesù Cristo, qualcuno mi domanderà in cosa consista lo Spirito di Gesù Cristo. […] Se lo consideriamo in noi, affermo che lo Spirito di Gesù Cristo è lo Spirito Santo, che viene chiamato Spirito di Gesù, perché Gesù ce l'ha meritato affinché venisse a dimorare in noi e, dimorando, ci spingesse e ci infiammasse di continuo nell'abbracciare la sua dottrina, nell'imitare la sua vita e ci fortificasse con il suo aiuto. Inoltre è la partecipazione e la somiglianza che abbiamo con Gesù Cristo e con tutti i suoi modi di comportarsi».
Cristo vive in noi grazie allo Spirito. Il processo di trasformazione in Lui viene chiamato da Paolo come «sublime conoscenza di cristo Gesù mio Signore» (Fil 3,8). La vita cristiana è conoscenza di Cristo, ossia partecipazione a ciò che Egli è.
Che cosa ci comunica Cristo Signore in questa sublime conoscenza? Egli ci dona il meglio di sé stesso. Il meglio di sé, ossia la sua gloria, Egli l'ha vissuta e manifestata nella sua Pasqua. Durante la passione ha espresso la sua piena dedizione a Dio Padre e agli uomini. Inoltre risorgendo è entrato nella nuova vita, nella vita eterna. Anzi è Lui stesso la vita eterna. Ora se Gesù vuole donarci il meglio di sé, ci dona la possibilità di rivivere la sua Pasqua.
La partecipazione a tale evento diviene il sostrato di tutta la spiritualità cristiana. Ora abbiamo la possibilità di rivivere l'evento pasquale del Signore ma procedendo in un ordine inverso dal suo. Egli è passato dalla morte alla risurrezione, noi, invece, cominciamo dalla risurrezione, ossia della vita nuova in Cristo, e in secondo momento confermiamo e dilatiamo questa vita nuova partecipando alla sua morte. Risorgiamo con il Signore perché, grazie all'azione dello Spirito, possediamo la sua carità. La carità ci induce a dare morte a noi stessi. Il camminare nella carità è un fatto pasquale.
Vediamo ora un altro elemento essenziale. Gesù è la vita eterna. Chi si trova in Lui si trova nella vita eterna. Se il cristiano viene inserito in Cristo, egli non è più una persona che appartiene esclusivamente a questo mondo. Anzi la dimensione della vita sulla terra non è la più importante e neppure quella definitiva. Noi siamo con Cristo in Dio (Col 3,3). Secondo la sola apparenza, siamo uomini della terra come tutti. Tuttavia noi possediamo un segreto in quanto godiamo di una vita che non è percepibile all'esterno. La nostra vera vita sta proprio nell'essere con Cristo in Dio.
«L'espressione vita eterna non significa come pensa forse immediatamente il lettore moderno - la vita che viene dopo la morte, mentre la vita attuale è appunto passeggera e non una vita eterna. "Vita eterna" significa la vita stessa, la vita vera, che può essere vissuta anche nel tempo e che poi non viene più contestata dalla morte fisica. È ciò che interessa: abbracciare già fin d'ora la vita, la vita vera, che non può più essere distrutta da niente e da nessuno… "Io vivo e voi vivrete", dice Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena (Gv 14,19), mostrando con ciò ancora una volta che per il discepolo di Gesù è caratterizzante che egli vive - che egli quindi, al di là del semplice esistere, ha trovato ed abbracciato la vera vita, della quale tutti sono in ricerca» (Ratzinger 97-98).
Il mistero di Dio coinvolge la Chiesa. Se Cristo è il mistero di Dio, essa vive in Cristo e partecipa così al suo essere mistero; lo vede attuarsi in sé. Non sta soltanto dirimpetto a lui, oggetto del suo amore ma in modo puramente passivo e disgiunto. La Chiesa «forma con Cristo un corpo solo e un solo uomo nuovo, allora davvero partecipa a pieno titolo alla mistericità di Cristo stesso» (Penna 71). La Chiesa è in Cristo e Cristo è in essa. Il fatto che Egli sia in noi permette di scoprire una nostra dimensione interiore. L’essere in noi di Cristo «connota sempre l’idea di una profonda presenza di Gesù Cristo nell’intimo dei soggetti designati» (Penna 80).
L’insieme di coloro nei quali Cristo è singolarmente presente forma una comunione. Diventiamo una sola realtà e in tale comunione Egli è presente ed agisce. Tutto comincia sempre da Gesù. Nella sua vita terrena è lui che chiamava i discepoli e li creava tali. Da Risorto continua a chiamare, come fa con Paolo. L'inizio della vita di fede, vita in Cristo, dipende da Gesù e dalla sua chiamata. Cristo, tuttavia, agisce per mezzo di ministri e mediante dei gesti concreti che spiegano il significato della sua azione. Nella sua vita terrena li compiva lui stesso; ora, da Risorto, agisce nella chiesa e con la chiesa. Se allora agiva con la sua presenza fisica, ora agisce in modo invisibile mediante i segni operati dalla Chiesa. La vita in Cristo inizia grazie a queste esperienze di fede.
Quest’ultime sono state denominate misteri dai Padri della Chiesa, in un contesto culturale in cui erano presenti i misteri pagani. In questo modo potevano da una parte trovarsi in sintonia con i valori questa cultura e dall’altra anche contrapporsi ad essa per gli aspetti più critici. Cercarono di recuperare e trasferire nell’ambito della fede cristiana le motivazioni che li rendeva così attraenti.
Il valore della categoria di mistero stava nell'aver percepito la necessità di un trascendimento, - certo non del rifiuto -, della sfera morale o dell'apparato dottrinale, a favore di un contatto diretto con la sfera divina, e, quindi, nell'aver aspirato alla possibilità di incontrare dal vivo una divinità e di partecipare alla sua sorte. Il fascino esercitato dalla celebrazione misterica stava nel fatto che essa garantiva una relazione personale e permanente con la divinità. Il miste veniva accolto personalmente dalla divinità e poteva rivivere la sua vicenda divina. La salvezza promessa riguardava l’attuale esistenza terrena, ma toccava anche quella ultraterrena, garantendo l’immortalità.
Ora la fede si fonda sul fatto che Gesù non è solo una grande personalità religiosa della storia, un grande maestro spirituale ma un mistero, un evento divino eterno che apre ad ogni credente la prospettiva di una gnosi, di una sapienza integrale che è deificazione.
Il processo di deificazione o di conformazione a Cristo prende avvio e acquista un consolidamento dalla partecipazione ai misteri o sacramenti. Non possiamo salire fino a Dio, se Egli non scende ad incontrarci. Nel nostro cammino Dio ci precede sempre e ci accompagna. La purificazione e la somiglianza con Lui, prima ci vengono offerte come possibilità. Solo dopo aver accolto il dono, può in iniziare il nostro impegno di collaborazione. Osserva giustamente O. Casel: «Tutta la mistica cristiana si fonda sull’azione salvifica di Cristo che si effettua nella liturgia e da questa trae il suo contenuto e la sua forza. Non è certo lo spirito dell’uomo, che può innalzare l’anima all’altezza di Dio, ma solo il sacro Spirito divino, che non è altro che lo spirito di Cristo». 

