mercoledì 26 dicembre 2012

J. Mouroux. Esperienza cristiana


L'ESPERIENZA CRISTIANA 
NELLA PRIMA EPISTOLA DI SAN GIOVANNI



Si può dire che il problema della I Joannis è il problema dell'esperienza cristiana. Il tema latente di tutta l'epistola è infatti quello della comunione dei cristiani con Dio, e coi loro fratelli, in Gesù Cristo. Comunione, dimora, possesso: tutti questi termini traducono il medesimo mistero: quello della vita etema, che è Dio stesso, che Dio comunica, e di cui, come cristiani, viviamo nel più profondo e nel più misterioso del nostro essere.
Quel che san Giovanni vuoi far comprendere è che di questa comunione noi dobbiamo — per quanto è possibile quaggiù — vivere in piena luce, fare l'esperienza, e dunque dobbiamo intenderla con quella conoscenza misteriosa che è l'atto della fede e dell'amore, e più profondamente ancora, il frutto dello Spirito che è la Verità. C'è dunque una « gnosi » giovannea, e per san Giovanni come per san Paolo, il cristiano perfetto non è più nelle tenebre, ma nella luce: egli sa! Sa di essere passato dalla morte alla vita. Conosce Dio e conosce l'amore. Sa di essere di Dio, di essere in Dio e che Dio è in lui, sa di essere nella verità e di possedere la vita eterna. E se riflette, sa di conoscere Dio.
Ma la posta di una tale « conoscenza » è tanto grave, questa « gnosi » è così lontana dalla visione, l'illusione è — a suo riguardo — tanto facile che san Giovanni moltiplica i criteri che debbono permettere di autenticarla e di viverne con sicurezza. Egli è cosi condotto a descrivere, nei suoi elementi essenziali, la struttura dell’esperienza cristiana; ed è questa intuizione profonda e i suoi mezzi di accesso, questo possesso misterioso e i suoi segni normativi, che dobbiamo vedere. È nota la difficoltà di un lavoro del genere, e si conoscono le oscurità celebri che l'esegeta incontra nel pensiero giovanneo. Tuttavia pensiamo che c'è in questo passo molta luce; e coll'aiuto dei buoni studi che esistono, cercheremo di esaminare rapidamente, nelle prossime pagine, la struttura complessa di quest'esperienza. Non ci limiteremo a seguire il piano dell'epistola. Difatti in questo testo così denso, e talvolta enigmatico, non bisogna forse cercare altro che quell'« ordine del cuore » di cui parlava Pascal, e che « consiste principalmente nella digressione su ogni punto che si riferisce al fine, per mostrarlo sempre ».


I - Le grandi linee dell'esperienza cristiana

« Quel che esisteva fin dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto coi nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e toccato colle nostre mani, concernente il Verbo di Vita — e la vita è apparsa, e noi abbiamo visto, e lo testimoniamo, e vi annunciamo la vita eterna, che esisteva presso il Padre e che ci è apparsa —, quel che abbiamo visto e udito, lo annunciamo anche a voi, affinchè voi pure abbiate comunione con noi. E la nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (I, 1-5). I cristiani ai quali si rivolge san Giovanni non hanno conosciuto Gesù. Essi non hanno altro mezzo normale di conoscerlo, che la testimonianza di colui che è vissuto con lui. Di qui la proclamazione solenne dell'apostolo, con cui ha inizio l'epistola: egli testimonia, per far partecipi alla sua esperienza personale di Cristo, del Figlio e del Padre e, attraverso ad essa, nella gioia piena, al mistero della vita eterna.
La sua esperienza è di tipo umano: è la sua anima col suo corpo, la sua intelligenza attraverso ai sensi che hanno colto Cristo, il Verbo di vita. Colui che è « apparso » (I, 2), proprio perché ha preso una forma umana, grazie alla quale san Giovanni ha potuto udirlo, vederlo, contemplarlo, toccarlo a lungo. Una percezione spirituale attraverso una percezione sensibile, ecco il punto di partenza dell'esperienza di san Giovanni. Quello che egli ha così sperimentato è il Verbo di vita, che è anche la Vita eterna (5, 20): quegli che è tornato al Padre, uno con lui. Dio lui stesso, l'Essere eterno vivificante. San Giovanni non dice : « Abbiamo visto il Verbo », ma: «Quel che noi abbiamo visto... concernente il Verbo». Difatti « nessuno ha mai contemplato Dio » (5, 12), e Giovanni non ha contemplato il Verbo. Questo è apparso, ma attraverso un corpo. La sua divinità come tale resta inaccessibile, sfugge nella sua trascendenza : Dio è sempre « più grande ». Non si è colto il Verbo, la vita eterna, ma c'è stata comunione attraverso a ciò che appariva, die si poteva vedere, udire, palpare, del Verbo incarnato; e partecipazione del corpo e dello spirito per cogliere la vita eterna; in-somma, unione a Dio attraverso a quel grande segno che è l'Uomo Gesù.
Come potranno i cristiani partecipare a quest'esperienza? Attraverso alla testimonianza dell'apostolo e alla comunione con lui. Egli rende testimonianza portando il messaggio di Cristo, affinchè i cristiani partecipino alla sua vita spirituale. Attraverso alla verità, oggettivamente predicata dall'apostolo, soggettivamente accolta (colla fede) e praticata (coi comandamenti), essi pure entreranno in comunione col Verbo di vita: attraverso al testimone e alla sua testimonianza, comunicheranno con Dio. Giovanni ha conosciuto Dio attraverso alla mediazione di Cristo; i cristiani conosceranno Cristo attraverso alla mediazione di Giovanni — cioè della Chiesa. L'apostolo, la gerarchla, la Chiesa: siamo a una delle componenti essenziali dell'esperienza cristiana. 

1. - II centro di questa esperienza è la comunione divina; e questa è, anzitutto, vita in Dio. Ora, Dio è luce assolutamente pura (1, 5), ed è nella luce (1, 7) come nel suo Regno. Questa luce è purezza inaccessibile al male, splendore di « gloria », forza trasformatrice: col Sangue di Cristo, essa ci purifica da ogni iniquità, dissipa le nostre tenebre, raddrizza il nostro atteggiamento spirituale, e ci fa compiere quella verità della vita, che impegna tutto quanto
l'uomo. Di conseguenza, come Dio è nella luce, è la Luce, anche noi dobbiamo « camminare nella luce », essere sempre più fedeli alla Parola, avvicinarci collo sforzo spirituale alla trasparenza infinita; e questo slancio di purezza, di dirittura, di verità concreta ci mette in comunione con Dio (1, 6) e coi nostri fratelli (1, 7).
Ma Dio è anche Amore (4, 7-16). Egli è la generosità assoluta, radicalmente pura, perché è sempre prima, e non ha altra legge che la sua sovrabbondanza infinita; perché viene a dei peccatori; perché si dona donando il Figlio, come Salvatore, come Espiazione vivente, come Sorgente di vita. E questa carità, che è Dio, è anche da Dio (7). Essa è forza di Dio in noi (cfr. 3, 24), tende a crescere fino alla sua perfezione, a diventare un puro rifluire dell'amore verso la sua sor gente divina: «Amiamo, perché Egli per primo ci ha amati » (19). Quindi, quando amiamo Dio e i nostri fratelli, quando siamo nel l'amore, siamo in Dio e Dio è in noi. La comunione con Dio, è dunque la vita beata — attraverso a Cristo (9) —, in questa purezza e generosità ugualmente infinite; è la partecipazione alla Purezza e alla Generosità di Dio.

2. - Questa comunione e una immanenza reciproca. Dio è in noi, e noi lo possediamo. « Chi confessa il Figlio, possiede anche il Padre (2, 23). La vita eterna è nel Figlio suo, chi possiede il Figlio, possiede anche la vita (5, 12). Se ci amiamo gli uni gli altri. Dio dimora in noi » (4, 12). Viceversa, noi siamo in Dio (2, 6), e dobbiamo rimanere in Cristo (2, 28). « Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio, e Dio in lui (4, 16). Siamo nel Vero, nel suo Figlio Gesù Cristo » (5, 20).
Per comprendere questa immanenza, bisogna certamente risalire alla sorgente. Ora, questa è un'azione divina permanente, una azione generatrice, con cui Dio, ogni momento, ci comunica il nostro essere di figli. Il nome proprio del cristiano, nell'epistola, è:
colui che è generato da Dio. Ma questa « specie di generazione divina continua » non ci getta fuori di Dio, tutt'altro. Essa ci riconduce a lui con tutte le forze divinizzate del nostro essere. Colla fede e colla carità noi abbracciamo Dio, lo teniamo, lo possediamo. Ma non facciamo che rientrare così nell'Amore eterno e primo, che ci ha salvati e purificati, che ci genera e ci divinizza. Dio si è dato con generosità assoluta; e, per questa generosità a cui partecipiamo, noi ci diamo a nostra volta: noi siamo in Dio più di quanto Dio non sia in noi, perché Dio è più grande del nostro cuore (3, 20), ed egli è la Luce e l'Amore, di cui noi non siamo che una partecipazione.
È però nel Figlio che tutto questo si allaccia. Oggettivamente, noi siamo stati riscattati col suo Sangue e colla sua espiazione (1, 7; 2, 2; 4, 10-14). Soggettivamente, è lui che ci dona la vita (4, 9); è confessando lui che si possiede il Padre (2, 24); è possedendo lui che si possiede la vita (5, 12); e se il Padre ci genera alla vita eterna, è per mezzo di Gesù Cristo. Infine, per il cristiano, essere in Dio vuoi dire « essere nel Vero, nel suo Figlio Gesù Cristo, che è il Dio vero e la vita eterna » (5, 20). La comunione cristiana è dunque una relazione personale a Cristo, in cui siamo uniti al Padre. Il nostro essere cristiano è un essere in Cristo, perché e un essere da Cristo, la cui forza è di farci appartenere a Cristo, colla fede e l'amore.

3. - Non ci si stupirà che una tale esperienza sia difficile a farsi, tanto più che è un'esperienza intermediaria. Essa si trova tra le due manifestazioni di Cristo: l'Incarnazione redentrice e la Parusia. « E ora, figlioli, rimanete in lui affinchè, quando apparirà, abbiamo piena sicurezza e la vergogna non ci allontani da lui, al tempo della Parusia... Vedete che grande amore ci dona il Padre, al punto che siamo chiamati figli di Dio — e lo siamo davvero... Miei cari, siamo già figli di Dio, eppure ancora non è stato manifestato quello che saremo. Sappiamo che, quando egli si manifesterà, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo quale è. E chiunque possiede questa speranza, si purifica come è puro lui » (2, 28-3, 3). La prima apparizione di Cristo ha lo scopo di liberarci dal diavolo e dal peccato (3, 5-8), di purificarci, di darci un essere nuovo, — l'essere di figli — e di prepararci così alla comunione piena in Pa-
radiso. La seconda manifestazione sarà quella del Giudizio solenne e della trasformazione definitiva in Dio. L'essere cristiano è dunque una realtà situata tra l'Incarnazione e la Parusia; appoggiata alla prima, che le dona la sua realtà e la sua efficacia ontologica; tesa verso la seconda, che le conferisce il suo senso e la trascina come suo fine. Quindi, l'esperienza cristiana comporta necessariamente una dimensione dinamica: il rapporto attivo di un germe rispetto al suo sviluppo.
Il rimanere in Dio (2, 28), la comunione divina che si compie colla fede e la pratica della giustizia (2, 29), sono un pegno che Cristo non ci getterà lontani da lui, e ci riconoscerà per suoi, il pegno quindi di questa assicurazione ardita e gioiosa che è la par-résia, davanti alla discriminazione terribile dei buoni e dei cattivi. La comunione è così tutta orientata verso l'avvenire; essa anticipa la nostra situazione davanti al Giudice nella sua ultima manifestazione. Questa comunione si fonda su quella realtà doppiamente misteriosa, che è la nostra figliazione divina (3, 1-3). Misteriosa per l'uomo carnale, per il mondo: perché esso non ha accolto l'amore di Dio, non si è lasciato trasformare da lui, non « conosce » Dio, e quindi non ha la forza di conoscenza, che gli permetterebbe di comprendere quegli esseri trasfigurati che sono i figli di Dio. Realtà misteriosa anche per lo stesso cristiano. Egli conosce Dio, ma non lo vede, perché non è pienamente trasformato a sua immagine. La sua conoscenza non è perfetta, perché non è perfetto il suo essere; e non lo è perché il Figlio di Dio, sorgente diretta dell'essere e della conoscenza, non si è rivelato davanti a lui. Giovanni non lo ha conosciuto che attraverso alla testimonianza della sua. umanità; il cristiano non lo conosce che attraverso alla testimonianza dell'apostolo, e la testimonianza che Dio si rende in luì. Ma quando Cristo si manifesterà nello splendore della sua divinità e ci renderà perfettamente simili a lui, « quello che noi, allora, saremo, si manifesterà pienamente »; e nella luce che si sprigionerà da questa rivelazione di Cristo a noi, e di noi in Cristo, i nostri occhi saranno aperti e « lo vedremo qual'è » : non più attraverso a cose create, ma in se stesso. La prima rivelazione — imperfetta — del Signore suscita, nella fede, l'incoazione dell'essere cristiano; la seconda rivelazione — perfetta — di Gesù Cristo suscita, nella visione, il compimento del figlio di Dio.
C'è dunque, nell'esperienza che quaggiù possiamo fare della nostra figliazione, una duplice oscurità: l'oscurità di ciò che siamo — che conosciamo solo per fede; e quella di ciò che saremo — che conosciamo pure solo per fede, e che raddoppia la prima. La nostra realtà attuale di figli di Dio è così protesa verso la speranza della somiglianzà e della visione piena. Come dice il versetto 2 « siamo ora figli di Dio, eppure non è ancora manifesto ciò che saremo », il nostro stato di cristiani si definisce con una speranza nel cuore stesso della figliazione. E dunque, la figliazione è protesa verso il' suo compimento, come la comunione verso il giudizio — tutte due tese verso quella Parusia che sarà nello stesso tempo Apparizione, Giudizio e Trasformazione. Di conseguenza, una volta di più, la pratica della giustizia (2, 29) e lo sforzo di purificazione (3, 3), a immagine di Cristo, regolano la vita spirituale del cristiano, perché sono l'approssimazione continua che permetterà, all'ultimo giorno, il brusco passaggio alla somiglianza. Apparizione di Cristo, trasformazione in lui, visione diretta dell'essere suo, questa è la speranza del cristiano. Essa include in sé quel distacco, conosciuto e saputo per fede, tra il presente e l'awenire, è risentita nel centro dell'esperienza cristiana per sollevarla, con una aspirazione formidabile, dalla fede alla visione. In una parola: per il cristiano quaggiù, l'incompiutezza ontologica implica l'incompiutezza noetica; queste due incompiutezze sono protese, con tutte le loro forze, verso il compimento definitivo, ontologico e noetico; e questo slancio inserisce la speranza e lo sforzo di santità nel cuore dell'esperienza cristiana.


