martedì 1 novembre 2011

prego leggendo la Bibbia

Dall’ascolto alla lettura

La pratica della lectio affonda le radici nella proclamazione liturgica della Parola. La Bibbia, prima di essere un testo da leggere, è una parola ricevuta e proclamata nel cuore del dramma liturgico. «Se vieni con frequenza in Chiesa, porgi l’orecchio alle letture divine, ricevi la spiegazione dei comandamenti celesti, lo spirito si rafforzerà per le parole e i pensieri divini. Nutrimento dello spirito sono la lettura divina, le preghiere incessanti, la predicazione della dottrina» [1]. In questi passi la lettura divina coincide con la proclamazione della parola in ambito liturgico.

Il problema dei partecipanti stava nel non dimenticare il messaggio ricevuto e da qui nasceva la necessità della meditazione. Il meditare era concepito come il semplice ricordarsi gli insegnamenti accolti, traducendoli nelle azioni della vita. «Auspichiamo che, dopo aver ascoltato queste cose, vi applichiate non solo ad ascoltare in chiesa le parole di Dio, ma anche a metterle in pratica nelle vostre case e a meditare giorno e notte la Legge del Signore; là c’è il Cristo e ovunque è presente a chi lo cerca» [2]. A questo proposito, compare la funzione del ruminare: «… affidiamo alla memoria ciò che ora s’insegna e si legge in Chiesa, affinché, uscendo dalla Chiesa, compiendo le opere di misericordia, offriamo un sacrificio… In modo che, ruminando come animali puri quello che ascoltate in Chiesa, richiamate alla memoria le parole dette e le confrontiate nel vostro cuore» [3]. Ricordare, ruminare hanno lo scopo pratico di orientare la vita in modo positivo.

L’ascolto, avviato durante la predicazione, si prolungava nel ricordo personale e soprattutto nella lettura individuale della Sacra Scrittura. Massimo di Torino esorta i fedeli a leggere i testi biblici anche in privato: «Tutto il giorno preghiamo o leggiamo assiduamente i testi sacri. Chi non sa leggere, rivolgendosi ad un uomo santo tragga alimento dalla sua conversazione» [4]. Cesario d’Arles, come Massimo, esige dai fedeli una lettura prolungata. «Con sollecitudine paterna vi prego e vi esorto e vi scongiuro, come già s'è detto, di impegnarvi o a leggere sempre personalmente la Scrittura divina, o ad ascoltare volentieri altri che la leggano, cosicché, meditando ininterrottamente nello scrigno del vostro cuore ciò che è giusto e santo, vi procuriate il cibo spirituale che gioverà per sempre alle vostre anime nell'eterna beatitudine» [5].

I fedeli, quindi, sono esortati a partecipare all’assemblea liturgica e a leggere la Bibbia, in continuità, presso le loro abitazioni. «Ascoltate volentieri le letture dagli scritti divini in chiesa, come vi siete abituati a fare, e rileggetele nelle vostre case» [6].

Lettura e meditazione

La spiritualità del primo millennio è un fiore che sboccia dalla lettura frequente del testo biblico. Come avveniva questa pratica? A noi potrà sembrare un po’ strano, ma si considerava sufficiente leggere; un leggere lento, attento e prolungato, tale da poter fissare nella memoria il contenuto da assimilare. Non si faceva alcuna teoria della lectio né si cercava di articolare una tecnica particolare. La distinzione netta tra i momenti di questo esercizio (lectio, meditatio, contemplatio…) comparirà in epoca successiva (cf. Guigo II), proprio nel tempo in cui si sarà già diradata nella pratica, quando era un esercizio del passato da riscoprire nel presente.

L’atto del meditare non era ben distinto dal leggere, in quanto per meditazione s’intendeva una lettura prolungata ed attenta, condotta in spirito di preghiera. Bisogna tener conto che un antico sentiva il termine meditazione in modo diverso da noi. A noi richiama la riflessione della mente, mentre per il mondo dell’epoca significava esercizio, applicazione costante ad un interesse dominante.

Vediamo ora alcune testimonianze. Giovanni Cassiano invita i monaci alla meditazione. In che cosa consiste? Nella lettura ripetuta di testi già letti. Ad esempio, egli chiama meditazione la recitazione continuata di un versetto di un salmo («Huius versiculi meditatio in tuo pectore indirupta volvatur») [7]. Girolamo approva l’apprendimento a memoria di brani interi. Elogia la discepola Paola di aver imposto questa regola alle sue monache: «A nessuna di quelle religiose era lecito non sapere i salmi, o non imparare ogni giorno qualche passo della Sacra Scrittura» [8]. Cassiodoro considerava la ripetizione non un puro atto mnemonico ma un’esperienza religiosa: «Supplicando il Signore, dal quale viene ogni grazia, leggete – vi prego – continuamente, ritornate diligentemente sul suo testo. L’assidua ed attenta meditazione è madre della conoscenza» [9]. Anche per lui la meditazione è applicazione al testo: leggere e rileggere. La palestra dello spirito s’identifica nella lettura quotidiana.