Ascoltare

Cristo comincia a formarsi in noi per mezzo dell’ascolto della sua parola. Ogni annuncio quindi è un evento iniziatico o mistico in questo senso: chi riceve l’annuncio è chiamato da Dio e illuminato da Lui. Nell’annuncio, il Signore fa conoscere se stesso e rende partecipe di sé. Sarebbe errato pensare che la fede comunichi solamente conoscenze, verità, formule e nozioni perché, grazie ad essa, entriamo in relazione diretta con Dio Padre: cominciamo a vivere con Cristo, nello Spirito Santo.
La sua presenza nel mondo continua in ogni epoca e nella predicazione della Chiesa, percepiamo il suo messaggio e il suo invito. Il Signore risorto accompagna gli evangelizzatori e rende efficace la sua parola:
«Dio, per mezzo dei suoi predicatori, cammina localmente nelle diverse parti del mondo. Venendo a noi con la grazia, si nasconde nelle anime dei suoi predicatori. Quando Paolo, avvinto in catene, si recava a Roma, Dio camminava nascosto nel suo cuore come sotto una tenda, poiché essendo nascosto non poteva essere visto e, rivelato mediante la parola della predicazione, conduceva a termine, senza sosta, il cammino della grazia che aveva iniziato» (Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 19).
Lo sperimentò a Filippi, Lidia, una commerciante intraprendente: mentre ascoltava le parole di Paolo, il Signore stesso le aprì il cuore per poter accogliere il messaggio (At 16,14). Credendo al messaggio dell’evangelizzatore, accolse Cristo dentro di sé. Lidia riceve lo stesso dono che era stato elargito ai discepoli il giorno stesso di Pasqua, nel loro primo incontro con il Risorto. Nell’ascoltare il Signore apparso a loro, la loro mente si aprì alla comprensione dei fatti vissuti. Soltanto allora aderirono in verità del Vangelo. Il loro cuore ardeva.
Pietro, a Pentecoste, parlò ai giudei riuniti e le sue parole trafissero il loro cuore (At 2,37). La comunità cristiana è formata da persone il cui solo merito è quello di aver ricevuto questa trafittura del cuore. Il Padre li attira a Gesù; il Risorto li convince.
«Se non sopravviene la grazia in aiuto, la dottrina, infusa attraverso le orecchie, non discende mai fino al cuore. Quando la grazia di Dio stimola la mente, dall’interno, affinché capisca, [allora] la parola di Dio, infusa attraverso le orecchie, arriva agli ultimi recessi del cuore» (Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, X, 1).
Si forma così la comunità degli uomini che ascoltano la voce del Pastore (Gv 10,3-4) e per questo appartengono al nuovo gregge. Non hanno meriti da vantare; anzi, per prima cosa, devono, come Pietro, piangere a dirotto sul loro passato (Lc 22,62) ed essere nel contempo colmi di gioia per la grazia ricevuta (Lc 19,6). La predicazione crea il credente. Essa non è vana parola ma azione di Dio (1 Ts 2,13).
La predicazione rende attuale l’evento che essa annuncia. Commentando il passo di Giovanni nel quale si racconta come Cristo abbia interrogato Pietro, Agostino così avverte i suoi ascoltatori.
«Credete che il Signore non interroghi anche noi? Quando si fa quella lettura, ogni cristiano viene interrogato nel suo cuore. Quando, dunque, senti il Signore che dice: "Pietro, mi ami?", considera quelle parole come uno specchio e guarda la tua immagine. Pietro rappresentava una figura della Chiesa. Quando il Signore interrogava Pietro, interrogava la Chiesa».
Secondo Massimo di Torino, ciò che Cristo compì, non lo operò soltanto per quelli che aveva davanti a sé allora, ma anche per noi che saremmo venuti dopo, ed aggiunge, con una formula audace, «noi vediamo ora ciò che è stato fatto un tempo, è cosa che abbiamo visto chiaramente e che vediamo ogni giorno»[1].
«Lo stesso Verbo santo, che gli occhi beati degli apostoli hanno visto nella carne, hanno toccato con le mani, oggi è con noi, visibile nella lettera, palpabile nel sacramento. Se poi la carne è sparita, la lettera è rimasta. Ci è stato concesso benignamente … il santo Vangelo, di modo che il testo del santo Vangelo fosse come il corpo attuale che rende visibile il Verbo» [2].
Così puntualizza Isacco della Stella.
L’annuncio della Parola garantiva la perennità e l’attualità della storia della salvezza ma la predicazione però non esauriva tutto l’ambito d’evangelizzazione della Chiesa. Un problema dei partecipanti era quello di non dimenticare il messaggio ricevuto e da qui nasceva la necessità della meditazione. Il meditare era concepito come il semplice ricordarsi gli insegnamenti ricevuti, applicandoli nelle azioni della vita. Meditare, più che un riflettere è tenere vivo nell’animo ed applicare nell’esistenza l’insegnamento ricevuto:
«Auspichiamo che, dopo aver ascoltato queste cose, vi applichiate non solo ad ascoltare in chiesa le parole di Dio, ma anche a metterle in pratica nelle vostre case e a meditare giorno e notte la Legge del Signore; là c’è il Cristo e ovunque è presente a chi lo cerca» [3].
Massimo di Torino esorta a leggere i testi biblici anche in privato: «Tutto il giorno preghiamo o leggiamo assiduamente i testi sacri. Chi non sa leggere, rivolgendosi ad un uomo santo tragga alimento dalla sua conversazione» [4].
Cesario d’Arles, a sua volta, esige dai fedeli una lettura prolungata.
«Con sollecitudine paterna vi prego e vi esorto e vi scongiuro, come già s'è detto, di impegnarvi o a leggere sempre personalmente la Scrittura divina, o ad ascoltare volentieri altri che la leggano, cosicché, meditando ininterrottamente nello scrigno del vostro cuore ciò che è giusto e santo, vi procuriate il cibo spirituale che gioverà per sempre alle vostre anime nell'eterna beatitudine» [5].
La spiritualità del primo millennio si sviluppa dalla lettura frequente del testo biblico. Come avveniva questa pratica? I Padri consideravano sufficiente leggere; soprattutto un leggere prolungato che s’affissa alla memoria. L’atto del leggere non era ben distinto dal meditare, in quanto per meditazione s’intendeva una lettura prolungata ed attenta, condotta in spirito di preghiera: «Supplicando il Signore, dal quale viene ogni grazia, leggete – vi prego – continuamente, ritornate diligentemente sul suo testo. L’assidua ed attenta meditazione è madre della conoscenza» [6].
Questa lettura sacra, che si chiamò lectio divina, che ha un aspetto più profondo e più religioso del semplice leggere. La lectio è un dialogo con Dio. «Chi vuole stare sempre con Dio, deve pregare sovente e sovente anche leggere; infatti, quando preghiamo, siamo noi a parlare con Dio, quando invece leggiamo è Dio che parla con noi» [7]. Isidoro riprende qui una convinzione assai diffusa. Cesario afferma la medesima verità: «Considerate attentamente che colui che legge o ascolta di frequente la Scrittura divina parla con Dio» [8].
L’efficacia spirituale della lettura non dipende da noi, dalla sola preparazione culturale e da altre ingegnosità umane. Abbiamo visto come il Risorto apra la mente, accenda il cuore, lo ferisca. Nella predicazione della Chiesa e nella lettura dei testi biblici, che prosegue la predicazione, possono verificarsi questi segni dell’azione del Risorto. Allora la lectio raggiunge lo scopo per cui è fatta. La lettura nello Spirito, è diversa dallo studio scientifico. La meditazione implica la lettura ma questa deve essere compiuta nell’intento di cercare Dio, di ottenere la conversione.