II - I criteri dell'esperienza

Lo scopo di san Giovanni appare dunque più che mai paradossale: far conoscere, con certezza, una realtà per definizione completamente misteriosa. Per non aprire la via all'illuminismo, che ha sempre aspettato al varco gli « spirituali », egli moltiplicherà i criteri che permetteranno un giudizio sicuro; il nostro compito ora è di studiarli.
L'idea essenziale è un gran tema giovanneo. Dio è il vero, l'unico vero Dio; e in lui, noi facciamo la verità, che è il compimento stesso della nostra vocazione. C'è dunque, per noi, una ve-ritas vitae, che ha la sua origine in Dio e ci impegna tutti: le nostre parole, le nostre azioni, gli atteggiamenti spirituali devono essere conformati a questa verità per essere reali, veri, cristiani, e metterci (o conservarci) in comunione con Dio. Questa verità è dunque una conoscenza totale, che s'incarna nella fedeltà dei comandamenti — la fede e l'amore. San Giovanni farà cogliere questa totalità concreta, come in una serie di onde che avanzano, si accavallano, ritornano su se stesse, e che colle loro riprese distinte e fuse cercano di esprimere la ricchezza inesauribile di un'esperienza indicibile. La partenza è data in 1, 5-7: per partecipare a Dio-Luce, dobbiamo camminare non nelle tenebre, ma nella luce. Dire che si è in comunione con Dio quando si cammina nelle tenebre, è mentire a parole e in atto, è non fare la verità. Camminare nella luce, imitando Dio che è la Luce. è vivere in una dirittura morale e in una generosità, che sono fondate sull'adesione personale alla Rivelazione e alla verità di Dio; che ci purificano del nostro peccato nel sangue di Cristo; che ci fanno partecipare a questa luce — a questa gloria — che è quella di Dio in Cristo; e che, quindi, ci uniscono ai nostri fratelli. A quali segni riconosceremo di essere nella luce, di fare la verità, di vivere in Dio?

1. - In primo luogo, a questo segno: non negare, ma riconoscere i nostri peccati. San Giovanni parla qui del giudizio di valore che noi diamo sul nostro stato spirituale: io dico di essere o di non essere peccatore; nei due casi, alla radice di questo giudizio c'è un atteggiamento spirituale che implica l'errore e la colpa, o la verità e la salvezza. Difatti, se affermiamo di « non avere peccati » (I, 8-10), questo giudizio comporta una parte di colpa, di illusione orgogliosa attiva, — « noi ci inganniamo » (I, 8); una parte di errore spirituale, di menzogna vissuta — « la verità non è in noi » (I, 8); e un'ingiuria a Dio, la cui parola non è più per noi principio di verità, tanto che noi « lo facciamo menzognero » e « la sua Parola non è più in noi » (I, 10). Alla radice del giudizio d'innocenza, c'è dunque un orgoglio che è colpa e illusione, e che ci porta alla menzogna e alla privazione di Dio. Viceversa, «riconoscere i propri peccati » (I, 9) è umiltà che accetta il suo stato, e si giudica secondò verità; è anche, e soprattutto, invito a Dio: lo sguardo umile e credente non si arresta a sé, ma si riporta immediatamente a Dio, fedele alla sua promessa, giusto e giustificante, che perdona e purifica; e a Gesù Cristo, giusto come il Padre, diventato propiziazione per il peccato e nostro avvocato presso Dio. Questo acuto riconoscimento di sé come peccatóri e di Dio come Redentore, implica un atteggiamento di dirittura morale, di verità vivente, di omaggio e di fiducia in Dio, che ci rimette, o ci conserva, nella comunione divina. Beninteso, il cristiano non deve peccare : « Figli miei; vi scrivo questo perché non pecchiate » (2, 1); i criteri seguenti vi insisteranno, poiché saranno tutti l'esclusione di una forma di peccato; e l'epistola ci tornerà su più oltre (3, 4-18). Ma il cristiano, quaggiù, è troppo imperfetto per sfuggire al peccato: di qui il dovere di sincerità davanti a sé e davanti a Dio.
Del resto, i peccati che ci sfuggono non sono continui; ci sono dei giorni nei quali la nostra coscienza non ci rimprovera niente, e ha ragione. La questione allora si estende, e siamo risospinti al problema della sicurezza e dell'inquietudine spirituali (3, 19-24): come sapere che siamo nella verità e acquietare così il nostro cuore davanti a Dio? Questa verità e questa pace dipendono dal nostro cuore, — dall'intuizione spirituale di noi stessi davanti a Dio. Se la nostra coscienza ci fa dei rimproveri (ritorniamo al caso precedente), non dobbiamo rinchiuderci su noi stessi, ma rifugiarci in Dio — in colui che è « più grande del nostro cuore » 5 — che ci supera per la sua scienza, la sua potenza, il suo amore : Egli « conosce tutto » (è l'espressione di Pietro a Gesù, Giov. 21, 17), il nostro peccato e il nostro pentimento, e ci perdonerà. Questo atto di abbandono assoluto nel Dio misterioso, che comporta umiltà, adorazione e speranza, è il principio della nostra pace e il segno che siamo nella verità. Se il nostro cuore non ci fa dei rimproveri, siamo nella sicurezza ardita davanti a Dio, possiamo pregarlo — lui, il « più grande », che non possiamo raggiungere diversamente — : sappiamo che ci esaudirà. E la nostra presa di coscienza è sicura, perché non si limita a una pura contemplazione di noi stessi, ma alla vista- netta della nostra fedeltà : pratica dei comandamenti e di ciò che è « accetto agli occhi di Dio »; concretamente: fede in Cristo e carità fraterna. La presa di coscienza appare qui impegnata nel dinamismo dei nostri atti liberi, come la funzione riflessiva del nostro agire spirituale, destinata a sospingerci ancor più in Dio, ora con la fiducia ardita e la preghiera, ora col pentimento e l'umile adorazione.

2. - II secondo criterio è di non violare, ma di osservare i comandamenti (2, 3-5) : « Sappiamo che lo conosciamo, se osserviamo i comandamenti » (2, 3). Questa « pratica » non è un segno esteriore all'esperienza, tale da doversi applicare dal di fuori. Essa implica, alla sua radice, un'obbedienza volontaria, un amore generoso, un impegno reale : « Ecco che cos'è l'amore di Dio : praticare i suoi comandamenti » (5, 3). Qui come nel Vangelo, i comandamenti sono anzitutto la fede e l'amore (3, 23) : come li praticheremmo se non credendo e amando? Questa pratica sgorga dunque dallo slancio più profondo dell'anima, lo esprime all'esterno e, di conseguenza, porta con sé la propria luce: ci fa sapere che conosciamo Dio (2, 3), che siamo nella verità (2, 4), che il nostro amore è reale e perfetto (2, 5). Così, il rapporto vissuto con i nostri atti liberi, la sanzione e la luce che emanano dalle azioni sono uno degli elementi della nostra certezza, e sono quindi essenziali all'esperienza cristiana. L'epistola ritorna incessantemente su questo tema (3, 22-24; 4, 20-21; 5, 2-3): la fedeltà cosciente e volontaria ai comandamenti è il segno, il pegno e il frutto della verità, dell'amore e della comunione; essa è la luce stessa dell'esperienza cristiana.

3. In modo particolare, bisogna non odiare, ma amare i nostri fratelli, a imitazione di Cristo (2, 6-12). È una semplice precisazione del secondo criterio, ma san Giovanni su di esso insiste con predilezione (cfr. 3, 11-17; 4, 11, 20; 5, 1 seg.). Senza dubbio, perché vi vede il segno per eccellenza, che dice l'avvento del mondo nuovo attraverso al vecchio, della vera luce attraverso le tenebre: comandamento « antico » (2, 7), perché per ogni vita cristiana, esso è quello dei primi giorni e del primo insegnamento; comandamento « nuovo » (8), perché è nuovo come Cristo stesso, e come l'apparizione della giovane fede cristiana. La sua importanza si delinea subito con una opposizione piena : chi ama suo fratello è nella luce e non cade (2, 10); chi non ama è nelle tenebre, erra nella notte come un cieco (2, 9, 11). Non è nella verità ma nella menzogna (4, 20). Appartiene al « maligno »; si rivolta furiosamente contro quelli che amano, è virtualmente omicida, come Caino lo fu di fatto; è nella morte (3, 10-8). Chi ama è nella 'luce, non cade (2, 10); è passato dalla morte alla vita, è nato da Dio (3, 10-15); è in Dio, e Dio è in lui. L'odio e l'amore dei fratelli, l'egoismo e la generosità appaiono qui come le due forze maggiori che si disputano il cuore umano, e san Giovanni non immagina che ci sia fra loro un qualcosa di mezzo. Si tratta dunque anche qui di un atteggiamento fondamentale dell'uomo e del cristiano. E si capirà ancor meglio questo criterio, ricordando i tre punti che, nella nostra epistola, caratterizzano l'aspetto fraterno. Esso è il compimento di un comandamento essenziale, del comandamento (3, 11-23; 4, 21); e questo dovere è tanto più impegnativo, più necessario, anche più significativo, in quanto è più chiaro in una esperienza diretta, controllabile che non inganna: « Chi non ama il fratello suo che vede, non può amare Dio che non vede » (4, 20). Più che un comandamento, quest'amore è un'imitazione dell'amore di Dio per noi: Egli ci ha amati donando il Figlio suo per riscattarci; « se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (4, 11). È anche imitazione dell'amore di Cristo per noi: egli ha dato la sua vita per noi, e noi dobbiamo darla per i nostri fratelli, o almeno aiutarli quanto possiamo (3, 16 seg.). Infine, quest'imitazione non si fa dal di fuori, ma si fonda sul moto stesso che ci fa amare Dio, e l'amore fraterno non è che un'estensione dell'amore per Dio : perché « chiunque ama Colui che l'ha generato, ama anche chi è da lui generato » (5, 1). Comandamento e imitazione si interiorizzano e si identificano in questa unica sorgente : la comunicazione di una medesima vita, scaturita dal cuore di Dio nel cuore di tutti i figli. Alla lettera, amare il prossimo è amare Dio, perché è amare il termine dell'amore creatore, colla forza stessa di questo amore. Si capisce che sia un segno per eccellenza, perché unisce l'interiorità più profonda alla visibilità più caratterizzata: il prossimo, lo si vede (4, 20), e lo si ama di un amore che si riflette all'esterno, non solo nelle parole, ma in atti visibili, che ne manifestano la verità (3, 18).