Era necessario soprattutto conservare quanto era stato letto o appreso. «La lettura ha bisogno dell’aiuto della memoria», aveva già sentenziato Isidoro [10]. Qualche secolo dopo, l’abate Smaradgo riprende e spiega il senso dell’esortazione isidoriana, e ci fa capire che cosa intendesse per meditazione: leggere lo stesso passo più volte. Immaginando un monaco tardior, meno brillante nell’apprendimento, egli ritiene che questi possa migliorare alquanto se si affina grazie ad una meditazione prolungata e se raccoglie frutto rimanendo costante nel leggere («Quod si fuerit naturaliter tardior, frequenti tamen meditatione acuitur, ac legendi assiduitate colligitur») [11]. La seconda parte della frase spiega il significato della prima: la lettura prolungata (legendi assiduitate) di un testo è chiamata meditazione (frequenti meditazione).

L’uno e l’altro chiedono che le parole della Scrittura non svaniscano dal cuore ma vi rimangano per orientare l’esistenza. L’uno e l’altro ritengono la meditazione un esercizio che è inscindibile dal leggere, o meglio da un leggere che si svolga con una certa intelligenza. Bisogna leggere e capire ciò che si legge. Questo è sufficiente per fare meditazione.

Poiché entrambi erano realistici, sanno che una lettura prolungata in modo eccessivo sfianca il lettore ed ottiene effetto contrari a quelli prefissati. Per questo, si credeva fosse cosa migliore, ogni tanto, chiudere il libro e ripensare a quanto era stato letto. Isidoro e Smaragdo pensano che il fare meditazione (il ripensare) sia di per sé un atto meno impegnativo del leggere. Suggeriscono la lettura silenziosa piuttosto di quella fatta a voce alta, a differenza da come erano soliti fare i loro monaci e tutti i lettori in genere. Tuttavia non và dimenticato che la lettura abituale, anche quella in privato, era fatta a voce e questo metodo rimarrà il preferito dai maestri spirituali. L’unica avvertenza consisterà nel raccomandare una lettura a voce più sommessa. Pronunciare le parole è utile per conservare l’attenzione. Soltanto gli stati di preghiera più elevata rendono superflua la pronuncia delle parole.

Ciò nonostante, ci si rende conto che, nonostante tanta buona volontà, la sola meditazione (cioè la lettura ripetuta) talora poteva non bastare. Nel corso della preghiera liturgica, il vescovo poteva arricchire la lettura fornendo dei suggerimenti teologici o morali. Nell’ambito privato, come si poteva rimediare all’incomprensione, madre di stanchezza? Accompagnare la lettura del testo biblico con quella di commentari qualificati: «Carissimi fratelli, saliamo con estrema certezza verso le divine Scritture, per mezzo delle lodevoli spiegazioni dei Padri, avvalendoci di una scala simile a quella della visione di Giacobbe, affinché spinti in alto dai loro sentimenti possiamo giungere per nostro vantaggio, alla contemplazione del Signore» [12]. Questa raccomandazione di Cassiodoro è rivolta a dei monaci, i quali con facilità potevano usufruire di libri. I laici erano effettivamente più svantaggiati poiché potevano contare soltanto sulla memoria richiamando la spiegazione ricevuta in altre circostanze.

Anche vescovi o presbiteri potevano trovarsi in difficoltà ed anche a loro, quindi, fu raccomandata la lettura dei commenti elaborati dai Padri che li avevano preceduti: «Se per caso per alcuni dei miei vescovi è faticoso predicare personalmente, perché non introducono quell'antica e santa consuetudine, ancora in uso in modo salutare nelle regioni orientali: e cioè che, per la salvezza delle anime, vengano lette in chiesa le omelie degli antichi Padri per mezzo del ministero dei santi presbiteri? Anche se mancassero presbiteri in grado di assolvere questo compito, non è una cosa inopportuna né indegna se viene affidato ai diaconi il compito di leggere pubblicamente in chiesa le omelie dei santi Padri» [13].

Ecco il nucleo originario e perenne della lectio: ripetere la lettura fino a pervenire alla memorizzazione di un testo; almeno per gli ecclesiastici, s’aggiungeva la lettura di un commentario patristico. I fedeli chiedevano spiegazioni ai loro pastori. Girolamo ricorda l’impegno generoso della discepola Fabiola e l’aiuto che egli le diede: «Con che ardore, con quale applicazione s’era buttata sulle divine Scritture! Passava incessantemente dai Profeti ai Vangeli e ai Salmi. Ti proponeva questioni e ne immagazzinava le soluzioni date nello scrigno del suo cuore» [14]. A loro volta i pastori cercavano un chiarimento presso gli autori più stimati.