La spiritualità possiede un carattere pratico. Ciò che si comprende spinge ad una nuova prassi e lo stile di vita che sgorga da questo essere rende capaci di comprendere in modo sempre più profondo. Una spiritualità che esula dall'agire non è tale, è solo una parvenza. Gregorio Magno osserva come gli occhi dei discepoli ad Emmaus s’aprirono e il loro cuore divenne ardente, quando invitarono il viandante a cena. Il loro invito fu un’azione pratica d’ amore.
«Ascoltando i precetti di Dio, non furono illuminati, compiendoli, invece, furono illuminati. Se vuoi capire le cose ascoltate, affettati a mettere in pratica quelle che hai già compreso (Audiendo ergo praecepta Dei illuminati non sunt, facendo illuminati sunt… Quisquis ergo vult audita intelligere, festinet ea quae jam intelligere potuti opere implere» (XXIII, 2 D 1183)». (Cf. Omelie sui Vangeli 23,2).
La lettura sacra ha senso soltanto perché si spera nell’azione dello Spirito. La trafittura del cuore non avviene necessariamente come un evento improvviso e travolgente. Il Signore ci rischiara, ci infervora in modo graduale. Tutto dipende dalla sincerità della nostra risposta.


«L' orecchio mi hai aperto...» (Sal 40)

Celebrare

Gesù non è solo un uomo del passato ma un Vivente, è Spirito o potenza di Dio tra di noi e in noi. Il Vangelo non consiste, in primo luogo, nel possedere una dottrina etica eccellente e neppure godere di mezzi di grazia, ma è essere una cosa sola col Cristo, il Vivente, rendersi disponibili all’azione continua con cui egli forma se stesso in noi, e così trasferire in noi la sua stessa esperienza. Osserva O. Casel: «non è che il Signore abbia salvato il mondo e poi lo abbia abbandonato a se stesso, guidando al massimo la chiesa dal cielo attraverso i suoi rappresentanti che poi avrebbero distribuito la grazia per suo conto e sotto la sua autorità. No, il Kyrios è, come egli stesso ha predetto, sempre immediatamente presente ed efficace nella sua comunità, «essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb 7, 25)» [9].
Ho parlato del valore sacramentale dell’annuncio e dell’ascolto. Non esiste, però, soltanto il sacramento della Parola. L’accoglienza del messaggio ci porta ad aprirci al Signore che agisce con altri segni ancora più efficaci. Ciò che viene come prima esperienza (dialoghi, catechesi) è solo preparazione. Il credente rinasce col Battesimo e assimila Cristo mediante l’Eucaristia. «Chi non ha ricevuto l’esistenza [battesimale] animata da Dio, non può conoscere nessuna delle verità trasmesse da Lui e non può a sua volta metterle in atto» [10]. Dall’altra parte, la partecipazione ai sacramenti presuppone la fede. L’ascolto della Parola, il pentimento, la disponibilità vera a seguire il Signore.
La purificazione e la somiglianza con Lui, caratteristiche essenziali per una vita spirituale, prima ci sono offerte come possibilità e doni gratuiti. Dio ci precede, ci accompagna nel nostro cammino e ci attira a sé come nostra meta. Non possiamo salire fino a Dio, se Egli non scende ad incontrarci. Solo dopo aver accolto tale offerta, può in iniziare il nostro impegno a titolo di collaborazione. Il processo di deificazione o di conformazione a Cristo, allora, prende avvio e acquista un consolidamento dalla partecipazione ai misteri o sacramenti.
Vediamo ora come venivano comprese le feste liturgiche. La festa cristiana presenta i caratteri d’una evocazione misterica: «Ritorna il mio Gesù e ritorna il mistero… un mistero efficace. Non un mistero di quelli ispirati dagli errori dei greci e dalla loro ebbrezza; […] no, un mistero sublime e divino e che concorda con lo splendore superno»[11].
Il mistero del Signore, rimanendo sempre vivo ed attuale, è offerto ad ogni credente perché possa parteciparvi: «Per l’uomo è stata data ogni parola e istituito ogni mistero…»[12]. «Tu devi passare attraverso tutte le varie età e i vari miracoli di Cristo…»[13]. «Quante feste avrei per santificare ognuno dei misteri di Cristo! Ma in tutti il punto fondamentale è la mia perfezione»[14].
Il Signore, dunque, vuole includere la Chiesa intera, di ogni tempo e luogo, in ciò che egli è e in ciò che ha vissuto ed essa ha ricevuto la possibilità di partecipare al grande evento della salvezza attuato da Gesù.
Agostino per spiegare la relazione tra evento storico, ormai compiuto, e la sua contemporaneità per i credenti d’ogni tempo stabilisce una distinzione tra veritas e sollemnitas. La verità narra che cosa è avvenuto e come è avvenuto; la solennità, invece, non compiendole per la prima volta, ma celebrandole, «non lascia che passino cose già passate»[15]. Se la verità ci fa sapere che la Pasqua è già accaduta in un tempo specifico e una volta per tutte, parlando secondo la solennità, si afferma che la Pasqua viene ogni anno.
Un’altra caratteristica rilevante della visuale dei Padri riguardo al culto è la tendenza a gettare uno sguardo unitario alle diverse celebrazioni festive.
Agostino concentra il senso di tutte le feste cristiane in un unico atto commemorativo, quello dell’incontro nuziale di Cristo con la sua Chiesa: «ogni celebrazione liturgica è, infatti, una festa nuziale; la festa delle nozze della Chiesa […] Coloro che nella Chiesa assistono alle celebrazioni liturgiche, se vi partecipano bene, diventano la sua sposa»[16]. Al di là dell’annunzio specifico delle singole festività, permane un unico riferimento costante: la comunità ricorda e riceve l’amore sponsale del Signore che si dona nuovamente ad essa, per santificarla e renderla una sposa splendente e immacolata.
Alle nozze di Cana, cambiando l’acqua in vino, Gesù «inaugurò i sacramenti della Chiesa». Siamo posti così di fronte ad un archetipo. Sebbene questo miracolo fosse commemorato all’Epifania, la circostanza è sfruttata per dare uno sguardo unitario all’opera della salvezza, rievocata nella varie festività che in quel tempo si stavano costituendo: «… il Signore istituì il mistero del lavacro e insieme trasformò il genere umano da acqua vile in sostanza eterna, immettendo il sapore della divinità»[17].«Da questo miracolo è contenuto per intero il mistero della risurrezione», infatti, la trasformazione dell’acqua in vino «sta a significare, che la sostanza dell’uomo deve essere mutata nella gloria della risurrezione»[18].
Nella teologia dei Padri il punto di riferimento centrale della fede è il mistero della Pasqua. Ogni azione compiuta da Cristo dà luogo ad un mistero ma quello centrale è la Pasqua.
“Questa è la Pasqua del Signore […] Questa è, per noi, la festa di tutte le feste, la celebrazione di tutte le celebrazioni, al di sopra, tanto quale il sole lo è rispetto alle stelle”[19].