4. - L'antitesi si allarga ancora con un nuovo criterio: non bisogna amare il mondo, ma Dio (2, 15-18). Nell'universo non ci sono soltanto i «figli di Dio» ma anche i «figli del diavolo» (3, 10);
non solo la fede e l'amore, ma anche la ripulsa, l'odio e la forza terribile delle bramosie— c'è insomma il «mondo». Questo dato è essenziale al messaggio cristiano; e in questo senso i1 mondo è l'insieme delle forze che si oppongono a Dio e al suo regno — l'impero del male, delle tenebre e del maligno. Ma, in questo passo, la menzione del mondo è particolarmente importante, perché sottolinea un aspetto di lotta meno frequentemente svolto. Abitualmente, nel Vangelo, il mondo è presentato come l'insieme delle forze e degli esseri, governati da Satana, che ricusano di credere e perseguitano Cristo e i cristiani. Qui, è presentato come tentatore, come luogo e sorgente di bramosie : « Tutto ciò che è nel mondo — la bramosia della carne e degli occhi e l'orgoglio della vita — non appartiene al Padre, ma al mondo » (2, 16). Bramosie del « corpo in quanto esso spinge al peccato », ardore sensuale dello sguardo (cfr. Mat. 5, 28), orgoglio pomposo — insomma, bramosie sensuali e orgogliose, le due forze maggiori che attirano al male.
A queste bramosie bisogna resistere. Non « amarle », ma rifiutarne il richiamo; sottrarsi al loro fascino, perché siamo immersi nel mondo; sottrarsi alla loro seduzione, perché trovano in noi delle connivenze e noi corriamo il rischio di amarle; gettare la nostra anima in Dio e « fare la sua volontà ». Allora, una volta di più, accederemo alla comunione divina, sfuggiremo alla dispersione, all'il-lusione, alla menzogna, che sono l'essere proprio del mondo — « il mondo e le sue cupidigie passano » (2, 17), entreremo in comunione di fede e di amore con Dio che è e permane; e in lui il nostro essere troverà la sua realtà, la sua verità eterna : « Chi ha fatto la volontà di Dio, rimane per sempre » (2, 17).
Tra il mondo e il cristiano, l'opposizione è dunque totale; essa non può manifestarsi che con una lotta a morte, in cui ci sarà il vincitore e il vinto. All'odio del mondo, risponde la fede del cristiano, che è la sua vittoria sul mondo (5, 4-5). Il cristiano crede che Gesù è il Figlio di Dio. Tutte le bramosie e le apparenze del mondo si uniscono per affermare il contrario; ma quando il cristiano accetta l'amore redentore di Dio in Gesù Cristo Salvatore, è passato dalla morte alla vita, dal mondo a Dio; si è strappato alla menzogna per stabilirsi nella luce e nell'amore — ed è il primo aspetto della sua vittoria. Inoltre, il mondo giudica sempre Cristo, e Cristo giudica sempre il mondo col suo Spirito (Giov. 16, 8-11). Ma il mondo è un condannato, e lo Spirito « mette il mondo nel suo torto ». Il cristiano, affermando la divinità di Gesù Cristo, si unisce al giudizio dello Spirito, e condanna il mondo con un giudizio trionfale — secondo aspetto della sua vittoria. Infine, se il mondo odia il cristiano, se lo perseguita e lo uccide, il cristiano trionfa ancora: anche questo è predetto. Il cristiano lo sa, non « si meraviglia » (3, 13), è trattato, anche lui, come il suo maestro e non muore che per risuscitare; e nel suo essere di figlio, fin da quaggiù, egli « rimane per sempre » — terzo aspetto della sua vittoria. C'è qui l'opposizione totale di due esseri e di due vite : il « mondo » è « tutto immerso nel maligno » (5, 19), è già condannato e morto con lui; il cristiano è « nel Vero » (5, 20), « nel Figlio suo. Gesù Cristo » è già salvo e vivente con lui. L'esistenza stessa del cristiano, di cui l'atto essenziale è la fede, è la condanna del mondo e la sua vittoria su di lui. E così : « Ogni uomo che è nato da Dio è vincitore del mondo, e questa vittoria che ha (già) vinto il mondo, è la nostra fede » (5, 4).

5. - L'ultimo criterio riprende il medesimo tema, sotto un'altra forma, e ci lascia ancora totalmente nella fede: bisogna guardarsi dagli anticristi e affermare Cristo (2, 18-23). Il mondo, dopo Cristo, è entrato nella sua ultima fase11: quella della consumazione messianica, delle grandi lotte con cui si stabilisce la vittoria di Cristo. L'awersario è lì: l'anticristo, colui che è contro Cristo e cerca di prenderne il posto. Egli si manifesta in una quantità di anticristi, che negano che Gesù sia Cristo — il Figlio di Dio —, che negano così il Padre, e che per questo sono usciti dalla Chiesa. Questo scandalo doloroso ha indotto san Giovanni a scrivere una delle pagine più profonde dell'epistola, e a sottolineare il triplice elemento — ecclesiale, dogmatico, mistico — necessario alla comunione divina. Prima di essere degli eretici usciti dalla Chiesa, gli anticristi erano nella Chiesa. Ma la loro appartenenza alla comunità, e quindi a Dio stesso, non era che una realtà di apparenza; nella realtà vera, essi non erano della Chiesa, e la loro « uscita » lo prova. Per aver rotto la loro appartenenza alla comunità (2, 19), essi hanno rotto il loro legame con Dio (2, 23). Questa rottura era fondata su una rottura interna colla verità, su una menzogna, che era la negazione di Gesù come Cristo e Figlio di Dio, quindi la negazione del Padre, e infine la perdita spirituale dell'uno e dell'altro (2, 22 seg.). E questa rottura presuppone, come sua condizione, un'altra assenza, ancora più profonda: quella dell'unzione che viene dal Santo e che, sola, poteva insegnare dall'interno. Siccome manca loro l'unione alla Chiesa, l'affermazione della Verità, l'unzione del Santo, questi uomini sono esclusi dalla comunione divina.
Viceversa, i cristiani sono nella comunione perché posseggono queste tré realtà. Essi « hanno l'unzione che viene dal Santo, e sanno tutto » (2, 20). Dovremo tornare su questa funzione dello Spirito. Per ora osserviamo che il passo indica un'azione interna di illumi-nazione, che porta alla conoscenza della verità e che è propria di tutti i mèmbri della comunità. Per conseguenza, essi sanno la verità, confessano il Figlio e il Padre, li posseggono, il Padre e il Figlio rimangono in loro. Infine, essi hanno l'unzione della verità perché restano fedeli all'insegnamento della Chiesa, quale lo hanno ricevuto « fin dal principio » della loro professione cristiana (2, 24). Questo conformarsi all'insegnamento ricevuto — che implica la dimora del Padre e del Figlio — non esige un nuovo insegnamento, perché è ad un tempo fedeltà alla tradizione e all'unzione (2, 27). Così, insegnamento e unzione, magistero e Spirito Santo, sono collegati e formano una struttura spirituale; l'uno o l'altro possono considerarsi sufficienti, perché si implicano a vicenda. La triplice componente — mistica, dogmatica, ecclesiale — definisce la struttura autentica dell'esperienza cristiana. La Chiesa vi appare come la condizione, il dogma come l'oggetto, lo Spirito come la sorgente intcriore; e dal loro legame vitale — ma solo da esso — nasce la comunione divina, il possesso del Padre e del Figlio.
L'affermazione dogmatica ha una tale importanza nella comunione, è un oggetto così necessario della fede, e nello stesso tempo il criterio così netto dell'« essere di Dio », che la ritroviamo al centro del piccolo paragrafo dedicato al discernimento degli spiriti (4, 1-6). La parola « spirito » oscilla qui tra due sensi : da una parte, il principio di ispirazione e d'affermazione — d'errore o di verità — che trae la sua origine da Dio o dall'anticristo; dall'altra, e più concretamente, l'uomo così ispirato. Provare gli spiriti, è dunque provare gli ispirati, e il loro principio di ispirazione . L'oggetto del discernimento è una pura affermazione dogmatica : « Gesù venuto in carne »; e il criterio, come prima, è la conformità all'insegnamento ufficiale (4, 6). I cristiani non hanno che da « applicare », grazie allo spirito di Dio, questo criterio di ortodossia ; e la loro fede è una vittoria sullo spirito dell'anticristo, che essa smaschera e respinge, e sul mondo, che ispirano i falsi profeti. Anche qui, l'affermazione dogmatica rivela il principio di ispirazione.
Si vedono l'unità e la ricchezza dei criteri proposti da san Giovanni. Essi sono, in fondo, l'esigenza — e la manifestazione — di una « integrità morale assoluta ». Questa si realizza in mezzo a una dura lotta; e nonostante le apparenze, placate e ferventi, questi criteri esprimono la condizione tragica del cristiano. Ciascuno di essi, infatti, indica un atteggiamento che non si realizza che coll'esclusione di un altro. Il cristiano è preso tra la tentazione e l'ispirazione, tra il mondo e Dio, tra Cristo e l'anticristo. Solo con una fedeltà concreta assoluta alle esigenze divine egli manterrà la beata comunione col Padre e col Figlio. Attraverso a queste opposizioni, si indovina tutto un atteggiamento, che minacciava la purezza della giovane fede cristiana. Credere che si è liberati dal peccato, e ormai fuori dei suoi assalti; che si è al di sopra dell'obbedienza ai comandamenti; che non ci si deve preoccupare degli altri, dal momento che ci si occupa di Dio'; che la cupidigia non intacca la regione profonda dello spirito, dove si ama il Padre; che si può passar sopra a Cristo e alla Chièsa, al visibile e all'umano, per attenersi al Dio invisibile — ecco le terribili illusioni che minacciano i cristiani, e che Giovanni condanna con una energia infaticabile. Il vero cristiano è tale solo a condizione di difendersi, di affermarsi, di vincere — e di ricominciare senza tregua. Sia egli dunque l'uomo umile, che riconosce il suo peccato e il suo bisogno di purificazione; l'uomo fedele che mette in pratica i comandamenti del Signore; l'uomo generoso, che si da tutto al prossimo; l'uomo distaccato, che resiste alle passioni; l'uomo dalla fede pura, obbediente, vera, che respinge le seduzioni e le menzogne dei falsi cristiani. Allora può essere sicuro di rimanere in Dio e che Dio rimane in lui. Ma per assicurare questa comunione ci vuole il dono quotidiano della sua vita. Ed è perche insiste con tale forza sui criteri necessari dell'esperienza cristiana, che san Giovanni può insistere, con pari forza, sulla sua profondità, la sua certezza, la sua interiorità.