Tutti i ministri della Chiesa erano invitati ad esercitarsi nella Bibbia. I presbiteri possono, dunque, essere degli autentici contemplativi purché adempiano le condizioni richieste per diventare tali. Giuliano Pomerio li considera destinati alla contemplazione, come del resto tutti i battezzati. «Liberati da tutti i legami delle attività secolari, se si dedicano instancabilmente alla Parola di Dio, diventano sapienti e e gustano le cose celesti; avvertono anche quaggiù un certo qual gusto della vita contemplativa («Illi qui se ab omnibus implicamentis negotiorum saecularium removentes, […] verbo Dei infatigabiliter vacant, sapientes veraciter fiunt, et coelestia sapiunt […] hic quidem velut gustum quemdam contemplativae vitae accipiunt») [15]. Diffondere la pratica della lectio non è una monasticizzazione del clero né una clericalizzazione del monaco.

Si domanda il Poirel: «Vogliamo forse dire che la pratica medievale della lectio divina non consisterebbe in nient'altro che nell'apprendimento a memoria dei testi ispirati, come se si avesse a che fare con un trattato qualsiasi di grammatica o di medicina? No di certo: tutti gli autori spirituali lo sottolineano, la lectio divina, per non essere un esercizio vano, deve essere preceduta dalla preghiera e dalla mortificazione dei sensi, per poi compiersi in obbedienza alla Parola e con un desiderio sincero di progredire nella conoscenza e nell'amore di Dio. Detto questo, rimane il fatto che la lectio divina ha inizio con uno sforzo mnemonico, anche se questo sforzo per ricordare quanto si legge è accompagnato fin dal primo momento da un mettere al lavoro la nostra intelligenza e la nostra affettività, per comprendere e amare quanto custodiamo nella memoria» [16].

Aiutarsi ad ascoltare

La lectio si svolge con maggior profitto in un ambito comunitario perché il singolo fedele può trovarsi disorientato davanti al testo, come accadde al ministro etiope che fu soccorso da Filippo (At 8, 30-31). In tutti i battezzati, però, dimora l’autorità di una parola autentica e sono organi della verità (1 Gv 2,27): «Quanti viviamo in Dio siamo organi della verità, che spesso parla a me per mezzo di un altro, spesso invece parla agli altri per mezzo mio; perciò deve risiedere in noi l’autorità della parola autentica…» [17].

Sentirsi legati gli uni agli altri, tuttavia, è talmente importante e gradito agli occhi di Dio che Egli concede la sua parola proprio a chi decide di uscire da se stesso per dedicarsi al prossimo. A parere di Gregorio Magno, Ezechiele riceve la visione della gloria divina, proprio perché accetta di uscire nella valle, cioè nella situazione difficoltosa. Quanto più, per amore del prossimo, ci s’impegna nella fatica della predicazione, tanto più largamente si riceve la grazia di saper insegnare. Il profeta «uscendo fuori viene condotto verso una visione alta. Nella misura in cui illumina la cecità che si trova nel cuore degli altri, la grazia lo innalza verso una comprensione più elevata» [18]. Parlare agli altri, però, presuppone che si condivida la vita di coloro ai quali si rivolge la predicazione. Non si parla dall’esterno o dall’alto. Si parla stando insieme. Ezechiele per poter essere accolto dal popolo, rimane in mezzo agli esiliati. «Il profeta si stabilì con il popolo prigioniero e rimase in mezzo a loro afflitto; così, condividendone la sorte grazie alla carità, riuscì ad avvicinarlo con la forza della parola» [19].

La tradizione conosce l’uso della collactio. I monaci si riunivano insieme per ascoltare la spiegazione data dall’abate e in questa circostanza era possibile rivolgere delle domande oppure aggiungere altre osservazioni. Isidoro di Siviglia, che raccomanda ai monaci tre collactiones alla settimana, afferma: «La lettura è senz’altro utile per istruire, ma, se si usa anche il colloquio, essa fornisce una maggiore possibilità di comprensione, poiché è meglio scambiarsi le opinioni che leggere» [20]; purché sia fatto salvo un principio complementare («Sa parlare con verità soltanto chi ha imparato prima a ben tacere. Custodire il silenzio significa alimentare la parola» [21]).

Smaragdo riprende le esortazioni già espresse da Isidoro e torna a raccomandare ai suoi monaci la collactio: «La lectio è utile per l’istruzione ma se s’accompagna la collactio, si ottiene un risultato migliore. È meglio confrontarsi insieme che leggere [da soli]. La collactio facilita l’apprendimento. L’alternarsi delle domande riduce la persistenza di qualche dubbio e la verità si fa strada grazie alle difficoltà avanzate. Nel confronto delle opinioni si dipana subito ciò che era rimasto ancora oscuro o dubbio» [22].

La lettura individuale tende all’unilateralità mentre una molteplicità di approcci consente di rispettare l’infinita sfaccettatura della verità: «Una pagina della Scrittura che sembra evidente, è spiegata e commentata correttamente da diverse persone in modo sempre diverso, senza però che il senso globale sia mai completamente esplorato da nessuno...» [23].