In modo analogo si esprime s. Leone: “Fra tutti i giorni che la devozione cristiana celebra con onore in molti modi, nessuno è più importante della festa di Pasqua, dalla quale tutte le altre festività della Chiesa di Dio attingono la loro sacra solennità. Lo stesso Natale del Signore è legato al mistero pasquale”[20]. Nella Pasqua, infatti, con il corpo preso dalla Vergine, Gesù diventa redenzione e principio di risurrezione. Come si vede, evita di isolare un mistero dall'altro o di svincolarli dal loro sviluppo culminante che corrisponde al compimento pasquale.
Le feste liturgiche celebrano il farsi del mistero di Cristo nella Chiesa lungo la storia. Manca il concetto di un anno liturgico parallelo a quello civile (esiste piuttosto il concetto di ciclo liturgico), ma in ogni festività, lungo il trascorrere dell'unico tempo storico, la comunità si unisce al Signore per partecipare alla sua gloria, attuando nella vita la carità manifestata sulla croce. Tutti gli eventi della vita del Signore, annunciati nella varie feste liturgiche, sono atti in cui Egli non fa altro che preannunziare quanto compirà nella Pasqua e in tutti questi episodi egli comincia a mostrare quella carità efficace che manifesterà in pienezza sulla croce. In questo modo il cristiano vive un unico mistero, quello del Signore, glorioso per la forza del suo amore, nell'unico tempo della storia, divenuto ormai, storia di salvezza.

Un modo di pensare analogo si riscontra anche nella riflessione sui sacramenti: anch'essi rinviano ad un fatto storico archetipale che intende rinnovarsi, ossia la Pasqua del Signore.
Cirillo di Gerusalemme, seguendo le orme di s. Paolo, spiega ai neobattezzati che l'immersione nell'acqua battesimale, è imitazione di quanto è accaduto a Gesù: l'immersione richiama un seppellimento. Il riferimento essenziale è costituito dalla morte e sepoltura del Signore. Il battezzato, imitando nel rito quei fatti, ottiene la realtà di salvezza comunicatagli dal Signore che lo unisce a sé[21].
In modo analogo, per Gregorio di Nissa, «la triplice immersione nell'acqua» battesimale riproduce fedelmente «la grazia della risurrezione dopo i tre giorni»[22]. Si tratta di accogliere in se stessi quanto è stato vissuta da Gesù.
Il culto, particolarmente l’Eucaristia, rappresenta la modalità massima della presenza del Signore, l’irruzione del Regno e del mistero di Dio. Esso si colloca, allora, come la sorgente della vita cristiana, fino al suo sviluppo nell’unione mistica. Una dichiarazione di Clemente, evoca questo nucleo essenziale dell'esperienza cristiana: «Il Salvatore... spezzò il pane e lo porse. Questo perché noi mangiassimo con atteggiamento razionale e governassimo la nostra vita secondo obbedienza con la conoscenza delle Scritture»[23]. Gesù consegna se stesso nell'Eucaristia per trasferirsi nella nostra vita grazie all'attuazione della sua parola. Sacramento, Scrittura e vita, le tre modalità in cui si attua il mistero, concorrono nel realizzare lo stesso evento.

I Padri fondano la vita cristiana sui sacramenti. Normalmente, però, non danno risalto agli aspetti più soggettivi, ossia ai fenomeni di carattere mistico che si verificano nei singoli, ma preferiscono ribadire una relazione più generale tra ricezione dei sacramenti e maturazione del credente.
Talora, tuttavia, aprono uno spiraglio e parlano di fenomeni particolari vissuti dal cristiano maturo e li pongono come una manifestazione del conseguimento della potenza insita virtualmente nei sacramenti. Vediamo quanto attesta Pseudo-Macario: «Coloro che sono fatti degni di diventare figli di Dio ed hanno in sé risplendente Cristo, sono diretti dallo Spirito in modi svariati e differenti, e riscaldati nel segreto del cuore». Dopo quest’affermazione generale che pone in conessione la maturità cristiana con lo sviluppo della vita di grazia [battesimale], Macario prosegue illustrando alcuni fenomeni:
«Talvolta quelli si allietano ed esultano come ad un banchetto regale, di un’esultanza indicibile e ineffabile […] altra volta sono presi da pianto e da gemito nel supplicare per la salvezza degli uomini […] Talvolta sono accesi dallo Spirito a tanta carità da abbracciare con la propria misericordia ogni uomo…» [24].
L’apparizione d’eventi mistici è posta in correlazione con lo sviluppo della santificazione battesimale. Chi ha Cristo risplendente in sé, grazie al suo comportamento, può usufruire delle manifestazioni particolari dello Spirito. Il processo di santificazione, con tutte le sue conseguenze, dipende dalla grazia sacramentale. Battesimo ed Eucaristia deificano il credente fino a renderlo partecipe dell’ebbrezza dello Spirito.
L’ebbrezza indica tutto ciò che trascende il sentire comune dei fedeli. Il vino eucaristico procura questo tipo d’ebbrezza. Commentando il versetto del Cantico dei Cantici che dice: «Mangiate e bevete, amici miei! Inebriatevi fratelli miei!», così Gregorio di Nissa precisa:
Chi comprende bene le mistiche parole del Vangelo, non noterà alcuna differenza tra le frasi pronunciate qui [nel Cantico] e la mistagogia offerta là ai discepoli [nel Vangelo]. In questo e in quel passo (Mt 26, 26-27), in modo identico, il Verbo ordina di mangiare e bere. Quello che qui era suggerito agli amici, ora avviene realmente, poiché ogni ebbrezza suole operare un’estasi della mente negli uomini che sono in preda al vino.
 
Ciò che è raccomandato in questo versetto, avvenne allora mediante l’offerta di un cibo e di una bevanda divini ma accade anche adesso di continuo, poiché si verifica un cambiamento, un’estasi, da un comportamento peggiore ad uno migliore, grazie al cibo e alla bevanda.
Quest’ebbrezza deriva dal vino offerto dal Signore ai convitati e attraverso di essa avviene l’estasi dell’anima verso le realtà divine [25].
Gregorio allude agli effetti sacramentali dell'Eucaristia. Commenta J. Danielou: «La vita spirituale è rappresentata come immersa nella vita sacramentale che l'alimenta.... La vita sacramentale è concepita veramente come una “mistagogia”, come una iniziazione progressiva che conduce l'anima fino alle sommità della vita mistica, fino alla “sobria ebbrezza”» [26].
L’Eucarestia conduce, quindi, ad un comportamento nuovo, ad una certa estasi, ossia rende possibile un comportamento evangelico ed apre all’ineffabile della comunione con Dio.
Potremmo dire: Battesimo ed Eucaristia attuano la deificazione e, una volta che questa sia stata conseguita, la vita del credente si arricchisce di una molteplicità di carismi e di doni particolari dello Spirito fino a consentirgli di guadagnare l’unione ineffabile con Dio. Pseudo-Dionigi, con il suo solito stile lambiccato, attesta che la partecipazione all’Eucaristia comunica ciò che era lo stesso scopo dell’incarnazione, ossia la deificazione dell’uomo [27].