IlI - I princìpi dell'esperienza

Ci restano ora da esaminare i principi stessi dell'esperienza cristiana. I suoi princìpi immediati sono la fede e l'amore. Veramente, dire due princìpi, è inesatto. Se una forza spirituale si caratterizza attraverso i suoi effetti, ecco che cosa ci dice san Giovanni. Chi crede è di Dio, è nato da Dio (4, 2; 5, 1-4), chi ama è nato da Dio (4, 7). Chi crede possiede la vita (5, 13), chi ama è passato dalla morte alla vita (3, 13). Chi crede rimane in Dio, e Dio in lui (4, 15); chi ama rimane in Dio e Dio in lui (4, 12-16). Sembrerebbe che le parole più forti per significare il possesso di Dio dovrebbero essere attribuite all'amore, che è non solo di Dio, ma è Dio stesso; e invece sono riferite alla fede: è colui che crede che possiede il Figlio, il Padre, la vita eterna (2, 22 seg.; 5, 12 seg.). Sembrerebbe che le parole più forti per significare la vita nella fede e la conoscenza di Dio dovrebbero essere attribuite alla fede, e invece sono riferite all'amore: chi ama rimane nella luce e nella verità (2, 10 seg.; 4, 20); chi ama, soltanto chi ama, conosce Dio (4, 7).
Ce n'è abbastanza per essere obbligati a concludere che fede e carità sono sempre unite insieme, e che credere e amare rappresentano, per san Giovanni, i due aspetti di una medesima grazia, di un medesimo slancio spirituale, di un medesimo atto personale, di una medesima vita in Dio. Questi due aspetti sono distinti: credere sottolinea l'aspetto intellettuale, è sempre confessare Gesù Cristo, Figlio di Dio; amare sottolinea l'aspetto generoso, è darsi a Dio, a Cristo, ai nostri fratelli, come il Padre e il Figlio si sono dati a noi. Ma questi due aspetti sono inseparabili: confessare Cristo è il modo, proprio dell'intellettuale, di darsi a Dio e di vivere nella Verità; amare i fratelli e Dio esige che si faccia la verità nel proprio cuore e nella propria vita. E se vogliamo cercare la ragione ultima di questa unità, non la troveremo in noi ma in Dio: perché Dio è Luce e Amore insieme; Cristo, in cui troviamo il Padre, è ad un tempo « il Dio vero e la vita eterna », perciò, la forza che essi ci comunicano è una forza di luce e di amore, che fa di noi dei « generati da Dio » — che vivono di Dio, per Dio, in Dio. Secondo che sottolineerà nell'uomo — imperfettamente unificato e imperfettamente simile a Dio — l'aspetto di adesione o l'aspetto di dono, san Giovanni dirà: credere o amare; ma essendo i due aspetti indissociati nell'unità di uno stesso slancio di vita, attribuirà loro il medesimo effetto essenziale: la comunione con Dio, conoscenza tutta impregnata di amore, carità tutta avvolta di luce. Per questo potrà aggiungere : « Ecco il suo comandamento : credere al nome del Figlio suo Gesù Cristo, e amarci gli uni gli altri, come egli ci ha comandato ». E : « chi osserva i suoi comandamenti, rimane in lui » (3, 23 seg.).
Dobbiamo però ancora sottolineare due cose caratteristiche. La prima verte sulla funzione noetica dell'amore : « Ogni uomo che ama è nato da Dio e conosce Dio; chi non ama, non conosce Dio, perché Dio è Amore » (4, 7 seg.). Per conoscere, bisogna essere. Dio è la generosità assoluta che si dona; chi non riproduce in sé, colla forza divina, questo moto di dono, non accede all'essere divino, non entra nella sua intimità, non si assimila a lui e quindi non può conoscerlo bene. Si tratta qui di quella conoscenza per assimilazione, che nasce dalla fraternità nell'essere, e che è sul piano, non dell'affermazione o dell'adesione intellettuale, ma dell'esperienza vissuta. Questa conoscenza è il vertice della fede, il suo principio dinamico è l'amore, ed essa è la comunione, vissuta e cosciente, con Dio.
Il secondo elemento concerne il possesso della testimonianza di Dio per mezzo della fede. « Chi crede possiede la testimonianza di Dio in sé » (5, 10) — la testimonianza resa da Dio al Figlio (5, 9). Questa testimonianza e un'azione di Dio, da una parte, storica e datata, (5, 11); dall'altra, intcriore e permanente, (5, 10, cfr. 9). La prima espressione considera la rivelazione cristiana nella sua manifestazione storica in Cristo; e comprende, secondo il Vangelo, la parola, i segni, la grazia comunicati da Cristo; la seconda considera l'interiorizzazione di questa testimonianza per mezzo della fede personale. Ci sono dunque due tempi in questa testimonianza : la sua proposizione, perché ci si creda; ed essa comporta quell'assedio da parte della parola e dei segni, e quella penetrazione da parte della grazia, che sono l'invito stesso alla tede. Si può rispondere di no a quest'invito, a questa testimonianza che Dio rende al Figlio; si può quindi rifiutare di credere al Figlio — che è l'oggetto della testimonianza, e al Padre — che ne è l’autore e il garante; di conseguenza si farà di Dio un mentitore (5, 10). Si può accettare l'invito, credere al Figlio credendo alla testimonianza che gli rende il Padre e, come dirà il Vangelo, « mostrare col proprio sigillo che Dio è veridico » (Giov. 3, 33). Ma allora la testimonianza si interiorizza: quando si è creduto e si è diventati dei veri credenti, si possiede il Figlio, si possiede la Vita che è nel Figlio (5, 10); si possiede dunque in sé la testimonianza di Dio, che è la comunicazione della vita eterna, vissuta e sperimentata; e si sa quindi (5, 13) di possedere la vita eterna. La fede è diventata possesso cosciente della vita eterna. Rieccoci al Vangelo : « La vita eterna, è che conoscano Tè, unico vero Dio, e colui che hai mandato» (17, 3). Questa vita è «la conoscenza di fede che prelude alla visione del cielo »; ed « è chiamata vita eterna, perché è l'atto fondamentale della nuova vita dei cristiani, vita che non conoscerà ne fine ne interruzione ». Ma l'epistola, conformemente al suo scopo, aggiunge che il vero credente ha preso coscienza di questa vita in lui e che (fa l'esperienza intima di questa vita divina in Gesù » . Privilegio supremo della fede che l'apostolo ha vissuto in pienezza e che con tutte le sue forze vuoi far scoprire ai suoi : « Vi ho scritto tutto questo affinchè sappiate che avete la vita eterna, voi che credete al Nome del suo Figlio, Gesù Cristo » (5, 13).
Non siamo però ancora arrivati al fondo del problema. Fede e carità sono, sì, i principi immediati dell'esperienza, ma il principio profondo, e ultimo, è lo Spirito Santo. Su questa funzione dello Spirito, san Giovanni ritorna cinque volte, nell'epistola. Egli vi riprende il grande tema del Vangelo : lo Spirito di Verità, che insegna dall'interno le verità dette dal Signore. Se si ammette che passi come questo : « Lo Spirito Santo... vi insegnerà, e vi farà ricordare tutto ciò che vi ho detto » (Giov. 14, 26), alludono direttamente agli apostoli e ai loro successori, bisogna dire che, nell'epistola, san Giovanni applica e estende l'affermazione a tutti i fedeli. Questo Spirito di cui, in un'espressione più forte di tutte le altre, dirà « che è la Verità » (5, 6) è anzitutto l'Illuminatore, colui che insegna dal di dentro, che fa discernere, abbracciare, comprendere la verità.
Traduciamo il primo passo: «Quanto a voi... avete l'unzione che viene dal Santo e sapete, tutti... E io non vi scrivo perché voi non sapete la verità, ma perché la sapete. Rimanga in voi ciò che avete inteso fin dal principio. Se rimane in voi, voi pure rimarrete nel Figlio e nel Padre... Quanto a voi. Funzione che avete ricevuto da lui rimane in voi, e non avete bisogno che nessuno vi insegni; ma, come la vostra unzione vi insegna (ed essa è verità ) e non menzogna), e come vi ha insegnato, rimanete in lui ». Mettiamo insieme gli elementi che caratterizzano questa nozione. Essa è comunicazione interna dello Spirito Santo, fatta a tutti i cristiani. Rimane in loro: è dunque un principio permanente di attività divina. È un principio permanente di conoscenza: grazie a lei, tutti i cristiani sanno, e san Giovanni scrive loro come a persone che sanno. Questo principio di conoscenza verte su un oggetto che è l’insegnamento tradizionale : « Ciò che voi avete sentito dire fin dal principio» della vostra fede; e mentre un maestro insegna dal di fuori (2, 27), questa forza di conoscenza insegna dal di dentro, con una azione illuminatrice. Il suo compito è di far aderire alla verità predicata, di farla comprendere e di interiorizzarla così nell'anima del cristiano, in modo che essa « rimanga in lui ». Se non bisogna prendere alla lettera gli aoristi e i perfetti di Giovanni, bisogna senz'altro dar loro il loro valore, quando si oppongono in due parti di frasi parallele (2, 27). Aggiungiamo quindi: l'unzione ha insegnato ai cristiani, quando si accostavano alla fede; essa insegna in modo permanente nella loro vita di fede, Questo possesso intimo dell'insegnamento si può perdere; si conserva solo con una libera adesione e una libera fedeltà (2, 24); l'unzione rimane nell'anima alle stesse condizioni. Quando, per mezzo dell'unzione, si è fedeli all'insegnamento ricevuto, si rimane nel Figlio e nel Padre — nella comunione divina.
Un principio permanente di vita divina, comunicata dallo Spirito Santo, anima dunque la vita del cristiano. La sua potenza e la sua dolcezza interna (un'unzione) fanno discernere, affermare, vivere il mistero cristiano come è predicato dalla Chiesa (essenzialmente la divinità di Cristo), e fanno quindi entrare nella comunione divina. Se si vuoi dare un nome a questa unzione misteriosa, sembra che ci si debba riconoscere quella forza di vita che si chiama fede e amore — ma considerata nella sua sorgente viva e permanente, lo Spirito Santo. Si sarà del resto notato che san Giovanni insiste sulla funzione discernente dell'unzione. Il mondo cristiano stesso è infarcito di errori. Ha i suoi falsi cristiani, i falsi profeti, gli anticristi, tutta gente che nega Cristo. Non si può essere cristiani se non separandosi da costoro, affermando contro di essi la verità: di Cristo incarnato (4, 2) e insieme Figlio di Dio (3, 22 seg.). Questo principio di distinzione si chiama, nel primo caso, unzione, e, nel secondo, spirito; ma è il medesimo: il principio di conoscenza comunicato dallo Spirito Santo.
Crediamo che si potrebbe ancora trovare la stessa dottrina affermata sotto un'altra forma: lo Spirito inserisce in noi la testimonianza del Padre. Questa testimonianza è l'azione con cui il Padre ci comunica la vita eterna donandoci suo Figlio; essa implica tutta la missione visibile e invisibile di Cristo e sfocia a quella conoscenza del Padre e del Figlio che è la vita eterna stessa. Si può credere, anche qui, che il Padre ci dona la vita per mezzo dello Spirito Santo. Forse è questo che san Giovanni vuoi dire nei versetti misteriosi (5, 6-8) : Gesù Cristo è venuto mediante e nell'acqua e nel sangue — l'acqua del Giordano e la Passione? il battesimo e l'Eucarestia? Ma l'acqua e il sangue non sarebbero niente senza lo Spirito. Tanto che è lui, l'invisibile, che testimonia per eccellenza:
è « la Verità » come il Padre e il Figlio sono il « Vero » : ed è lo Spirito che, attraverso l'acqua e if sangue, e attraverso la fede e l'amore che quelli alimentano, ci comunica la conoscenza della verità, la vita eterna, la testimonianza del Padre.
Comunque sia, lo Spirito Santo ha anche un altro compito, su un altro piano: esso fa prendere coscienza della comunione-divina. « Sappiamo che rimane in noi, dallo Spirito che ci ha dato » (3, 24). « Sappiamo che rimaniamo in lui, ed egli in noi, perché ci ha dato il suo Spirito» (4, 13). Due espressioni leggermente diverse:
ci ha dato il suo Spirito, e dato dal suo Spirito; ma vanno messe insieme: non si possiede lo Spirito se non possedendo la sua unzione — la sua partecipazione, quella fede e quell'amore che vengono da lui, per farci conoscere dall'in terno la nostra comunione con Dio. E questa comunione si può conoscere soltanto a condizione che i suoi tré aspetti — mistico, dogmatico, ecclesiale — siano rigorosamente collegati nell'atto vivente della fede, e vissuti in una fedeltà senza cedimenti. Allora nasce quella presa di coscienza luminosa e beata che è il massimo sviluppo della vita eterna quaggiù. Perché san Giovanni vi insista tanto, è necessario che essa sia reale; perché la circondi di tanti criteri, è necessario che sia misteriosa. Non è una visione; è una conoscenza di amore, vissuta nella fede. Eppure, questa specie di intuizione profonda, quest'esperienza transluminosa, questa percezione concreta della nostra vita in Dio, sono un insieme di cose tanto ciliare che veramente noi cristiani sappiamo di essere in Dio e che Dio è in noi.
Se tentiamo di abbracciare con uno sguardo l'esperienza così descritta, saremo colpiti dal suo carattere paradossalmente unitario e attivo. È un'esperienza di comunione, e questa comunione è trinitario : nella sua sorgente, la carità del Padre che ci dona il Figlio e lo Spirito; nel suo oggetto : l'immanenza — reciproca — nel Padre e nel Figlio, per mezzo dello Spirito; nel suo fine: la trasformazione in Dio nella visione. Essa è « eristica » : è per mezzo di Cristo Salvatore che noi siamo diventati dei figli; è nel Figlio che troviamo il Padre e la vita eterea. È « pneumatica » : è la forza dello Spirito che ci insegna la fede e l'amore, e dobbiamo prender coscienza della nostra vita nel Padre e nel Figlio. Questa comunione è dunque una relazione di vita colla Trinità, e una relazione che diventa cosciente colla fede e coll'amore. Essa si trova al centro, o al vertice, dello spirito. È un dono che non si può che accettare; è la passività suprema dell'essere umano, preso da Dio, e che quindi possiede Dio ed è da Dio posseduto, in un abbraccio indicibile.
Ma questa comunione è possibile soltanto grazie all'attività più purificata, più generosa, più incessante; e l'esperienza di questa comunione è un'esperienza di fedeltà, intessuta di relazioni vive e attive con Dio: affermare Cristo, contro le menzogne e le persecuzioni del mondo; riconoscere i propri peccati e purificarsi nel sangue di Cristo; rifiutare la triplice cupidigia e sottrarsi alla sua morsa; restare fedeli all'insegnamento ricevuto dalla Chiesa, ai comandamenti che essa trasmette, alla carità in atti e in verità. L'agire spirituale — un agire esigente, incessante e integrale — è incorporato all'esperienza, e ne traccia le linee di forza normative.
Di conseguenza, la comunione e la fedeltà non formano che una sola esperienza, non c'è azione spirituale senza una comunione divina almeno abbozzata; non c'è comunione reale senza un agire generoso. L'azione spirituale è il frutto della comunione, perché vi attinge il suo slancio; ne è la condizione perché essa sola la mantiene; ne è il segno, perché ne rivela la presenza efficace. E la comunione, a sua volta, è il nutrimento profondo di un agire sempre più purificato, vigoroso e gioioso. Se si aggiunge che il principio diretto dell'azione — la fede e l'amore — è anche il principio diretto della comunione, si capirà che siamo davanti ad una esperienza di una salda unità, dove l'agire e il patire, la fedeltà integrale e la comunione piena scaturiscono da un solo e medesimo movimento. È dunque vano tentare una qualunque dissociazione, e di mettere in rilievo un aspetto separato, sia esso il più visibile — la carità fraterna — o il più invisibile — l'unzione dello Spirito Santo; sia esso il più esteriore — la fedeltà all'insegnamento ricevuto — o il più intimo — la testimonianza di Dio. Questo sembrerà ancor più impossibile, se pensiamo che tale esperienza è una pura vita in Cristo, una pura relazione al Vero, in cui ci è dato l'unico principio di vita, di fedeltà e di comunione. L'esperienza cristiana, come è presentata da san Giovanni, è una esperienza integrale, o non è esperienza.

Da Jean Mouroux, L'esperienza cristiana, Morcelliana, Brescia 1956


Prêtre du diocèse de Dijon, Jean Mouroux a joué un rôle fondamental dans la recherche d’une anthropologie chrétienne pour notre époque. Un premier ouvrage, Le sens chrétien de l’homme, paru en 1943, connut un énorme succès de lecture dans les séminaires et universités. Dans la mouvance de l’humanisme chrétien, il tente de montrer que le christianisme n’est pas une doctrine étrangère à l’homme, mais que « le mystère chrétien est tout ruisselant de l’amitié divine pour l’homme, qu’il est capable de la sauver en le divinisant ». Bien avant le Concile, ce livre, ainsi que L’expérience chrétienne (1952) devait ouvrir plusieurs pistes à la réflexion théologique, éthique et pastorale. Il a été brièvement expert au Concile Vatican IIIl eut une influence sur des théologiens comme Hans-Urs von Balthasar dans sa définition de l'expérience de foi, et sur Henri Bourgeois dans la recherche sur l'identité chrétienne. da WIKI

martedì 13 novembre 2012

PRESENTAZIONE AL TEMPIO DI MARIA

Il grande dono che poteva ricevere Gerusalemme era quello di diventare veramente la dimora di Dio. «Gerusalemme, sarà di nuovo prescelta… Io vengo ad abitare in mezzo a te… Egli dimorerà in mezzo a te (Zaccaria 2,14-17). L'immagine della dimora o del Tempio sta a significare la relazione profonda che unisce Dio con il suo popolo. La metafora viene ripresa dal Vangelo di Giovanni: Gesù dimora nel padre e Dio Padre dimora in lui. Neppure per un istante l'Uno è senza l'Altro; nell'agire di Gesù si manifesta l'opera di Dio stesso. Se questo rapporto tra le persone divine, viene applicato anche agli uomini, si crea un ideale molto grande.
La festa di oggi ci richiama proprio questa verità. Maria viene presentata al tempio per diventare dimora piena di Dio. (Gli elementi leggendari raccontati dal Protovangelo di Giacomo evidenziano questo nucleo profondo. Maria non tocca neppure la terra profanata dal peccato; entra nel santuario con grande gioia espressa in una danza e non si volta indietro verso i genitori). 
Ogni cristiano, ma soprattutto la religiosa, deve dimorare in Dio affinché Egli possa venire ad abitare in lui (o in lei). Potremo vedere questa frase in un altro modo. Poiché Dio è già sempre con noi e vive sempre in noi, e ci chiama al dialogo con lui, noi dobbiamo riscoprire questa presenza e renderla come l'alimento più profondo della nostra esistenza. Anzi qui troviamo il cuore e l'essenza profonda della spiritualità. 
Il Tempio ha esercitato un grande fascino sui cuori devoti di ogni tempo. Nella storia sacra troviamo persone che scendono di vivere sempre all'interno di un santuario: il bimbo Samuele, la profetessa Culda, Simeone e Anna, le vergini e le vedove nel nuovo testamento. «A te fui affidato fin dalla nascita, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio», esclama l'autore del salmo 22. Da parte di Dio, egli sceglie gli uomini prima ancora che nascano e li destina a se quando essi sono ancora nel grembo della loro madre. 
Tiziano. Presentazione al tempio di Maria
Ora ci sono due modi per realizzare questa spiritualità del tempio o del dimorare in Dio:

1º restare sempre con il Signore qualsiasi cosa stiamo facendo. Quindi, vivere in lui, con lui e per lui.
2º scegliere una vita in cui la preghiera abbia uno spazio preponderante o quasi esclusivo. 