Nel cuore della lectio

Condizioni preventive

«Chi legge o ascolta di frequente la Scrittura divina parla con Dio» [24]. Finora siamo rimasti come all’esterno della pratica della lectio e, quindi, rimane ancora un aspetto più profondo da riscoprire: «Chi vuole stare sempre con Dio, deve pregare spesso e spesso anche leggere; quando preghiamo, siamo noi a parlare con Dio, quando invece leggiamo è Dio che parla con noi» [25].

La lectio, quale dialogo con Dio, è un atto religioso. Che cosa vuol dire questo? Significa che il protagonista è Dio stesso e che, nel leggere in spirito di conversione, noi sottostiamo alla sua azione che è impetuosa (Es 19,18) e dolce ( 1 Re 19,12) nello stesso tempo. Il nucleo decisivo della lectio consiste nell’agire dello Spirito in noi. Da questo punto di vista è un atto diverso dallo studio scientifico del testo. La lettura è efficace quando riproduce i medesimi effetti positivi propri della predicazione: sentirsi trafiggere il cuore. Mentre un ascoltatore avverte il suono della la voce di un messaggero, Dio agisce nel suo cuore, come fece con Lidia mentre ascoltava Paolo (At 16,14). Da questo punto di vista ogni lectio è esperienza mistica (considero tale un’azione che ci dà la possibilità di incontrare Dio e sottoporci alla sua azione). Gesù dice che nell’aderire a Lui siamo attratti da Dio Padre (Gv 6,44). Questo essere attratti ha un valore trascendente: non possiamo verificarne il movimento in sé ma solo l’effetto. In ogni azione di Dio, le orme di Dio rimangono invisibili, non vengono riconosciute (Sal 77,20).

Dal momento che Dio opera con discrezione, a livello più intimo di ogni movimento psicologico ed emotivo, i segni con i quali manifesta la sua presenza, rimanendo non avvertibili sul piano fenomenico, possono essere deprezzati o perfino derisi. I cittadini di Nazaret non riuscivano a scoprire in Gesù nient’altro che l’abilità del carpentiere, divenuto all’improvviso un inquietante saccente (Mc 6,2-4). Paolo, nel presentarsi a Corinto, scopre come la semplicità del suo parlare sia poca cosa rispetto alla dialettica della filosofia o all’incanto della retorica. La predicazione può essere svalutata come stoltezza (1 Cor 1,21). Lo stesso può avvenire per la lectio. Noi potremmo parafrasare in questo modo le parole di Paolo: piace a Dio salvare i credenti con la «stoltezza» della lectio. Gli uomini sono attratti sempre da metodi più complicati. Si vuole verificare, conoscere di più degli altri, sentirsi speciali, avere libero accesso al sacro. Chi intraprende l’itinerario della lectio deve piuttosto sentirsi uno dei poveri convocati dalla grazia, strappato dalla strada senza proprio merito (Lc 14,15-24).

La grazia agisce normalmente nell’ordinario e Cristo cresce in noi alla maniera del grano silenzioso, che matura senza che si sappia come ciò avvenga (Mc 4,27). Come abbiamo visto, la lectio sta nel lento e paziente depositare nel cuore le parole di Dio. Chi legge, come del resto chi prega, deve saper affrontare l’aridità. La donna Cananea grida dietro a Gesù, piuttosto a lungo, mentre Egli non le rivolgeva neppure una parola (Mt 15,23). Chi non sa sopportare l’aridità, non è un vero cercatore di Dio. L’esperienza insegna che talora la lettura può essere tediosa e così si parla di aridità nella lectio come nella preghiera. «Non ha gusto per me il salmo, non ho voglia di leggere, non provo piacere a pregare, non mi vengono, come di solito, pensieri nella meditazione» [26]. In tutti questi casi, nel fervore o nel tedio, il leggere ha significato perché Dio, con la nostra verifica o senza di essa, scrive qualcosa nel nostro animo. Il suo intento ultimo è quello di trascrivere in noi il suo Figlio, mediante lo Spirito (Gv 16,12-15). La Parola scava in noi nella modalità della goccia che scava la roccia: ora la caduta della singola goccia sembra una realtà insignificante.

La lettura è un atto religioso. Essa espone all’azione libera di Dio a nostro favore. Questa azione è trascendente e noi non la verifichiamo affatto. A volte possiamo sentirne una eco, quando si apre in noi una sensibilità spirituale. Ma questo non è tutto. Dio agisce sempre, al di là della percezione che noi possiamo avere di questa sua azione.

L’efficacia della lettura non dipende da noi, dalla sola preparazione culturale e da altre ingegnosità umane. La tradizione conosce esperienze in cui una conversione profonda è provocata da una semplice frase ascoltata nella liturgia. La persona che l’accoglieva spesso era poco più che alfabetizzata (o perfino analfabeta) e per nulla propensa ad una svolta nella vita. Inoltre Dio agisce con gradualità nel senso che una sua prima manifestazione nel cuore ne prepara una successiva, fino a quella decisiva. I veri testimoni della lectio non sono, alla fine, neppure i lettori assidui ma gli uomini santi che, nell’udire o nel ricordare anche una sola frase, si sentono «costretti» a cambiare vita, divenuti prigionieri dello Spirito.