La connessione tra partecipazione ai sacramenti e processo di deificazione non sarà mai abbandonata, anzi verrà affermata con sempre maggior solidità. Il teologo bizantino N. Cabasilas riprende il tema dell’uscità da se stessi come immagine per parlare dello sviluppo della carità, facendolo dipendere dal battesimo. Seguiamo la sua esposizione. La vita nuova infusa dai sacramenti è un’anticipazione della vita eterna e del mondo futuro. La possiamo intravedere in parte grazie alle opere buone compiute dagli iniziati. Soprattutto è percepibile nella virtù soprannaturale (yperphyes arete), ossia nel dispiagamento di un’energia morale superiore alle capacità umane. Questa si manifesta in primo luogo nel martire. I martiri dimostrano una capacità sorprendente d’amore: sopportano le loro sofferenze fino al punto da desiderarle. Tuttavia, continua Cabasilas, si può amare soltanto ciò che si è conosciuto o visto. I santi, duunque, in qualche modo hanno visto il Signore o hanno avuto una certa percezione di Lui. «Coloro cui fu dato tale ardore da essere tratti fuori della propria natura e indotti a desiderare e a poter compiere opere maggiori di quelle che gli uomini possono concepire furono feriti direttamente dallo sposo, fu lui ad infondere un raggio della sua bellezza nei loro occhi» [28]. Il battesimo introduce nel cristiano una forza che lo trae fuori di sé (ekstenai). È il Cristo stesso ad infondere quest’ardore, facendo innamorare di sé. C’è un legame profondo, allora, tra il battesimo e lo sviluppo d’amore successivo. In conclusione le esperienze mistiche sono radicate nella pratica sacramentale.
Non sorprende allora, al culmine della tradizione bizantina, la dichiarazione di Callisto Xanthopoulo, dal momento che essa intende sintetizzare una convinzione antica e tradizionale:
Non vi è nulla che cooperi e contribuisca in noi alla purificazione dell'anima, all'illuminazione dell'intelletto, alla santità del corpo, alla divina trasformazione di entrambi - anima e corpo - all'immortalità e, certo, alla rimozione delle passioni e dei demoni, o piuttosto, per dirla più propriamente, all'unione con Dio, alla divina e soprannaturale congiunzione e fusione con Dio, quanto il ricevere di frequente e il comunicare - con cuore intimamente sincero, per quanto possibile all'uomo - ai santi, immacolati, immortali e vivificanti Misteri, cioè allo stesso prezioso corpo e sangue del Signore, Dio e Salvatore nostro Gesù [29].
Come appare chiaro da questo testo, l’Eucaristia, anzi la sua frequente assunzione è indicata come mezzo per conseguire l’unione mistica con Dio.
Nell’ambito occidentale, un mistico carmelitano, Corrado di San Giorgio (m. 1316 o 1317), elabora diverse figure bibliche per mostrare l’importanza dell’Eucaristia per la formazione di una vita spirituale: l'agnello pasquale che redime coloro che «sono imprigionati nell'ombra della morte»; la manna nel deserto; il pane mangiato nel pellegrinaggio spirituale di Elia al monte Oreb; il tesoro nascosto nel campo (cf Mt 13,44) che colma di ricchezza i mendicanti oppressi dalla miseria [30].
Giovanni di Ruysbroek, nella sua opera L’Ornamento delle nozze spirituali, conferma un dato tradizionale. Cristo «nel sacramento dell'altare ci fa partecipi della sua sublime personalità in una luce incomprensibile. Attraverso questa noi siamo uniti al Padre e rapiti in lui; ed il Padre, nello stesso tempo che riceve il Figlio suo secondo natura, riceve anche i suoi figli d'adozione, ed arriviamo così fino alla divinità, che è nostra eredità per l'eterna beatitudine. La nostra natura riceve la natura stessa del Cristo, cioè la sua umanità glorificata, traboccante di gioia e di nobiltà» [31].
In conclusione l’Eucarestia è sorgente di vita conformazione a Cristo. È un sacramento basilare per creare la vita cristiana


Agire

Abbiamo visto che un carattere essenziale della spiritualità cristiana consiste nella nostra partecipazione alla Pasqua del Signore. Coinvolti nella sua risurrezione, possiamo dare morte a noi stessi nel nostro egoismo.
La Pasqua costringe a cambiare in profondità la nostra idea di Dio e la nostra idea del prossimo.
Un testo biblico in cui appare in evidenza questa vera rivoluzione mentale è il Cantico riportata nella lettera ai Filippesi. Secondo il teologo Paolo Ricca: «Non c'è nessun testo del Nuovo o dell'Antico Testamento in cui l'idea di Dio sia stata sottoposta a un ripensamento così radicale».
Che cosa annuncia quest'inno nella sua essenza? «Dio si svuota della sua divinità! Non per perderla, ma per rivestirla di umanità. Il cristiano crede in un Dio che per un tempo si spoglia della sua divinità, che - se è possibile un simile paradosso - è Dio senza esserlo, un Dio svuotato di divinità e ripieno di umanità, un Dio che è Dio in una «forma» che non ha nulla di divino, un Dio che può essere scambiato per un non-Dio. Il sostantivo è «schiavo» (in greco doulos)».
Seguiamo ancora le indicazioni del Ricca. In questo paragrafo egli cerca di concretizzare in una serie di esemplificazioni lo svuotamento enunciato:
«Che cosa significa veramente essere Dio? Significa essere il primo? Sì, ma anche essere l'ultimo. Significa essere Signore? Sì, ma anche essere schiavo. Significa essere l'Altissimo? Sì, ma anche il Bassissimo. Significa essere esaltato? Sì, ma anche abbassato. Significa essere adorato? Sì, ma anche flagellato. Significa essere divino? Sì, ma anche umano. Una vera rivoluzione! [...] Ecco qual è la rivoluzione di Dio e in Dio: è escalation verso il basso...».
La novità del Nuovo Testamento è questa: la discesa di Dio, la sua condivisione della situazione umana in tutti i suoi disagi, la sua assunzione di una vita da emarginato ed oppresso.
Quale conseguenze dobbiamo trarre da questa nuova immagine di Dio?
Paolo Ricca, dapprima evidenzia l’estensione di questo impegno d’amore di Dio, «Non c'è nessuna condizione umana, neanche la più infelice ed estrema, di cui si possa dire: «Qui Dio non c'è», «in questo inferno non c'è mai stato», «questa pena, questa umiliazione, questo annichilimento, Dio non sa che cosa sia». Sì che lo sa. Non c'è nessun inferno dal quale Dio sia stato o sia assente.
In seguito egli evidenzia come la testimonianza di questa solidarietà radicale debba modificare profondamente il comportamento del cristiano:
«Se vuoi incontrare Dio, ti conviene scendere piuttosto che salire, hai più probabilità di incontrarlo in basso che in alto. Questo testo mi da le vertigini. Non so se sarò mai in grado di capirlo e soprattutto di viverlo. Non so se la mia fede, che cerca continuamente di salire, sia davvero un giorno capace di scendere. Non so se la rivoluzione di Dio e in Dio, la sua escalation verso il basso, abbia rivoluzionato a sufficienza la mia idea di Dio da consentirmi di seguirlo nella sua discesa agli inferi. Non lo so. So però che la libertà di Dio è quella rivelata da quest'inno: scendere abbastanza da raggiungerci, non nei livelli più alti della nostra umanità, ma in quelli più bassi, là dove nessuno di noi vorrebbe mai scendere».