Questa secondamodalità è possibile soltanto a pochi. Tuttavia tutti dobbiamo dare valore primario alla preghiera per il valore primario che essa detiene ma anche per poter dedicare a Dio tutta la nostra vita e tutto noi stessi. Quanto più è il tempo che diamo alla preghiera, tanto più diventiamo appartenenti a Dio padre, luogo in cui egli abita, l'uomo da dove può risplendere.


Maria bambina nel Protovangelo di Giacomo (libro apocrifo)


6. [1] La bambina si fortificava di giorno in giorno e, quando raggiunse l'eta di sei mesi, sua madre la pose per terra per provare se stava diritta.
Ed essa, fatti sette passi, tornò in grembo a lei che la riprese, dicendo: " (Com'è vero che) vive il Signore mio Dio, non camminerai su questa terra fino a quando non ti condurrò nel tempio del Signore".
Così, nella camera sua fece un santuario e attraverso le sue mani non lasciava passare nulla di profano e di impuro. A trastullarla chiamò le figlie senza macchia degli Ebrei.
[2] Quando la bambina compì l'anno, Gioacchino fece un gran convito: invitò i sacerdoti, gli scribi, il consiglio degli anziani e tutto il popolo di Israele.
Gioacchino presentò allora la bambina ai sacerdoti, i quali la benedissero, dicendo: "O Dio dei nostri padri, benedici questa bambina e dà a lei un nome rinomato in eterno in tutte le generazioni".
E tutto il popolo esclamò: "Così sia, così sia! Amen".
La presentò anche ai sommi sacerdoti, i quali la benedissero, dicendo: "O Dio delle sublimità, guarda questa bambina e benedicila con l'ultima benedizione, quella che non ha altre dopo di sè.
[3] Poi la madre la portò via nel santuario della sua camera, e le diede la poppa.
Anna innalzò quindi un cantico al Signore Iddio, dicendo: "Canterò un cantico al Signore, Dio mio, poiché mi ha visitato e ha tolto da me quello che per i miei nemici era un obbrobrio: il Signore, infatti, mi ha dato un frutto di giustizia, unico e molteplice dinanzi a lui.
Chi mai annunzierà ai figli di Ruben che Anna allatta?
Ascoltate, ascoltate, voi, dodici tribù di Israele: Anna allatta!".
La pose a giacere nel santuario della sua camera e uscì per servire loro a tavola.
Terminato il banchetto, se ne partirono pieni di allegria, glorificando il Dio di Israele.


7. [1] Per la bambina passavano intanto i mesi.
Giunta che fu l'età di due anni, Gioacchino disse a Anna: "Per mantenere la promessa fatta, conduciamola al tempio del Signore, affinché il Padrone non mandi contro di noi e la nostra offerta riesca sgradita".
Anna rispose: "Aspettiamo il terzo anno, affinché la bambina non cerchi poi il padre e la madre". Gioacchino rispose: "Aspettiamo".
Vittore Carpaccio, Maria è portata al tempio
[2] Quando la bambina compì i tre anni, Gioacchino disse: "Chiamate le figlie senza macchia degli Ebrei: ognuna prenda una fiaccola accesa e la tenga accesa affinché la bambina non si volti indietro e il suo cuore non sia attratto fuori del tempio del Signore".
Quelle fecero così fino a che furono salite nel tempio del Signore.
Il sacerdote l'accolse e, baciatala, la benedisse esclamando: "Il Signore ha magnificato il tuo nome in tutte le generazioni.
Nell'ultimo giorno, il Signore manifesterà in te ai figli di Israele la sua redenzione".
[3] La fece poi sedere sul terzo gradino dell'altare, e il Signore Iddio la rivestì di grazia; ed ella danzò con i suoi piedi e tutta la casa di Israele prese a volerle bene.


8. [1] I suoi genitori scesero ammirati e lodarono il Padrone Iddio perché la bambina non s'era voltata indietro.
Maria era allevata nel tempio del Signore come una colomba, e riceveva il vitto per mano di un angelo.

venerdì 9 novembre 2012

PROFESSIONE DEL CRISTIANO (Gregorio di NIssa)

Sirmione
Esaminiamo dunque innanzi tutto che cosa si deve intendere per cristianesimo proprio in base a questo nome. Un significato certamente più alto e sublime, pari all'altezza del termine, potranno trovarlo i più esperti. Per quanto però ci riguarda, ecco ciò che riusciamo a vedere in esso: il nome di Cristo, trasposto in una parola più chiara e più facilmente comprensibile, sta ad indicare il re, giacché la Sacra Scrittura, secondo una sua abitudine peculiare, con questa parola allude alla dignità regale. Ma poiché, come dice la Scrittura, la divinità è una cosa ineffabile e incomprensibile e trascende ogni pensiero conoscitivo, i profeti e gli apostoli animati dallo Spirito Santo si servono necessariamente di molti nomi e concetti per condurci alla comprensione della natura incorruttibile: un concetto degno della divinità ci guida subito verso un altro. 
Di conseguenza, la sovranità su tutte le cose è indicata dal nome « regno », mentre il fatto che essa è esente e libera da qualsiasi passione e da qualsiasi vizio trova espressione nei nomi delle virtù, ciascuna delle quali va pensata e predicata a proposito della divinità superiore. Questa natura superiore è quindi giustizia, sapienza, potenza, verità, bontà, vita, salvezza, incorruttibilità, immutabilità e inalterabilità; e Cristo s'identifica con tutti i concetti elevati indicati da tali nomi, e riceve da essi i suoi appellativi. Se dunque nel nome di Cristo si possono pensare compresi tutti i concetti più alti (il significato più alto comprende anche i rimanenti, così come nel concetto di regno si vedono tutti gli altri concetti), possiamo forse, di conseguenza, arrivare a comprendere il significato del termine « cristianesimo ». Se noi, unendoci a Cristo tramite la fede che abbiamo in lui, prendiamo Io stesso nome di colui che trascende i nomi che esprimono la natura incorruttibile, ne consegue necessariamente che diventano nostri appellativi anche tutti quei concetti che si vedono presenti nella natura incorruttibile perché legati al nome di Cristo. Come abbiamo ricevuto il nome di cristiani perché siamo divenuti partecipi di Cristo, cosi, di conseguenza, dobbiamo entrare in comunione con tutti i nomi più alti; e come chi tira a sé il gancio estremo di una catena tira anche tutti gli anelli attaccati strettamente gli uni agli altri pur tirandone uno solo, cosi, giacché nel nome di Cristo sono strettamente uniti anche i rimanenti termini che esprimono la natura beata, ineffabile e molteplice della divinità, colui che ne afferra uno non può non trascinare assieme ad esso anche i rimanenti. 

Calunnia dunque il nome di Cristo chi se ne appropria senza però far mostra nella sua vita delle virtù che si contemplano in esso: secondo l'esempio da noi prima citato, fa indossare alla scimmia una maschera priva di vita, che di umano ha solo la forma. Come Cristo non può non essere giustizia, purezza, verità e allontanamento da ogni male, cosi non può essere cristiano (parlo del vero cristiano) chi non prova la presenza in sé anche di questi altri nomi. Per esprimere con una definizione il concetto di cristianesimo, diremo che il cristianesimo consiste nell'imitazione della natura divina. Nessuno muova rimproveri a questo mio ragionamento, come se fosse esagerato e superasse gli angusti limiti della nostra natura: la definizione da noi data non va al di là di essa. Se si pensa alla primitiva conformazione dell'uomo, gli insegnamenti della Scrittura mostrano che la definizione non oltrepassa la misura naturale. La primitiva conformazione dell'uomo imitava infatti la somiglianzà a Dio; questa verità insegna Mosè a proposito dell'uomo là dove dice: « Dio creò l'uomo: lo creò secondo l'immagine di Dio ». La professione cristiana consiste nel far ritornare l'uomo alla primitiva condizione fortunata. 



Allontanare ogni vizio

Se anticamente l'uomo era simile a Dio, dicendo che il cristianesimo è un'imitazione della natura divina non abbiamo forse dato una definizione priva di senso. La professione di questo nome è dunque una cosa seria. È ora il momento di vedere se chi fa mostra solo del nome senza uniformare la propria vita a questa regola corre o no dei rischi. La questione potrebbe chiarirsi con un esempio. Supponiamo che uno vada dicendo di conoscere l'arte della pittura, e che riceva da un magistrato l'ordine di raffigurare l'immagine del rè per coloro che risiedono in zone lontane. Se, dopo avere delineato su di una tavola una figura brutta e deforme, chiamasse « immagine del rè » questo sconveniente dipinto, non attirerebbe forse giustamente su di sé l'ira delle autorità? A causa del suo brutto dipinto le persone ignare offenderebbero infatti la bellezza del modello. La forma mostrata dall'immagine è ritenuta necessariamente anche la forma del modello. Se allora, in base alla definizione , il cristianesimo è imitazione di Dio, chi non ha ancora ricevuto l'istruzione sacramentale è portato a credere che il nostro Dio sia identico alla vita che egli ha modo di osservare e che, secondo la nostra fede, si basa sulla sua imitazione: se vede i segni del bene, crede che il Dio da noi venerato sia buono. Chi però diventa preda delle passioni e si rende simile a una bestia, trasformandosi ora in una passione ora in un'altra, facendo assumere al proprio carattere l'aspetto di varie bestie — è possibile vederle subito, una volta che sono state formate dalle deviazioni della nostra natura — e professandosi quindi cristiano, con la propria vita rende riprovevole tra gl'infedeli il Dio in cui noi crediamo, giacché tutti sanno bene che il professarsi cristiani indica l'imitazione di Dio. Per questo la Scrittura lancia contro costoro una minaccia paurosa là dove dice: « Guai a coloro a causa dei quali il mio nome è bestemmiato tra i popoli ». 
Mi sembra che il Signore proprio per condurci alla comprensione di questo pensiero abbia detto a coloro che erano capaci di ascoltarlo: « Diventate perfetti, com'è perfetto il vostro Padre celeste ». Chi chiama il vero Padre « Padre dei fedeli » vuole che anche coloro che sono generati tramite lui si avvicinino ai beni perfetti che si contemplano in lui. Tu mi chiederai: « Ma come può la piccolezza umana raggiungere la beatitudine che si vede in Dio? La nostra impotenza non risulta chiara proprio dal comandamento? Com'è possibile che la creatura terrena diventi simile a colui che è nei cieli, quando proprio la differenza tra le due nature mostra l'impossibilità dell'imitazione? È ugualmente impossibile adeguare la vista alla grandezza celeste e alle sue bellezze e rendere l'uomo nato dalla terra simile al Dio celeste ». Ma ciò che diciamo a tal proposito è chiaro: il vangelo ci ordina non di paragonare tra loro le due nature, l'umana e la divina, ma d'imitare nella nostra vita, per quanto è possibile, le buone azioni di Dio. Quali sono dunque fra le nostre azioni quelle che possono assomigliare alle azioni di Dio? L'allontanamento da ogni vizio nella misura possibile e la purificazione dalle sue sporcizie nelle opere, nelle parole e nel pensiero rappresentano la vera imitazione della perfezione del Dio celeste.