La lettura esplica tutta la sua forza entro delle condizioni preventive e ineludibili. Ci sono, quindi, delle condizioni a cui ottemperare. «I recessi segreti della legge divina sono aperti agli umili e a quelli che entrano a Dio con le dovute disposizioni. Le parole divine, quanto alla lettura, sono accessibili ai presuntuosi, tuttavia, nel loro significato misterioso, rimangono chiuse ed occulte» [27]. Dobbiamo dare un po’ di tempo per richiamare alcune delle condizioni imprescindibili affinché il semplice leggere diventi esperienza di Dio.

Bisogna ricevere una vista spirituale [28]. La fede rappresenta la prima condizione.

In secondo luogo la comprensione del testo biblico doveva essere richiesta al Signore con insistenza. Nessun è capace da sé di rendere viva ed infuocata la parola percepita. La preghiera precede l’ascolto o la lettura perché la sua efficacia non dipende in primo luogo da noi.

Un’altra condizione indispensabile è la purificazione. A creare difficoltà nella comprensione non è in primo luogo l’oscurità del testo ma la nostra incapacità a porci in sintonia con il Signore, a motivo del nostro peccato. Origene, drammaticamente, avverte i suoi ascoltatori: noi siamo impuri anche nel cuore, negli occhi, negli orecchi. Tuttavia c’è speranza: «Chi mi purifica? Chi lava i miei piedi? Vieni, Gesù, ho sporchi i piedi, per me diventa servo, metti la tua acqua nel tuo catino, vieni, lava i miei piedi» [29].

La Bibbia si rivela nella sua profondità soltanto a chi ha realizzato un progresso nella carità. Gli uditori della Parola spesso vivono in una doppiezza d’animo che ha bisogno di una chiarificazione: «Taluni ascoltando, non ascoltano la parola, poiché tendono l’orecchio al discorso ispirato ma non sottraggono il cuore ai desideri mondani». Interrompono le azioni cattive «ma rivolgono nella mente, compiacendosene, le perversità delle azioni» [30]. La liberazione dal peccato non è facile ma richiede un’attenzione sincera e amorevole verso se stessi. La Scrittura rimane muta o pesante, finché anche il lettore sarà tale. Il cercatore, allora, deve essere libero dalle opere del peccato. Ho già osservato come il testo implichi e coinvolga il lettore. In altri termini la comprensione della Scrittura cresce in corrispondenza dei progressi interiori. «La Scrittura si rivela a coloro che amano veramente la santità», precisa Dionigi[31].

La comprensione della Parola è iniziazione al mistero di Dio e non semplice pratica devozionale atta a soddisfare il credente ancora lattante. «Bisogna che il cuore di chi contempla sia trasparente come uno specchio e come un’acqua limpidissima e quieta, affinché in esso e per esso, come in uno specchio attraverso uno specchio, veda il suo spirito a immagine dell’immagine di Dio. A questo scopo, o carissimi, il cuore che desidera contemplare Dio, deve essere mondo non solo da preoccupazioni nocive o superflue, ma anche da quelle necessarie, e va esercitato nella lettura, nella meditazione, nell’orazione. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» [32].

Esperienza mistica e aridità

I santi hanno colto nella Scrittura un valore particolare. Frequentando la parola divina, si sono sentiti infiammare ed illuminare. Riguardo a queste esperienze essi furono molto discreti e non possiamo andare oltre qualche allusione.

Chi coglie davvero una novità in Dio, sente in se stesso rianimarsi qualcosa di nuovo. Posso cogliere Dio soltanto nel mio rinnovamento. Una nuova luce sul testo, è una nuova luce in me. Il senso di un versetto s’illumina, quando m’illumino. Dal testo si passa al lettore: mistico è il contenuto del testo ma mistico sarà il lettore che vive in sintonia con esso. Il testo coinvolge il lettore. Nessun come Gregorio Magno ha sottolineato la circolarità che si crea tra il testo e il lettore. Commentando la visione del carro, nel libro di Ezechiele, il grande papa osserva quanto è scritto nel testo: «quando quegli animali si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro…» (Ez 1, 7). Nella lettura allegorica proposta da Gregorio, gli esseri viventi rappresentano i lettori e le ruote il senso del passo biblico meditato. Quando i primi riescono ad elevarsi anche le seconde li seguono in pari tempo. Il messaggio è molto limpido: «Nell’oracolo divino troverai tanto maggior profitto quanto maggiore è il progresso che tu avrai realizzato nei suoi confronti» [33]. Potremmo dire così: quando più il lettore, nel suo essere, è conforme al messaggio del testo, tanto più quest’ultimo acquista profondità e splendore. Al contrario chi accusa il testo biblico di grettezza, in realtà sta palesando e denunciando la propria, suo malgrado.