Anche il concetto di spiritualità è rivoluzionato. Mentre cambia il nostro concetto di Dio, cambia anche il nostro rapporto con gli uomini. Essa è ascesa a Dio ma anche discesa amorevole verso l'uomo. Si sale verso Dio, quando si comincia a scendere per soccorrere. La vita cristiana autentica si presenta come un vero paradosso.
Nella Chiesa primitiva, si è compreso come l'immagine di Dio, quale emerge dal Vangelo, sia di una novità assoluta.
Dio è misericordioso e solidale. Già l'Antico Testamento attestava questo suo atteggiamento nei confronti con l'uomo, ma Egli rimaneva come al di fuori dalla nostra storia. Gesù mostra che Dio non soltanto conosce dall'esterno ma dall'interno. C'è una enorme differenza tra il sapere e lo sperimentare.
Un passo della lettera a Diogneto sviluppa proprio la sorpresa della solidarietà di Dio:
Chi fra tutti gli uomini sapeva perfettamente che cosa è Dio, prima che egli venisse? Nessun uomo lo vide e lo conobbe, ma egli stesso si rivelò a noi. Avendo pensato un piano grande e ineffabile lo comunicò solo al Figlio. 10. Finché lo teneva nel mistero e custodiva il suo saggio volere, pareva che non si curasse e non pensasse a noi. Dopo che per mezzo del suo Figlio diletto rivelò e manifestò ciò che aveva stabilito sin dall’inizio, ci concesse insieme ogni cosa, cioè di partecipare ai suoi benefici, di vederli e di comprenderli. Chi di noi se lo sarebbe aspettato? (8,1)
In un'omelia pasquale, Gregorio di Nissa presenta un Dio che è simile a chi si getta nella corrente per salvare un altro uomo che rischia l'annegamento, sopportando tutti i disagi dell'immersione:
«... [Cristo] non differì la grazia a favore dell'uomo, né rinviò il piano di salvezza, ma come quelli che vedono un uomo debole essere trascinato da un torrente, che, pur sapendo che essi stessi possono essere avviluppati dal fango ed essere colpiti dalle pietre trascinate dall'acqua, tuttavia per la compassione che provano per colui che è in pericolo non esitano a gettarsi nella corrente, così anche il nostro Salvatore, pieno d'amore per gli uomini, accettò volontariamente oltraggi e umiliazioni per salvare colui che si era perduto» (Omelia sulla santa Pasqua, 3).
Agostino, affermando lo stesso concetto di solidarietà divina, usa l’immagine della strada. Cristo scende presso di noi, si propone di diventare compagno nel nostro cammino, anzi perfino accetta di farsi strada affinché possiamo raggiungere il nostro fine che è ancora Lui stesso.
Non sapevamo per quale via raggiungerlo e allora lo stesso Abitante di quella città si è fatto via (cf. Gv 14,6). Non sapevamo dove passare. Lui per primo è disceso, lui che là è il primo; è disceso per cercare i cittadini della Gerusalemme del cielo, perché noi ci eravamo perduti. È disceso a cercare i suoi cittadini ed è diventato nostro concittadino. Noi non conoscevamo quella città, non conoscevamo quella regione, [allora] Lui è sceso qui, in cerca dei suoi cittadini e si è fatto concittadino nostro, ma non ha acconsentito al peccato, lo ha preso su di sé. E sceso quaggiù. In che modo è disceso? Nella forma di servo. Il Dio uomo ha camminato in mezzo a noi. Per quale via ritorniamo? Ecco, mi stendo sotto di voi, divengo per voi via, sarò per voi il fine. Egli è la via. Ora camminiamo senza timore di smarrirci. (Agostino, Discorsi, 42, 1-2).
Il cambiamento dell’immagine di Dio si tramuta, allora, in una nuova istanza nei confronti del comportamento con gli altri uomini. La Pasqua di Cristo è testimonianza d'amore. Il Signore ci offre il meglio di sé avviandoci sulla strada della reciproca fedeltà ed accoglienza.
Commentando il Vangelo di Giovanni, nell’episodio dell’incontro tra Gesù e Pietro dopo la Pasqua, Agostino mette in risalto da una parte l’importanza della carità per qualificare l’identità del discepolo, dall’altra come questa consiste nell’assumere la cura che il Signore ha per le sue pecore:
Che cosa Pietro avrebbe potuto donare a Cristo nel suo amore per lui? Cristo Signore, volendo mostrare dove gli uomini devono manifestare il loro amore per lui, si identificò con le sue pecore e lo fece capire con sufficiente chiarezza. Mi ami? Pasci le mie pecore (Gv 21,15-17). Pietro non gli risponde nient'altro se non che l'amava; il Signore non gli chiede nient'altro, ma soltanto se lo ama. E quando quello risponde, non gli affida nient'altro se non le sue pecore. Amiamole e cosi ameremo Cristo ... Amando le pecore mostri di avere amore per il pastore, perché le pecore sono le membra del pastore.
Si dimostra l’amore per il Signore nel prenderci cura delle sue pecore. La vita cristiana ha un orientamento escatologico perché il cristiano è soprattutto un uomo celeste. Già da ora siamo risuscitati con Cristo. Questo significa che, essendo questo evento il nostro ultimo destino, già da ora possediamo ciò che riceveremo.

Tensione tra desiderio del cielo e amore per il mondo

Ci si può chiedere se nella spiritualità cristiana non si crei necessariamente una tensione insolubile tra il tra desiderio del cielo e l’amore per gli uomini; se la nostra vita in Cristo nella realtà celeste e l'interesse primario per quest’ultima, non venga a contrastare con il nostro impegno sulla terra.
Osserviamo la reazione di Paolo. Come pone in relazione il desiderio di vivere con Cristo con il suo gravoso impegno missionario? Ce ne rendiamo conto leggendo lo stralcio di una lettera inviata alla comunità cristiana di Filippi. In quel periodo egli era nella condizione di carcerato e nello scritto lascia intendere di essere in attesa di comparire in tribunale per l'udienza definitiva, nel corso della quale egli correva seriamente il rischio di subire una condanna alla pena capitale, venendo così a trovarsi in faccia alla morte. Qual'è la reazione dell'apostolo di fronte a tale prospettiva?
«Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede» (Fil ).
Forse ci sorprendente che egli avverta la morte come una prospettiva vantaggiosa, dal momento che, morendo, egli ha la possibilità di raggiungere Cristo. Ragionando in questo modo, l'apostolo rivela chiaramente quanto egli fosse identificato col Cristo. Come egli stesso dichiara apertamente, la sua vita ormai è Cristo. Tutto il mondo passa in seconda linea rispetto al grande vantaggio ritrovare la persona che è oggetto del suo amore.
Nello stesso contesto, tuttavia, Paolo si rende immediatamente disponibile a rinunciare a questo suo bene, se ciò risultasse vantaggioso per i Filippesi. Paolo dichiara di essere tiranneggiato da due esigenze contrarie ed ugualmente legittime: egli desidera incontrare Cristo nella beatitudine della vita eterna e contemporaneamente, con un desiderio di pari intensità, è ben disposto a rinunciare al suo vantaggio personale per essere utile ad altri. Prima ancora che siano le circostanze stesse a dire l'ultima parola, egli nel suo cuore ha già deciso in conformità alle esigenze della carità. Il cristiano Paolo, anche quando propende per la sua salvezza personale, alla fine si lascia determinare dalle esigenze della carità. La disponibilità a fare la volontà di Dio, qualunque essa sia, diventa il segno dell'autentica conoscenza di Lui. Chi possiede realmente la carità di Dio (l'agape) a tal punto da relativizzare il fatto stesso della morte (che diventa un atto di distacco supremo), è capace anche di rinunciare al suo vantaggio personale e al godimento di Dio per donarsi al prossimo. Paradossalmente soltanto chi è capace del totale distacco, si mostra capace di una piena immersione nel mondo. Paolo, rinunciando al suo vantaggio, non distrugge tuttavia la sua persona: mentre si dona interamente agli altri per il Cristo, si ritrova interamente in Lui. Ecco un altro paradosso: rinunciando a tutto, ritrova interamente se stesso per il fatto stesso di amare.