La natura divina tocca ciascun essere

Non mi sembra che il vangelo dica che il cielo, in quanto elemento, è la sede separata di Dio, là dove ci comanda di diventare perfetti come il Padre celeste, giacché Dio si trova in uguale misura in tutte le cose ed attraversa tutto il creato in modo uguale, e nulla potrebbe continuare ad esistere se fosse separato dall'essere superiore: la natura divina tocca allo stesso modo ciascun essere, stringendo tutto dentro di sé con la sua forza che tutto abbraccia.... La sede celeste non è la sede separata ed esclusiva di Dio. Purtuttavia, la dimora superiore è in grado di purificarci dal vizio, come ci fa intendere per enigmi la Scrittura in molti passi; e in questa vita bassa e materiale si fanno sentire le passioni del vizio, giacché lo scopritore del vizio, il serpente, si attorciglia e striscia sulla vita terrena, come ricorda a proposito di lui il sacro racconto in modo enigmatico, là dove dice « cammina sul petto e sul ventre e si nutre sempre di terra »: questo tipo di movimento sta ad indicare il tipo di nutrizione, giacché questa bassa vita è fatta di terra, assume il movimento strisciante del multiforme vizio e diventa nutrimento della bestia che striscia su di essa. 
Il Signore, ordinandoci d'imitare il Padre celeste, ci ordina quindi di purificarci dalle passioni terrene; da esse ci possiamo allontanare non spostandoci da un posto all'altro, ma soltanto con la nostra volontà. Se dunque l'allontanamento dal male può essere prodotto soltanto dall'impulso del pensiero, le parole del vangelo non ci comandano nulla di faticoso.

da La professione del cristiano di san Gregorio di Nissa

LA SCIMMIA DI ALESSANDRIA

San Zeno libera una donna indemoniata
Chi desidera essere chiamato medico, retore o geometra non vuole essere criticato per questo suo nome a causa della sua ignoranza, qualora esso alla prova dei fatti non risultasse rispondente alla realtà: se desidera avere veramente tali nomi li rende credibili con i fatti, per evitare che risultino falsi. Allo stesso modo anche noi, se nel corso del nostro esame riuscissimo a trovare il vero significato della professione cristiana, non accetteremmo mai di non essere ciò che il nostro nome esprime nei nostri riguardi: in caso contrario, la storia della scimmia cosi diffusa tra i pagani riguarderebbe anche noi da vicino. Si narra che ad Alessandria un giocoliere addestrasse una scimmia a compiere agili movimenti di danza, e le facesse indossare una maschera da danzatore ed una veste adatta a tale attività; il coro dei danzatori che stava attorno alla scimmia ne ricavava gloria, mentre essa si contorceva tutta al ritmo della musica e con i suoi movimenti e le sue sembianze nascondeva la propria natura. Mentre tutto il teatro era preso dalla novità dello spettacolo, un burlone mostrò con uno scherzo agli spettatori che assistevano a bocca aperta alla scena che la scimmia era in realtà solo una scimmia. Proprio nel momento in cui tutti gridavano e applaudivano ai contorcimenti della scimmia che si muoveva ritmicamente secondo il canto e la musica, gettò sull'orchestra quei frutti secchi che allettano la golosità di questi animali. Viste le mandorle sparse davanti al coro, la scimmia non esitò un istante: senza pensare più alla danza, agli applausi e agli ornamenti della veste, corse verso di esse e afferrò con le palme delle mani ciò che trovava; e perché la maschera non le chiudesse la bocca, rimosse quella fìnta sembianza lacerandola per bene con le unghie. In luogo delle lodi e dell'ammirazione provocò le risa degli spettatori mostrando il suo brutto e ridicolo aspetto sotto i resti della maschera. 
Come la finta sembianza non bastò alla scimmia a farla sembrare un uomo, giacché la sua vera natura si rivelò nell'avidità per quei frutti secchi, cosi coloro che non danno con la fede una vera impronta alla loro natura si rivelano diversi da ciò che professano di essere una volta allettati dalle ghiottonerie offerte dal diavolo. Al posto dei fichi secchi, delle mandorle e di altre simili cose il cattivo mercato del diavolo offre infatti agli uomini golosi la vanità, l'ambizione, la cupidigia e l'amore per il piacere, e conduce quindi facilmente alla prova dei fatti le anime simili alle scimmie: questi uomini fingono di essere cristiani con un'imitazione esteriore, ma quando giunge il momento di soffrire distruggono la maschera della temperanza, della mitezza e delle altre virtù. È dunque necessario pensare al significato della professione cristiana: potremmo forse diventare ciò che indica il nome, evitando cosi di far consistere la nostra trasformazione unicamente nel nome e nella sua esteriorità e di rivelarci quindi di fronte a colui che vede le cose nascoste diversi dalle nostre sembianze.

Gregorio di Nissa, La professione del cristiano, Città Nuova, pp. 66-68 (tr. Lilla)

martedì 23 ottobre 2012

DIO O MAMMONA


Quentin Metsys (Lovanio 1466 - Anversa 1530)
II cambiavalute e sua moglie, 1514 (cm 70,5x67) - olio su tavola
Parigi, Museo del Louvre

Firmato e datato 1514 sulla pergamena appoggiata sopra il libro raffigurato in altro a destra, il dipinto è considerato una pietra miliare nella storia della pittura a soggetto. Si tratta di una raffigurazione di un momento di vita quotidiana di una coppia della ricca borghesia mercantile di Anversa. Lo spazio è equamente suddiviso fra il marito e la moglie. L'uomo è intento a pesare una moneta fra le tante d'oro che sono ammucchiate sul tappeto verde; è certamente assai ricco, come testimoniano la severa qualità dell'abito, la grande coppa di cristallo di rocca con finimenti in oro, il sacchetto di velluto aperto e pieno di perle. La donna, al contrario, che guarda come svagata quanto il marito sta facendo, ha appena levato gli occhi da un prezioso libro di preghiere riccamente miniato.

A ben guardare, ci sono altre presenze nel pur piccolo quadro: in alto a destra intravvediamo dalla finestra accostata due personaggi sulla strada che stanno chiacchierando. Più importante pare, invece, essere il personaggio che sta leggendo dentro la stanza stessa ma al di qua del dipinto, dove siamo anche noi spettatori, e che è riflesso sullo specchio convesso posto fra i due coniugi.

Difficile immaginare che il dipinto di un pittore che traeva guadagno e fama dai lavori che effettuava per la ricca borghesia di Anversa - e che qui ne rappresenta un significativo scorcio - sia una feroce critica al denaro, come qualcuno ha voluto vedere. Pare, invece, volerci comunque trasmettere l'esistenziale dilemma che c'è nell'uomo fra la ricchezza e l'interiorità, fra ['avere e l'essere, fra Dio e «mammona».
E ciascuno di noi, come il lettore al di qua del quadro che è come spettatore riflesso ma riflettente, ha la responsabilità di scegliere, di mediare, di trovare la risposta per la propria esistenza.

da Pass-word, Azione Cattolica italiana, percorso formativo per gruppi adulti, AVE , p. 116. 

lunedì 15 ottobre 2012

preghiera e meditazione

Alcuni aspetti 
della meditazione cristiana
Parona (Verona), Il bastone fiorito di Aronne,
scena del baldacchino processionale

I

INTRODUZIONE


1. In molti cristiani del nostro tempo è vivo il desiderio di imparare a pregare in modo autentico e approfondito, nonostante le non poche difficoltà che la cultura moderna pone all’avvertita esigenza di silenzio, di raccoglimento e di meditazione. L’interesse che forme di meditazione connesse a talune religioni orientali e ai loro peculiari modi di preghiera in questi anni hanno suscitato anche tra i cristiani è un segno non piccolo di tale bisogno di raccoglimento spirituale e di profondo contatto col mistero divino. Di fronte a questo fenomeno, tuttavia, da molte parti è sentita pure la necessità di poter disporre di sicuri criteri di carattere dottrinale e pastorale che consentano di educare alla preghiera, nelle sue molteplici manifestazioni, restando nella luce della verità rivelatasi in Gesù, tramite la genuina tradizione della Chiesa. A tale urgenza intende rispondere la presente Lettera, affinché nelle varie Chiese particolari, la pluralità di forme, anche nuove, di preghiera non ne faccia mai perdere di vista la precisa natura, personale e comunitaria. Queste indicazioni sono rivolte anzitutto ai Vescovi perché le rendano oggetto di sollecitudine pastorale verso le Chiese, loro affidate, così che tutto il popolo di Dio – sacerdoti, religiosi e laici – sia richiamato a pregare, con rinnovato vigore, il Padre mediante lo Spirito di Cristo nostro Signore.

2. II contatto sempre più frequente con altre religioni e con i loro differenti stili e metodi di preghiera, ha condotto negli ultimi decenni molti fedeli a interrogarsi sul valore che possono avere per i cristiani forme non cristiane di meditazione. La questione riguarda soprattutto i metodi orientali. C’è chi si rivolge oggi a tali metodi per motivi terapeutici: la irrequietezza spirituale di una vita sottoposta al ritmo assillante della società tecnologicamente avanzata spinge anche un certo numero di cristiani a cercare in essi la via della calma interiore e dell’equilibrio psichico. Questo aspetto psicologico non sarà considerato nella presente Lettera, che intende invece evidenziare le implicazioni teologiche e spirituali della questione. Altri cristiani, sulla scia del movimento di apertura e di scambio con religioni e culture diverse, sono del parere che la loro stessa preghiera abbia molto da guadagnare da tali metodi. Rilevando che, in tempi recenti, non pochi metodi tradizionali di meditazione, peculiari del cristianesimo, sono caduti in disuso, costoro si chiedono: non sarebbe allora possibile, attraverso una nuova educazione alla preghiera, arricchire la nostra eredità incorporandovi anche ciò che le era finora estraneo?

3. Per rispondere a questa domanda, occorre anzitutto considerare, sia pure a grandi linee, in che cosa consista la natura intima della preghiera cristiana, per vedere in seguito se e come possa essere arricchita da metodi di meditazione nati nel contesto di religioni e culture diverse. È necessario a tale scopo formulare una decisiva premessa. La preghiera cristiana è sempre determinata dalla struttura della fede cristiana, nella quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura. Per questo essa si configura, propriamente parlando, come un dialogo personale, intimo e profondo, tra l’uomo e Dio. Essa esprime quindi la comunione delle creature redente con la vita intima delle Persone trinitarie. In questa comunione, che si fonda sul battesimo e sull’eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa, è implicato un atteggiamento di conversione, un esodo dall’io verso il Tu di Dio. La preghiera cristiana quindi è sempre allo stesso tempo autenticamente personale e comunitaria. Rifugge da tecniche impersonali o incentrate sull’io, capaci di produrre automatismi nei quali l’orante resta prigioniero di uno spiritualismo intimista, incapace di un’apertura libera al Dio trascendente. Nella Chiesa la legittima ricerca di nuovi metodi di meditazione dovrà sempre tener conto che a una preghiera autenticamente cristiana è essenziale l’incontro di due libertà, quella infinita di Dio con quella finita dell’uomo.


II

LA PREGHIERA CRISTIANA
ALLA LUCE DELLA RIVELAZIONE


4. Come debba pregare l’uomo che accoglie la rivelazione biblica lo insegna la Bibbia stessa. Nell’Antico Testamento c’è una meravigliosa raccolta di preghiere, rimasta viva lungo i secoli anche nella Chiesa di Gesù Cristo, nella quale essa è diventata la base della preghiera ufficiale: il Libro delle Lodi o dei Salmi. Preghiere del tipo dei Salmi si trovano già in testi più antichi o vengono riecheggiate in testi più recenti dell’Antico Testamento. Le preghiere del Libro dei Salmi narrano anzitutto le grandi opere di Dio per il popolo eletto. Israele medita, contempla e rende di nuovo presenti le meraviglie di Dio, facendone memoria attraverso la preghiera.
Nella rivelazione biblica Israele giunge a riconoscere e lodare Dio, presente in tutta la creazione e nel destino di ogni uomo. Così Lo invoca, ad esempio, come soccorritore nel pericolo, nella malattia, nella persecuzione, nella tribolazione. Infine, sempre alla luce delle sue opere salvifiche, Egli viene celebrato nella sua divina potenza e bontà, nella sua giustizia e misericordia, nella sua regale grandezza.


5. Grazie alle parole, alle opere, alla Passione e Risurrezione di Gesù Cristo, nel Nuovo Testamento la fede riconosce in Lui la definitiva autorivelazione di Dio, la Parola incarnata che svela le profondità più intime del suo amore. E lo Spirito Santo che fa penetrare in queste profondità di Dio, lui che, inviato nel cuore dei credenti, «scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1 Cor 2,10). Lo Spirito, secondo la promessa di Gesù ai discepoli, spiegherà tutto ciò che Egli non poteva ancora dire loro. Però lo Spirito «non parlerà da sé,... ma mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,13s). Quello che Gesù chiama qui «suo» è, come spiega in seguito, anche di Dio Padre, perché «tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,15).
Gli autori del Nuovo Testamento, con piena consapevolezza, hanno sempre parlato della rivelazione di Dio in Cristo all’interno di una visione illuminata dallo Spirito Santo. I Vangeli sinottici narrano le opere e le parole di Gesù Cristo in base alla comprensione più profonda, acquisita dopo la Pasqua, di ciò che i discepoli avevano visto e udito; tutto il Vangelo di Giovanni respira della contemplazione di colui che fin dall’inizio è il Verbo di Dio fatto carne; Paolo, al quale Gesù è apparso sulla via di Damasco nella sua maestà divina, tenta di educare i fedeli perché siano «in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità [del Mistero di Cristo] e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, per essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,18s). Per Paolo il «Mistero di Dio è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3) e – precisa l’Apostolo –: «Dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti» (v. 4).

6. Esiste quindi uno stretto rapporto fra la rivelazione e la preghiera. La Costituzione dogmatica Dei Verbum ci insegna che mediante la sua rivelazione Dio invisibile «nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cf Es 33,11; Gv 15,14‑15) e si intrattiene con essi (cf Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé».
Questa rivelazione si è attuata attraverso parole e opere che rinviano sempre, reciprocamente, le une alle altre; fin dall’inizio e di continuo tutto converge verso Cristo, pienezza della rivelazione e della grazia, e verso il dono dello Spirito Santo. Questi rende l’uomo capace di accogliere e contemplare le parole e le opere di Dio e di ringraziano e adorarlo, nell’assemblea dei fedeli e nell’intimità del proprio cuore illuminato dalla grazia.
Per questo la Chiesa raccomanda sempre la lettura della Parola di Dio come sorgente della preghiera cristiana, e allo stesso tempo esorta a scoprire il senso profondo della Sacra Scrittura mediante la preghiera «affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché “gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini”».