Il contenuto mistico del libro è scoperto da chi diventa ciò che legge. Mistico è chi, ascoltando o leggendo il testo biblico, si sente interpellato, si sente infiammato, si coglie come identico al protagonista della sacra pagina. Chi crede, è come Abramo. Chi lotta con Dio nella prova, è un nuovo Giacobbe. Chi respinge le seduzioni del peccato, agisce come Giuseppe. È possibile, come fece Israele, attraversare il mare quando si diventa superiori ad ogni passione perturbante. È possibile entrare in dialogo con Dio, quali suoi amici, come accadde a Mosè. «Se vedi abbondare in te la grazia dello Spirito Santo che illumina e fa splendere come un sole l’intimo del tuo cuore, si compie in te il prodigio del roveto, cosicché la tua anima brucia per l’unione alla luce inaccessibile e tuttavia non si consuma» [34].

Si potrebbe continuare dando numerosi esempi. Gran parte della produzione letteraria dei Padri consiste nello sforzo di rendere accessibile il testo biblico nell’attualità. Mistico non è chi prova particolari emozioni spirituali ma chi vive la storia della salvezza ottemperando al proprio ruolo. Il mistico non ha l’intento di coltivare un giardinetto interiore ma piuttosto quello di esercitare il compito assegnatogli da Dio nella storia della salvezza a beneficio della comunità. Ritrovare il Sé non ha un significato individualistico ma piuttosto comunitario.

La conoscenza della Scrittura apre ad una gnosi: è il termine usato spesso da Clemente (ma presente già nella lettera di Barnaba) per riferirsi a ciò che in seguito verrà chiamato mistica. In altre parole c’è un senso ulteriore da cogliere nel testo, oltre quello letterale e dentro di esso. Si tratta dello spirito evangelico che richiede profonda conversione e sintonia col Libro ma col Signore stesso. Clemente pensa ad una tradizione spirituale che si succede nella Chiesa, a fianco di quella dottrinale. Tutti i veri discepoli del Signore, in ogni tempo e in ogni luogo, nutrono lo stesso sentire. Partecipano ad una tradizione segreta, ossia condividono sentimenti ed opinioni che altri, stando all’esterno, possono disprezzare (compresi gli stessi semplici battezzati ancora in fase di maturazione).

Accostarsi con frequenza al testo significa attendersi ciò che gli uomini si aspettavano altrimenti dalle illuminazioni interiori, dalle comunicazioni oracolari, dalle visioni, dalla contemplazione filosofica ottenuta mediante lo sforzo della meditazione o del ragionamento. «Possiamo ben affermare che per Gregorio l'illuminazione concessagli a proposito del significato profondo della Scrittura rappresenta l'equivalente dei racconti delle visioni mistiche che diventeranno popolari oltre seicento anni dopo la sua morte. (Per Gregorio, come per i padri latini in generale, l'aggettivo mysticus si riferisce pressoché esclusivamente al significato nascosto e profondo delle Scritture). Gregorio riconosce che Dio parla per mezzo sia della sua parola rivelata sia dell'ispirazione personale, ma dichiara che per i santi padri una simile ispirazione veniva raggiunta grazie a una più profonda penetrazione della Scrittura» [35].

La tradizione spirituale del primo millennio conosce esperienze di contemplazione innescate dalla lettura stessa del testo. Lettura e meditazione erano accompagnati anche da fenomeni di carattere mistico, sperimentati nei momenti di preghiera. Cassiano parla di una preghiera ardente che divampa nell’intimo in seguito alla recitazione del Padre nostro. «Questa orazione del Pater, sebbene sembri contenere ogni pienezza di perfezione, appunto perché suggerita e fissata dall'autorità del Signore, tuttavia essa induce coloro che abitualmente la recitano, ad adottare la forma di preghiera più elevata, già da noi in precedenza richiamata: essa li induce progressivamente ad un'orazione ardente, nota a pochissimi e da pochissimi sperimentata, anzi, per meglio esprimermi, ineffabile...» [36].

Diadoco di Foticea conosce un’esperienza della parola divina, chiamata teologia oppure contemplazione, che rende l’orante simile agli angeli. La Parola di Dio entra in contatto con le parole dell’uomo che acquistano un’intensità inaspettata. Tale esperienza elevata della parola, quale «primo germoglio della grazia», concede dei doni che hanno un valore primario. Essa induce al distacco dei beni terreni ma soprattutto «illumina il nostro spirito con il fuoco trasformatore facendolo socio degli spiriti che servono il Signore» [37]. Egli consiglia ai monaci, che hanno difficoltà a pregare, di attendere a familiarizzarsi con la Scrittura perché «la contemplazione delle parole divine dilata e libera lo spirito». È importante, quindi, che essi attendono all’orazione, alla salmodia e alla lettura delle Sacre Scritture facendo in modo che ogni pensiero che sgorga dalla meditazione diventi «fonte di lacrime» [38].