Il sentire di Paolo, nella sua duplice aspetto (desiderio di Dio e amore degli uomini) è stato condiviso anche da altri mistici o il suo è rimasto un caso isolato? Una breve indagine è sufficiente per rendersi conto che esso è stato largamente condiviso. Più ancora i mistici hanno amato questi passi della lettera paolina sentendosi come interpretati da essi, così che questo testo può essere preso come una sintesi della mistica cristiana e quasi un modello per discernere la sua autenticità.
Iniziamo l'indagine da Guglielmo di saint Thierry. Egli insegna che la comunione con Dio è l'unica vera sorgente di felicità per l'uomo ma la ricerca di felicità nella comunione con Dio non distrae affatto il cristiano dal suo impegno a favore della terra. A creare gioia è il fatto di amare; più precisamente ancora, di essere, per quanto possibile all'uomo, ciò che Dio è: amore disinteressato, fedeltà a tutta prova, accondiscendenza misericordiosa.
La contemplazione (o visione di Dio), avvertita come una forma anticipata della condizione futura, consiste nel vivere questa somiglianza di carità nella maniera più perfetta possibile. Il contemplativo, condotto da un sentimento d'amore totale, riesce ad intuire, a leggere sul volto di Dio i pensieri e i desideri che lo riguardano. Questo non significa che egli deve sviluppare delle considerazioni astratte ma discernere la propria missione. Contemplativo è, allora, colui che comprende con chiarezza il volere di Dio su di sé e che poi vi si conforma in totale fedeltà. «La trova dolce rivolgere sempre verso quel volto e, come su un libro di vita, leggervi le leggi della vita per sé, e comprenderle, illuminando la fede, consolidandola speranza e risvegliando la carità» .
Ciò che è possibile scrutare di Dio è la visione della sua volontà per noi, a favore del mondo e chi è divenuto perfetto nell'amore, osserva tutta la realtà creata con lo sguardo di accondiscendenza proprio di Dio. Aderendo a Dio senza riserve sotto ogni riguardo, la contemplazione «considera tutta la creazione che si trova al di sotto di Dio non diversamente da come Dio , disponendo e ordinando ogni cosa nella luce e nella virtù della sapienza».
Il fatto di gustare Dio fa sgorgare nell'amante il desiderio di partecipare all'amore che lo riempie di gioia stupita. L'anima sapiente, gustando solamente Dio, «spoglia l'uomo dell'uomo», ossia, mentre ammira l'amore di Dio, lo assimila e, di conseguenza, elimina da sé ogni traccia di meschinità che si oppone ad esso.
Se questo è il sentire di Guglielmo, non stupisce che egli, a sua volta, condivida e faccia sua la scelta già compiuta dall'apostolo Paolo. Questi, pur aspirando alla gioia della comunione con Dio, sceglieva di rimanere nella carne e di condividere le angustie delle sue comunità. «Anche se la vita di Paolo si svolgeva tutta nei cieli, egli non si negava ogni volta che era necessario stare accanto agli uomini sulla terra», osserva Guglielmo.
Il mistico cristiano, quando si estranea dal mondo e contempla Dio, avverte dentro di sé la necessità della carità che lo costringe a ritornare dai fratelli: «La carità nei confronti di Dio lo portava verso l'alto, mentre la carità per il prossimo lo spingeva verso il basso, come se fosse appeso per il collo». La crudezza dell'immagine contribuisce a far comprendere l'intensità con cui l'amico di Dio, mentre gode della comunione con lui, avverte anche il bisogno di donarsi agli altri.
Esponendo ciò che avviene nel cristiano quando è pervaso da un amore perfetto, Riccardo parla di quattro gradi della carità violenta. Vediamo che cosa egli attesta per quanto riguarda il quarto grado, quello proprio della maturità.
Il dinamismo della crescita nell'amore viene illustrato attraverso la metafora della sete. Agli inizi del cammino il principiante ha sete di Dio e desidera andare verso di lui. Nella maturità spirituale invece, ha sete secondo Dio. Che significa ciò? Questo atteggiamento interiore implica la rinuncia totale al proprio vantaggio e la disponibilità a porsi al servizio di Dio per collaborare al suo disegno. «Ha sete secondo Dio l'anima quando di sua volontà, non solo nei desideri carnali, ma anche in quelli spirituali, non lascia nulla alla sua libertà ma affida tutto a Dio, non pensando più a “quali sono i suoi vantaggi ma a quelli di Gesù Cristo».
Il grado massimo della comunione con Dio non si ha nel godimento di Lui, ma nel ricevere una forza creativa tale da poterlo imitare, divenire utili al prossimo ed effondere la vita ricevuta da lui. A questo livello, infatti, l'uomo ha sete secondo Dio.
Nel paragrafo successivo, Riccardo presenta lo stesso fatto con altri argomenti. L'uomo dapprima ritorna a se stesso (primo grado) per salire, poi, fino a Dio (secondo grado) ed immergersi nella gioia (terzo grado). In seguito, però, non vuole rimanere sempre nel godimento della comunione ma preferisce uscire da sé di nuovo. Questa volta (quarto grado), «esce a causa del prossimo», spinta dalla solidarietà (ex compassione).
Nel seguito dell'opera, Riccardo cerca di penetrare all'interno dell'evento già annunciato. Egli non solo mostra come l'agape rappresenti il momento culminante della maturazione cristiana ma spiega anche per quale motivo si passi dall'eros alla agape.
La spiegazione viene proposta attraverso un'immagine molto efficace. L'uomo viene paragonato ad un pezzo di ferro che deve perdere la durezza ed essere reso malleabile nelle mani di Dio. Il ferro ha bisogno di percorrere diverse fasi di trasformazione e di lavorazione: riscaldarsi, arroventarsi, liquefarsi. Ora, tutte le esperienze spirituali gratificanti, quali la scoperta dello splendore di Dio, la seduzione, la comunione con lui vissuta come un fidanzamento oppure la comunione estatica simboleggiata dall'unione nuziale, sono tutte modalità con Dio cerca di riscaldare e arroventare il cuore dell'uomo che, al principio appare rigido come un pezzo di ferro. Alla fine, però, esso si liquefa per assumere la forma, ossia la missione, assegnatagli da Dio. Questo avviene quando si raggiunge il terzo passaggio o grado dell'amore: «Come i fonditori, dopo aver liquefatto i metalli e preparato gli stampi, modellano come vogliono qualsiasi figura [...], così l'anima in questo stato si adatta facilmente a qualsiasi cenno della volontà divina, anzi, per un desiderio spontaneo, si dispone ad ogni sua decisione e piega ogni sua volontà all'approvazione di Dio».