7. Da quanto è stato ricordato derivano subito alcune conseguenze. Se la preghiera del cristiano deve inserirsi nel movimento trinitario di Dio, il suo contenuto essenziale dovrà necessariamente essere anche determinato dalla duplice direzione di tale movimento: nello Spirito Santo il Figlio viene nel mondo per riconciliarlo col Padre attraverso le sue opere e le sue sofferenze; d’altra parte, nello stesso movimento e nel medesimo Spirito, il Figlio incarnato ritorna al Padre, compiendo la sua volontà mediante la Passione e la Risurrezione. II «Padre nostro», la preghiera di Gesù, indica chiaramente l’unità di questo movimento: la volontà del Padre deve realizzarsi sulla terra come in cielo (le richieste di pane, di perdono, di protezione esplicitano le dimensioni fondamentali della volontà di Dio verso di noi) affinché una nuova terra viva e si sviluppi nella Gerusalemme celeste.
È alla Chiesa che la preghiera di Gesù viene consegnata («così voi dovete pregare», Mt 6,9) e per questo la preghiera cristiana, anche quando avviene nella solitudine, in realtà è sempre all’interno di quella «comunione dei santi» nella quale e con la quale si prega, tanto in forma pubblica e liturgica quanto in forma privata. Pertanto, essa deve compiersi sempre nello spirito autentico della Chiesa in preghiera e quindi sotto la sua guida, che può concretizzarsi talvolta in una direzione spirituale sperimentata. Il cristiano, anche quando è solo e prega nel segreto, ha la consapevolezza di pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito Santo, insieme con tutti i santi per il bene della Chiesa.



III

MODI ERRONEI DI PREGARE


8. Già nei primi secoli s’insinuarono nella Chiesa modi erronei di pregare, di cui già alcuni testi del Nuovo Testamento (cf 1 Gv 4,3; 1 Tm 1,3‑7 e 4,3‑4) fanno riconoscere le tracce. In seguito si possono rilevare due deviazioni fondamentali: la pseudognosi e il messalianismo, di cui si sono occupati i Padri della Chiesa. Da quella primitiva esperienza cristiana e dall’atteggiamento dei Padri si può imparare molto per affrontare la problematica contemporanea.
Contro la deviazione della pseudognosi i Padri affermano che la materia è creata da Dio e come tale non è cattiva. Inoltre sostengono che la grazia, la cui sorgente è sempre lo Spirito Santo, non è un bene proprio dell’anima, ma dev’essere impetrata da Dio come dono. Perciò l’illuminazione o conoscenza superiore dello Spirito («gnosi»), non rende superflua la fede cristiana. Infine, per i Padri, il segno autentico di una conoscenza superiore, frutto della preghiera, è sempre l’amore cristiano.

9. Se la perfezione della preghiera cristiana non può essere valutata in base alla sublimità della conoscenza gnostica, non può esserlo neppure in riferimento all’esperienza del divino, alla maniera del messalianismo. I falsi carismatici del IV secolo identificavano la grazia dello Spirito Santo con l’esperienza psicologica della sua presenza nell’anima. Contro di essi i Padri insistettero sul fatto che l’unione dell’anima orante con Dio si compie nel mistero, in particolare attraverso i sacramenti della Chiesa. Essa può inoltre realizzarsi perfino attraverso esperienze di afflizione e anche di desolazione. Contrariamente all’opinione dei Messaliani, queste non sono necessariamente un segno che lo Spirito ha abbandonato l’anima. Come hanno sempre chiaramente riconosciuto i maestri spirituali, possono invece essere un’autentica partecipazione allo stato di abbandono di Nostro Signore sulla croce, il quale resta sempre modello e mediatore della preghiera.

10. Tutte e due queste forme di errore continuano a essere una tentazione per l’uomo peccatore. Lo istigano a cercare di superare la distanza che separa la creatura dal Creatore, come qualcosa che non dovrebbe esserci; a considerare il cammino di Cristo sulla terra, con il quale egli ci vuole condurre al Padre, come realtà superata; ad abbassare ciò che viene accordato come pura grazia al livello della psicologia naturale, come «conoscenza superiore» o come «esperienza».
Riapparse di tanto in tanto nella storia ai margini della preghiera della Chiesa, tali forme erronee oggi sembrano impressionare nuovamente molti cristiani, raccomandandosi loro come rimedio, sia psicologico che spirituale, e come rapido procedimento per trovare Dio.

11. Ma queste forme erronee, dovunque sorgano, possono essere diagnosticate in maniera molto semplice. La meditazione cristiana orante cerca di cogliere nelle opere salvifiche di Dio in Cristo, Verbo Incarnato, e nel dono del suo Spirito la profondità divina, che vi si rivela sempre attraverso la dimensione umano‑terrena. Invece, in simili metodi di meditazione, anche quando si prende lo spunto da parole e opere di Gesù, si cerca di prescindere il più possibile da ciò che è terreno, sensibile e concettualmente limitato, per salire o immergersi nella sfera del divino, che in quanto tale non è né terrestre, né sensibile, né concettualizzabile. Questa tendenza, presente già nella tarda religiosità greca (soprattutto nel «neoplatonismo»), si riscontra, in fondo, nell’ispirazione religiosa di molti popoli, non appena essi abbiano riconosciuto il carattere precario delle loro rappresentazioni del divino e dei loro tentativi di avvicinarvisi.

12. Con l’attuale diffusione dei metodi orientali di meditazione nel mondo cristiano e nelle comunità ecclesiali, ci troviamo di fronte ad un acuto rinnovarsi del tentativo, non esente da rischi ed errori, di fondere la meditazione cristiana con quella non cristiana. Le proposte in questo senso sono numerose e più o meno radicali: alcune utilizzano metodi orientali solo ai fini di una preparazione psicofisica per una contemplazione realmente cristiana; altre vanno oltre e cercano di generare, con diverse tecniche, esperienze spirituali analoghe a quelle di cui si parla in scritti di certi mistici cattolici; altre ancora non temono di collocare quell’assoluto senza immagini e concetti, proprio della teoria buddista, sullo stesso piano della maestà di Dio, rivelata in Cristo, che si eleva al di sopra della realtà finita e, a tal fine, si servono di una «teologia negativa» che trascende ogni affermazione contenutistica su Dio, negando che le cose del mondo possono essere una traccia che rinvia all’infinità di Dio. Per questo propongono di abbandonare non solo la meditazione delle opere salvifiche che il Dio dell’Antica e della Nuova Alleanza ha compiuto nella storia, ma anche l’idea stessa del Dio uno e trino, che è amore, in favore di un’immersione «nell’abisso indeterminato della divinità».
Queste proposte o altre analoghe di armonizzazione tra meditazione cristiana e tecniche orientali dovranno essere continuamente vagliate con accurato discernimento di contenuti e di metodo, per evitare la caduta in un pernicioso sincretismo.




IV

LA VIA CRISTIANA DELL’UNIONE CON DIO


13. Per trovare la giusta «via» della preghiera, il cristiano considererà ciò che è stato precedentemente detto a proposito dei tratti salienti della via di Cristo, il cui «cibo è fare la volontà di colui che (lo) ha mandato a compiere la sua opera» (Gv 4,34). Gesù non vive con il Padre un’unione più intima e più stretta di questa, che per lui si traduce continuamente in una profonda preghiera. La volontà del Padre lo invia agli uomini, ai peccatori, addirittura ai suoi uccisori ed egli non può essere più intimamente unito al Padre che ubbidendo a questa volontà. Ciò non impedisce in alcun modo che nel cammino terreno egli si ritiri anche nella solitudine per pregare, per unirsi al Padre e ricevere da Lui nuovo vigore per la sua missione nel mondo. Sul Tabor, dove certamente egli è unito al Padre in maniera manifesta, viene evocata la sua passione (cf Lc 9,31) e non viene neppure presa in considerazione la possibilità di permanere in «tre tende» sul monte della trasfigurazione. Ogni preghiera contemplativa cristiana rinvia continuamente all’amore del prossimo, all’azione e alla passione, e proprio così avvicina maggiormente a Dio.

14. Per accostarsi a quel mistero dell’unione con Dio, che i Padri greci chiamavano divinizzazione dell’uomo, e per cogliere con precisione le modalità secondo cui essa si compie, occorre tener presente anzitutto che l’uomo è essenzialmente creatura e tale rimane in eterno, cosicché non sarà mai possibile un assorbimento dell’io umano nell’io divino, neanche nei più alti stati di grazia. Si deve però riconoscere che la persona umana è creata «ad immagine e somiglianza» di Dio, e l’archetipo di questa immagine è il Figlio di Dio, nel quale e per il quale siamo stati creati (cf Col 1,16). Ora questo archetipo ci svela il più grande e il più bel mistero cristiano: il Figlio è dall’eternità «altro» rispetto al Padre e tuttavia, nello Spirito Santo, è «della stessa sostanza»; di conseguenza il fatto che ci sia un’alterità, non è un male, ma piuttosto il massimo dei beni. C’è alterità in Dio stesso, che è una sola natura in Tre Persone, e c’è alterità tra Dio e la creatura, che sono per natura differenti. Infine nella santa eucaristia, come anche negli altri sacramenti – e analogamente nelle sue opere e nelle sue parole – Cristo ci dona se stesso e ci rende partecipi della sua natura divina, senza per altro sopprimere la nostra natura creata, alla quale egli stesso partecipa con la sua incarnazione.

15. Se si considerano insieme queste verità, si scopre, con profonda meraviglia, che nella realtà cristiana vengono adempiute, oltre ogni misura, tutte le aspirazioni presenti nella preghiera delle altre religioni, senza che con questo l’io personale e la sua creaturalità debbano essere annullati e scomparire nel mare dell’Assoluto. «Dio è amore» (1 Gv 4,8): questa affermazione profondamente cristiana può conciliare l’unione perfetta con l’alterità tra amante e amato, con l’eterno scambio e l’eterno dialogo. Dio stesso è questo eterno scambio, e noi possiamo in piena verità diventare partecipi di Cristo, quali «figli adottivi», e gridare con il Figlio nello Spirito Santo: «Abbà, Padre».
In questo senso, i Padri hanno pienamente ragione di parlare di divinizzazione dell’uomo che, incorporato a Cristo Figlio di Dio per natura, diventa per la sua grazia partecipe della natura divina, «figlio nel Figlio». II cristiano, ricevendo lo Spirito Santo, glorifica il Padre e partecipa realmente alla vita trinitaria di Dio.





V

QUESTIONI DI METODO


16. La maggior parte delle grandi religioni che hanno cercato l’unione con Dio nella preghiera, hanno anche indicato le vie per conseguirla. Siccome «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni», non si dovranno disprezzare pregiudizialmente queste indicazioni in quanto non cristiane. Si potrà al contrario cogliere da esse ciò che vi è di utile, a condizione di non perdere mai di vista la concezione cristiana della preghiera, la sua logica e le sue esigenze, poiché è all’interno di questa totalità che quei frammenti dovranno essere riformulati ed assunti. Tra di essi si può annoverare anzitutto l’umile accettazione di un maestro esperto nella vita di preghiera e delle sue direttive; di ciò si è sempre avuto consapevolezza nell’esperienza cristiana sin dai tempi antichi, dall’epoca dei Padri del deserto. Questo maestro, esperto nel «sentire cum ecclesia», deve non solo guidare e richiamare l’attenzione su certi pericoli, ma, quale «padre spirituale», deve anche introdurre in maniera viva, da cuore a cuore, nella vita di preghiera, che è dono dello Spirito Santo.

17. La tarda classicità non cristiana distingueva volentieri tre stadi nella vita di perfezione: la via della purificazione, dell’illuminazione e dell’unione. Questa dottrina è servita da modello per molte scuole di spiritualità cristiana. Questo schema, in se stesso valido, necessita tuttavia di alcune precisazioni, che ne permettano una corretta interpretazione cristiana, evitando pericolosi fraintendimenti.

18. La ricerca di Dio mediante la preghiera deve essere preceduta ed accompagnata dalla ascesi e dalla purificazione dai propri peccati ed errori, perché secondo la parola di Gesù soltanto «i puri di cuore vedranno Dio» (Mt 5,8). 11 Vangelo mira soprattutto a una purificazione morale dalla mancanza di verità e di amore e, su un piano più profondo, da tutti gli istinti egoistici che impediscono all’uomo di riconoscere ed accettare la volontà di Dio nella sua purezza. Non sono le passioni in quanto tali ad essere negative (come pensavano gli stoici e i neoplatonici), ma la loro tendenza egoistica. E da essa che il cristiano deve liberarsi: per arrivare a quello stato di libertà positiva che la classicità cristiana chiamava «apatheia», il Medio Evo «impassibiitas», e gli Esercizi Spirituali ignaziani «indiferencia».
Ciò è impossibile senza una radicale abnegazione, come si vede anche in san Paolo che usa apertamente la parola «mortificazione» (delle tendenze peccaminose). Solo questa abnegazione rende l’uomo libero di realizzare la volontà di Dio e di partecipare alla libertà dello Spirito Santo.


19. Dovrà perciò essere interpretata rettamente la dottrina di quei maestri che raccomandano di «svuotare» lo spirito da ogni rappresentazione sensibile e da ogni concetto, mantenendo però una amorosa attenzione a Dio, così che rimanga nell’orante un vuoto che può allora essere riempito dalla ricchezza divina. Il vuoto di cui Dio ha bisogno è quello della rinuncia al proprio egoismo, non necessariamente quello della rinuncia alle cose create che egli ci ha donato e tra le quali ci ha posti. Non vi è dubbio che nella preghiera ci si deve concentrare interamente su Dio ed escludere il più possibile quelle cose di questo mondo che ci incatenano al nostro egoismo. Sant’Agostino è su questo punto un maestro insigne: se vuoi trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore e rientra in te stesso. Tuttavia, prosegue, non rimanere in te stesso, ma oltrepassa te stesso, perché tu non sei Dio: Egli è più profondo e più grande dite. «Cerco la sua sostanza nella mia anima e non la trovo; ho meditato tuttavia sulla ricerca di Dio e, proteso verso di lui, attraverso le cose create, ho cercato di conoscere le “perfezioni invisibili di Dio” (Rm 1,20)». Restare in se stessi: ecco il vero pericolo. II grande Dottore della Chiesa raccomanda di concentrarsi in se stessi, ma anche di trascendere l’io che non è Dio, ma solo una creatura. Dio è «interior intimo meo, et superior summo meo». Dio infatti è in noi e con noi, ma ci trascende nel suo mistero.