Gregorio avverte che, qualora la predicazione sia efficace, provoca due forme di compunzione: pentimento e desiderio del cielo. In quest’ultimo caso riscontriamo un progresso di tipo mistico: «Quando i Testamenti di Dio cominciano a risuonare nell’orecchio del cuore, lo spirito di chi ascolta, compunto di amore, si commuove fino alle lacrime. È così che le parole della Sacra Scrittura diventano gustose nel cuore di chi legge; chi ama per lo più le legge di nascosto, quasi furtivamente e in silenzio» [39]. Isacco di Ninive attesta anch’egli una percezione di carattere mistico in relazione con la Parola: «Vi è un tempo in cui i versetti dei salmi sono dolci in bocca e si ripete innumerevoli volte un solo versetto della preghiera, senza che si sappia smettere; ma vi è un tempo in cui dalla preghiera si genera la contemplazione…» [40]. Lo stesso annuncia Smaragdo: «Spesso accade che qualcuno colga nelle parole della Sacra Scrittura una profondità mistica. Infiammato dalla grazia ad una contemplazione superna, rimane intento alle cose celesti. Quando l’animo del lettore viene pervaso dall’amore celeste, allora sperimenta la forza mirabile ed ineffabile della parola divina» [41].

A prescindere dall’adempimento delle condizioni dovute, nella pratica della lectio non mancarono comunque le difficoltà, anche all’interno dello stesso monachesimo.

Isacco della Stella lamenta che i suoi monaci durano fatica ad impegnarsi personalmente nella lettura dei testi e, anziché condurre a termine tale esercizio, come veniva loro consigliato, preferiscano ascoltare i commenti del loro preposto [42]. Neppure questa soluzione funzionava all’ottimo. Osservava, infatti, con un certo rammarico, come sia la lettura personale nel chiostro sia il commento da lui svolto, in capitolo, venissero talora vanificati dal disimpegno dei suoi fratelli: «Dove sono quelli che nel chiostro sonnecchiano sui loro libri, durante la lettura nell’oratorio russano, e di fronte a un discorso fatto a viva voce nel capitolo dormono? In tutti questi casi il Verbo di Dio parla ma non gli si fa caso» [43]. Già stanchi per il lavoro pesante a cui s’erano sottoposti, i monaci non erano in grado di seguire un’istruzione prolungata: «per oggi dobbiamo fermarci, essendo stanchi per il lavoro e per il sermone» [44]. Difficile comporre insieme un lavoro impegnativo e lo sforzo richiesto da lettura e meditazione.

Inoltre i testimoni della spiritualità conoscono l’esperienza dell’aridità della preghiera. C’è anche l’aridità della lectio. A volte è facile scoprirne la causa. Bernardo di Chiaravalle insegna ai suoi monaci che se uno di loro ha avuto un conflitto con un confratello e conserva rancore, perde ogni energia per affrontare una preghiera autentica [45]. La causa principale dell’aridità proviene dal mancato distacco dagli interessi e piaceri terreni. Altre volte questa avviene di sorpresa, senza una motivazione comprensibile ed ha una durata o una profondità tali da affliggere il fedele devoto. La tradizione degli spirituali, comunque, sarà unanime nel garantire che l’aridità sperimentata non rende inutile o inefficace la preghiera.

Un ultimo sguardo all’essenziale

L’epoca della lectio fu il primo millennio; in seguito, entrò gradualmente in crisi. Il Concilio, raccomandandola ai fedeli, ha tappato una falla quasi altrettanto millenaria. Questo non significa che nel frattempo, nella Chiesa, sia mancata l’esperienza della Parola ma che la spiritualità non è stata più centrata sulla Scrittura e che si è smarrita un’esperienza di accostamento ad essa di enorme ricchezza. A partire dal sec. XII, comincia a prevalere la meditazione. Questa non è più intesa come ruminazione del testo ma come un’elaborazione dell’intelletto, per scuotere la volontà e smuovere il sentimento. In modo graduale oggetto della meditazione non saranno più i contenuti della Scrittura ma argomenti di devozione. Moralismo e sentimentalismo saranno i frutti degeneri di questo stato di cose.

Ora è tempo di riguadagnare il tempo perduto. «Chi vuole giungere al mistero di Cristo, non vi entra se non attraverso la via segreta del testo evangelico» [46], insegnava san Massimo di Torino, Questa attestazione non deve essere considerata troppo ovvia. Il cristiano conosce Dio contemplando Gesù e conosce Gesù attraverso la testimonianza che Egli stesso da di sé nelle pagine del Nuovo Testamento, scritte dagli apostoli e consegnate alla Chiesa nella sua interezza. Senza le Scritture non conosciamo rettamente Gesù e senza Gesù, non conosciamo rettamente Dio.