Solo dopo aver vissuto questa liquefazione interiore, l'uomo diventa capace di assomigliare a Dio. Ogni grado mistico non è fine a se stesso ma prepara il trasferimento della stessa carità di Dio nel cuore dell'uomo. Il più alto livello di perfezione consiste sempre nel saper amare come Lui. Il santo è colui che si presenta come un altro Cristo; capace di condividere i suoi sentimenti, è disposto a vivere ciò che viene richiesto dall'amore.
Hanno raggiunto il culmine dell'amore e già si trovano al quarto grado della carità coloro che sono in grado di offrire la loro vita per gli amici e di portare a compimento quelle parole dell'Apostolo: «Siate gli imitatori di Dio come figli amatissimi e vivete nell'amore come anche Cristo vi ha amato e ha sacrificato se stesso per voi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave profumo».
A questo punto Riccardo fa riferimento anch'egli al dissidio vissuto da s. Paolo - stare con Cristo o rimanere nella carne per amore degli uomini? -; condivide interamente la scelta già compiuta dall'apostolo e ripensa con ammirazione a Mosé che rifiuta di essere accolto da Dio da solo mentre il popolo viene destinato alla rovina (Es. 32, 32)50.
In conclusione, i vantaggi cercati e goduti dall'eros spirituale sono necessari per accedere alla pienezza dell'agape. Ripensiamo all'immagine della liquefazione: ciò che conduce la persona umana allo scioglimento in Dio nella gioia piena dell'unione è anche la condizione che permette all'amante divino di scorrere facilmente verso il basso (facile ad inferiora currendo), nella piena disponibilità alla solidarietà più impegnativa.
La presenza concomitante del godimento supremo in Dio e della piena disponibilità al servizio per i fratelli compare anche in Teresa d'Avila. Questa mistica ha descritto il cammino spirituale come un percorso all'interno di un castello; passando attraverso sei stanze (o mansioni), si giunge fino a quella più interiore, la settima, dove si vive il matrimonio spirituale.
Che cosa avviene quando l'anima raggiunge tale condizione di sposa? In primo luogo, Teresa ritiene che Dio voglia manifestarle in anticipo qualcosa della beatitudine celeste e, di conseguenze, le consente di vivere un legame d'unione così intenso da diventare una cosa sola con lui.
Questo evento di comunione, lo considera in primo luogo come l'atto culminante della partecipazione alla morte e risurrezione del Signore: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (1, 21). «Altrettanto, mi pare, può ora dire l'anima, perché è qui dove la farfallina muore, e con estrema gioia, essendo ormai Cristo la sua vita».
Infatti, quando, dopo aver illustrato, si pone a mostrare gli effetti che derivano dallo stato di gioia profonda del matrimonio spirituale, emerge una solidarietà vivissima col prossimo e una disponibilità piena ad affrontare le contrarietà relative alla sua missione.
Teresa, senza citare l'esperienza di s. Paolo e senza neppure pensare ad essa, mostra di riviverla pienamente: il desiderio impellente di vedere Dio viene vinto dal desiderio di essere utile agli uomini rinunciando totalmente al suo vantaggio personale: «Ciò che più di tutto mi sorprende è questo. Voi avete visto i travagli e le afflizioni causati a queste anime dal desiderio di morire per andare a godere di nostro Signore. Adesso, invece, è così grande l'ansia che hanno di servirlo, di lodarlo e, se possono, di giovare a qualche anima, che non solo non si augurano di morire, ma desiderano di vivere lunghi anni, anche in mezzo a enormi travagli, nel tentativo di far sì che il Signore venga glorificato a causa del loro sacrificio, sia pure solo di poco [....]. La loro beatitudine consiste nel tentare di aiutare in qualche modo il nostro Dio crocifisso».
Osserva F.R. Wilhélm: “L'unione mistica con Cristo non si definisce unicamente con le delizie che l'accompagnano, ma anche con la comunione alle sofferenze del Redentore”.
In che modo avviene il movimento dal desiderio di soddisfacimento alla disponibilità piena al dono di sé, fino ad accettare la sofferenza che una missione può comportare? In altre parole che cosa accade nel cuore del mistico?
Francesco di Sales contribuisce a chiarire come avviene questo processo di scioglimento nella carità: «Non è possibile che ci piaccia qualcuno senza che, da parte nostra, desideriamo piacergli». Nella relazione amorosa sono compresenti un elemento di gratifica e uno di superamento di sé. Nel caso in cui la compiacenza venga riposta in Dio, la possibilità di auto trascendimento diventa inevitabile: «...la compiacenza ci trasforma in Dio che amiamo, e quanto sarà la sua dimensione, tanto più perfetta sarà la trasformazione». Quanto maggiore è l'appagamento ottenuto dalla comunione d’amore (eros), altrettanto si dilaterà la forza dell’amore di donazione (agape).



[1] Massimo di Torino, Sermoni, 102, 2, Op. cit., p. 398.
[2] Isacco della Stella, Sermoni/II, 9, 7 [p. 207]
[3] Origene, Omelie sul Levitico IX, 5, CTP 216-217.
[4] Massimo di Torino, Sermoni, 36, 4, CTP 159.
[5] Cesario d’Arles, Sermoni 8, 5.
[6] Cassiodoro, Istituzioni, Prefazione 6.
[7] Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, VIII, 2.
[8] Cesario d’Arles, Sermoni 8, 3.
[9] Cf. Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto cristiano, Messagero, Padova 2001, p. 53.
[10] PseudoDionigi l’Areopagita, La gerarchia ecclesiastica, II, Città Nuova, Roma 2002, p. 54.
[11] Gregorio di Nazianzo, Discorso 39, 2-3.
[12] Gregorio di Nazianzo, Discorso 39, 20.
[13] Gregorio di Nazianzo, Discorso 38, 18.
[14] Gregorio di Nazianzo, Discorso 38, 16.
[15] Agostino, Discorsi, 220, 1, NBA p. 303.
[16] Agostino, Omelie sulla prima lettera di Giovanni, 2, 2.
[17] Massimo di Torino, Sermoni liturgici, 65, 1.
[18] Massimo di Torino, Sermoni liturgici, 101, 3.
[19] Gregorio di Nazianzo, Discorsi, 45,2.
[20] Leone Magno, Sermoni, 48,1.
[21] Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogica II, 5.
[22] Gregorio di Nissa, La grande catechesi, XXXIV, 3-6.
[23] Stromati, I, 10

[24] Macario l’Egiziano, Parafrasi di Simeone Metafrasto, 89, in Filocalia 3, p. 313.
[25] Gregorio di Nissa, In Canticum Canticorum, X, 5,1 (Langerbeck pp. 308-309).
[26] Platonisme...., 28.
[27] Cf. La gerarchia ecclesiastica, III, 12-13, op. cit. 93-94.
[28] N. Cabasilas, La vita in Cristo, II, 77.
[29] Callisto Xanthopoulo, Metodo e canone per quelli che hanno scelto la vita esicasta, 91, in Filocalia 4, p. 272.
[30] Cf. H. Blommestijn, Il primo periodo della mistica del Carmelo, in Mistica e mistica carmelitana, Libreria editrice vatiacana, Città del Vaticano, 2002, 63-64. .
[31] G. di Ruysbroek, L’ornamento delle nozze spirituali, XLVIII, Utet, Torino 1988, 403.