20. Dal punto di vista dogmatico, è impossibile arrivare all’amore perfetto di Dio se si prescinde dalla sua autodonazione nel Figlio incarnato, crocifisso e risuscitato. In Lui, sotto l’azione dello Spirito Santo, prendiamo parte, per pura grazia, alla vita intradivina. Quando Gesù dice: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9), non intende semplicemente la visione e la conoscenza esteriori della sua figura umana («la carne non giova a nulla», Gv 6,63). Ciò che intende è piuttosto un «vedere» reso possibile dalla grazia della fede: vedere attraverso la manifestazione sensibile di Gesù ciò che questi, quale Verbo del Padre, vuole veramente mostrarci di Dio («È lo Spirito che dà la vita [...]; le parole che vi ho dette sono spirito e vita», ibid.). In questo «vedere» non si tratta dell’astrazione puramente umana («abstractio») dalla figura in cui Dio si è rivelato, ma del cogliere la realtà divina nella figura umana di Gesù, del cogliere la sua dimensione divina ed eterna nella sua temporalità. Come dice sant’Ignazio negli Esercizi spirituali, dovremmo tentare di cogliere «il profumo infinito e la dolcezza infinita della divinità» (n. 124), partendo dalla finita verità rivelata dalla quale abbiamo iniziato. Mentre ci eleva, Dio è libero di «svuotarci» di tutto ciò che ci trattiene in questo mondo, di attirarci completamente nella vita trinitaria del suo amore eterno. Tuttavia, questo dono può essere concesso solo «in Cristo attraverso lo Spirito Santo» e non attraverso le proprie forze, astraendo dalla sua rivelazione.

21. Nel cammino della vita cristiana alla purificazione segue l’illuminazione mediante l’amore che il Padre ci dona nel Figlio e l’unzione che da Lui riceviamo nello Spirito Santo (cf 1 Gv 2,20).
Fin dall’antichità cristiana si fa riferimento alla «illuminazione» ricevuta nel battesimo. Essa introduce i fedeli, iniziati ai divini misteri, alla conoscenza di Cristo mediante la fede che opera per mezzo della carità. Anzi, alcuni scrittori ecclesiastici parlano in modo esplicito dell’illuminazione ricevuta nel battesimo come fondamento di quella sublime conoscenza di Cristo Gesù (cf Fu 3,8) che viene definita come «theoria» o contemplazione.
I fedeli, con la grazia del battesimo, sono chiamati a progredire nella conoscenza e nella testimonianza dei misteri della fede mediante «la profonda intelligenza che essi esperiscono delle cose spirituali». Nessuna luce di Dio rende superate le verità della fede. Le eventuali grazie di illuminazione che Dio può concedere aiutano piuttosto a chiarir meglio la dimensione più profonda dei misteri confessati e celebrati dalla Chiesa, in attesa che il cristiano possa contemplare Dio come Egli è nella gloria (cf 1 Gv 3,2).

22. 11 cristiano orante, infine, può arrivare, se Dio lo vuole, ad una esperienza particolare di unione. I sacramenti, soprattutto il battesimo e l’eucaristia, sono l’inizio obiettivo dell’unione del cristiano con Dio. Su questo fondamento, per una speciale grazia dello Spirito, l’orante può essere chiamato a quel tipo peculiare di unione con Dio che, nell’ambito cristiano, viene qualificato come mistica.

23. Certamente il cristiano ha bisogno di determinati tempi di ritiro nella solitudine per raccogliersi e ritrovare, presso Dio, il suo cammino. Ma dato il suo carattere di creatura, e di creatura che sa di essere al sicuro solo nella grazia, il suo modo di avvicinarsi a Dio non si fonda su alcuna tecnica nel senso stretto della parola. Ciò contraddirebbe lo spirito d’infanzia richiesto dal Vangelo. La mistica cristiana autentica non ha niente a che vedere con la tecnica: è sempre un dono di Dio, di cui chi ne beneficia si sente indegno.

24. Ci sono determinate grazie mistiche, conferite ad esempio ai fondatori di istituzioni ecclesiali in favore di tutta la loro fondazione nonché ad altri santi, che caratterizzano la loro peculiare esperienza di preghiera e che non possono, come tali, essere oggetto di imitazione e di aspirazione per altri fedeli, anche appartenenti alla stessa istituzione, e desiderosi di una preghiera sempre più perfetta. Possono esserci diversi livelli e diverse modalità di partecipazione all’esperienza di preghiera di un fondatore, senza che a tutti debba venir conferita la medesima forma. Del resto l’esperienza di preghiera che ha un posto privilegiato in tutte le istituzioni autenticamente ecclesiali antiche e moderne, è sempre in ultima analisi qualcosa di personale. Ed è alla persona che Dio dona le sue grazie in vista della preghiera.

25. A proposito della mistica si deve distinguere tra i doni dello Spirito Santo e i carismi accordati in modo totalmente libero da Dio. I primi sono qualcosa che ogni cristiano può ravvivare in sé attraverso una vita zelante di fede, di speranza e di carità e così, attraverso una seria ascesi, arrivare ad una certa esperienza di Dio e dei contenuti della fede. Quanto ai carismi san Paolo dice che essi sono soprattutto in favore della Chiesa, degli altri membri del Corpo mistico di Cristo (cf 1 Cor 12,7). A questo proposito, va ricordato sia che i carismi non possono essere identificati con dei doni straordinari («mistici») (cf Rm 12,3‑21), sia che la distinzione fra i «doni dello Spirito Santo» e i «carismi» può essere fluida. Certo è che un carisma fecondo per la Chiesa non può, nell’ambito neotestamentario, venir esercitato senza un determinato grado di perfezione personale e che, d’altra parte, ogni cristiano «vivo» possiede un compito peculiare (e in questo senso un «carisma») «per l’edificazione del Corpo di Cristo» (cf Ef 4,15‑16), in comunione con la Gerarchia, alla quale «spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono» (LG n. 12).


VI

METODI PSICOFISICI‑CORPOREI


26. L’esperienza umana dimostra che la posizione e l’atteggiamento del corpo non sono privi d’influenza sul raccoglimento e la disposizione dello spirito. E un dato al quale alcuni scrittori spirituali dell’Oriente e dell’Occidente cristiano hanno prestato attenzione.
Le loro riflessioni, pur presentando punti in comune con i metodi orientali non cristiani di meditazione, evitano quelle esagerazioni o unilateralità che, invece, spesso vengono oggi proposte a persone non sufficientemente preparate.
Questi autori spirituali hanno adottato quegli elementi che facilitano il raccoglimento nella preghiera, riconoscendone al contempo anche il valore relativo: essi sono utili se riformulati in vista del fine della preghiera cristiana. Ad esempio, il digiuno nel cristianesimo possiede anzitutto il significato di un esercizio di penitenza e di sacrificio, ma già presso i Padri, era anche finalizzato a rendere l’uomo più disponibile all’incontro con Dio ed il cristiano più capace di dominio di sé e allo stesso tempo più attento ai fratelli bisognosi.
Nella preghiera è tutto l’uomo che deve entrare in relazione con Dio, e dunque anche il suo corpo deve assumere la posizione più adatta per il raccoglimento. Tale posizione può esprimere in modo simbolico la preghiera stessa, variando a seconda delle culture e della sensibilità personale. In alcune aree, i cristiani, oggi, stanno acquisendo maggior consapevolezza di quanto l’atteggiamento del corpo possa favorire la preghiera.

27. La meditazione cristiana dell’oriente ha valorizzato il simbolismo psicofisico, spesso carente, nella preghiera dell’Occidente. Esso può partire da un determinato atteggiamento corporeo, fino a coinvolgere anche le funzioni vitali fondamentali, come la respirazione e il battito cardiaco. L’esercizio della «preghiera di Gesù» ad esempio, che si adatta al ritmo respiratorio naturale, può – almeno per un certo tempo – essere di reale aiuto per molti. D’altra parte gli stessi maestri orientali hanno anche costatato che non tutti sono ugualmente idonei a far uso di questo simbolismo, perché non tutti sono in grado di passare dal segno materiale alla realtà spirituale ricercata. Compreso in modo inadeguato e non corretto, il simbolismo può diventare addirittura un idolo e di conseguenza un impedimento all’elevazione dello spirito a Dio. Vivere nell’ambito della preghiera tutta la realtà del proprio corpo come simbolo è ancora più difficile: ciò può degenerare in un culto del corpo e può portare ad identificare surrettiziamente tutte le sue sensazioni con esperienze spirituali.

28. Alcuni esercizi fisici producono automaticamente sensazioni di quiete e di distensione, sentimenti gratificanti, forse addirittura fenomeni di luce e di calore che assomigliano ad un benessere spirituale. Scambiarli per autentiche consolazioni dello Spirito Santo sarebbe un modo totalmente erroneo di concepire il cammino spirituale. Attribuire loro significati simbolici tipici dell’esperienza mistica, quando l’atteggiamento morale dell’interessato non corrisponde ad essa, rappresenterebbe una specie di schizofrenia mentale, che può condurre perfino a disturbi psichici e, talvolta, ad aberrazioni morali.
Ciò non toglie che autentiche pratiche di meditazione provenienti dall’Oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane, che esercitano un’attrattiva sull’uomo di oggi diviso e disorientato, possano costituire un mezzo adatto per aiutare l’orante a stare davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne.
Occorre tuttavia ricordare che l’unione abituale con Dio, o quell’atteggiamento di vigilanza interiore e di invocazione dell’aiuto divino che nel Nuovo Testamento viene chiamato la «preghiera continua», non si interrompe necessariamente quando ci si dedica anche, secondo la volontà di Dio, al lavoro e alla cura del prossimo. «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio», ci dice l’Apostolo (1 Cor 10,31). La preghiera autentica infatti, come sostengono i grandi maestri spirituali, desta negli oranti un’ardente carità che li spinge a collaborare alla missione della Chiesa e al servizio dei fratelli per la maggior gloria di Dio.


VII

«IO SONO LA VIA»


29. Ogni fedele dovrà cercare e potrà trovare nella varietà e ricchezza della preghiera cristiana, insegnata dalla Chiesa, la propria via, il proprio modo di preghiera; ma tutte queste vie personali confluiscono, alla fine, in quella via al Padre, che Gesù Cristo ha detto di essere. Nella ricerca della propria via ognuno si lascerà quindi condurre non tanto dai suoi gusti personali quanto dallo Spirito Santo, il quale lo guida, attraverso Cristo, al Padre.

30. Per chi si impegna seriamente verranno comunque tempi in cui gli sembrerà di vagare in un deserto e di non «sentire» nulla di Dio, malgrado tutti i suoi sforzi. Deve sapere che queste prove non vengono risparmiate a nessuno che prenda sul serio la preghiera. Ma egli non deve identificare immediatamente questa esperienza, comune a tutti i cristiani che pregano, con la «notte oscura» di tipo mistico. Ad ogni modo in quei periodi la preghiera, che egli si sforzerà di mantenere fermamente, potrà dargli l’impressione di una certa «artificiosità» benché si tratti in realtà di qualcosa di totalmente diverso: essa è infatti proprio allora espressione della sua fedeltà a Dio, alla presenza del quale egli vuole rimanere anche quando non è ricompensato da alcuna consolazione soggettiva.
In questi momenti apparentemente negativi diventa manifesto ciò che l’orante cerca realmente: se cerca proprio Dio che, nella sua infinita libertà, sempre lo supera, oppure se cerca solo se stesso, senza riuscire ad andare oltre le proprie «esperienze», sia che gli sembrino «esperienze» positive di unione con Dio che «esperienze» negative di «vuoto» mistico.

31. L’amore di Dio, unico oggetto della contemplazione cristiana, è una realtà della quale non ci si può «impossessare» con nessun metodo o tecnica; anzi, dobbiamo aver sempre lo sguardo fisso in Gesù Cristo, nel quale l’amore divino è giunto per noi sulla croce a tal punto che Egli si è assunto anche la condizione di allontanamento dal Padre (cf Mc 15,34). Dobbiamo dunque lasciar decidere a Dio la maniera con cui egli vuole farci partecipi del suo amore. Ma non possiamo mai, in alcun modo, cercare di metterci allo stesso livello dell’oggetto contemplato, l’amore libero di Dio; neanche quando, per la misericordia di Dio Padre, mediante lo Spirito Santo mandato nei nostri cuori, ci viene donato in Cristo, gratuitamente, un riflesso sensibile di questo amore divino e ci sentiamo come attirati dalla verità, dalla bontà e dalla bellezza del Signore.
Quanto più viene concesso a una creatura di avvicinarsi a Dio, tanto maggiormente cresce in lei la riverenza davanti al Dio, tre volte Santo. Si comprende allora la parola di sant’Agostino: «Tu puoi chiamarmi amico, io mi riconosco servo». Oppure la parola che ci è ancora più familiare, pronunciata da colei che è stata gratificata della più alta intimità con Dio: «Ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,48).



Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 15 ottobre 1989, nella festa di Santa Teresa di Gesù.