Come ho cercato di mostrare, la lectio era, di per sé, un esercizio molto semplice. A livello personale non è mai stata semplicemente uno studio esegetico né, a livello comunitario, una mera conferenza biblica. «Il segreto della lectio divina? Esso è al tempo stesso facile ed esigente: imparare a memoria la lettera del testo sacro. E visto che si apprende bene solo quando si comprende e si ama quel che si legge, il sapore mistico e quello morale della Scrittura ci sono dati in sovrappiù. O, se si desidera, è cercando il senso mistico e morale che anche la lettera finisce per depositarsi nel nostro spirito. Costruiamoci una memoria cristiana, una memoria biblica. Allora, ovunque saremo e qualunque cosa faremo, potremo pregare e crescere nella conoscenza e nell'amore di Dio»[47].

Il lettore o il meditante leggeva, cercando di capire ciò che il testo suggerisce. Spontaneamente usciva in una preghiera di lode o di supplica. Talora accadeva che in questo esercizio venisse rapito dalla compunzione o dall’amore. La lectio era percepita come un atto religioso unitario, sia pure articolato in vari passaggi. Ad arricchirla era la competenza biblica del lettore: ancora oggi sorprende la facilità con cui un testo ne richiamava un altro o la facilità con cui lo si applicava all’esistenza cristiana. Lo scopo della lettura era ed è di carattere profetico: ci s’immerge nella preghiera biblica per far riapparire in terra l’uomo di Dio, colui che vive il volere di Dio nell’oggi e ripresenta la figura mirabile di Cristo per la sua epoca.

Chi pratica la lectio in modo corretto? Il lettore autentico è una persona presa da compunzione. Sa di essere un peccatore e chiede a Dio che cosa debba fare. Non legge soltanto per imparare né, in prima istanza, per correggere o istruire gli altri. Non legge soltanto quando deve esercitare la predicazione o fare qualcosa di analogo.

L’humus naturale della lectio è la compunzione. Questo lettore autentico, allora, amerà spontaneamente il silenzio, e, di conseguenza, la solitudine. Resterà fedele al suo intento, senza pretendere che Dio si riveli nell’immediato. Alternerà alla lettura, la preghiera salmodica e quest’ultima con la lettura di autori spirituali. L’ascetica cristiana và fondata sulla Bibbia ma l’approccio alla Scrittura è favorito quando ad interpretarla sono persone dello Spirito che l’hanno vissuta. Ognuno di noi è un maestro nello sfuggire all’esigenze della Parola, in modo inconsapevole. È facile proiettare sul testo la nostra incongruenza e saccenteria.

Poiché la parola penetri e si deposi nel cuore, i Padri hanno preferito una lettura lenta e ripetuta. La lectio è più vicina alla memorizzazione o alla ruminazione di un testo piuttosto che ad un suo esame. Il praticante della lettura santa impara la Bibbia per una simpatia connaturale con essa e per una lunga frequentazione, vissuta nella progressiva purificazione del cuore. Il lettore autentico ha un occhio sulla sacra pagina ed uno sul suo cuore. Osserviamo il suggerimento che Giuliano Pomerio dava a chi voleva convertirsi in verità: «Si dedichi alla meditazione della Scrittura, vi si immerga fino a dimenticare se stesso, riflettendosi in essa come in uno specchio sfolgorante. Se scoprirà in sé qualcosa di malvagio, lo corregga; quel che c'è di buono, lo conservi; ciò che è brutto, lo migliori; ciò che è bello, lo rifinisca; quanto v'è di sano, lo preservi; quello che è malato, lo rinvigorisca con l'assiduità della lettura sacra» [48].

Il lettore autentico, mentre si apre all’ispirazione divina, coltiva un rapporto corretto e generoso coi fratelli. Desidera il lauto banchetto della casa di Dio ma crede di meritare soltanto le briciole che cadono dalla mensa e vengono raccolte dai cagnolini. La lettura sacra è attesa di Dio e della sua grazia. Già pervaso, in modo invisibile, della luce di Dio, il lettore viaggia verso la Luce, in un percorso all’infinito, che continuerà nella Gerusalemme celeste.


[1] Origene, Omelie sul Levitico IX, 7, CTP 221-222.

[2] Origene, Omelie sul Levitico IX, 5, CTP 216-217.

[3] Origene, Omelie sul Levitico, IV, 9, CTP 95.

[4] Massimo di Torino, Sermoni, 36, 4, CTP 159.

[5] Cesario d’Arles, Sermoni 8, 5.

[6] Cesario d’Arles, Sermoni 198, 5.

[7] G. Cassiano, Conferenze, X, PL 49 836 B.

[8] Girolamo, Epistolario, CVIII, 20.

[9] Cassiodoro, Istituzioni, Prefazione 6.

[10] Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, XIV, 7.

[11] Smaragdo, Diadema monachorum, PL CII, XL, 636 B.

[12] Cassiodoro, Istituzioni, Prefazione 2.

[13] Cesario d’Arles, Sermoni, 1, 15.

[14] Girolamo, Epistolario, LXXVII, 7.

[15] Ibidem.

[16] D. Poirel, «Bernardo di Clairvaux» in La lectio divina nella vita religiosa…, 265.

[17] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 9, 12, CTP 185.

[18] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 12, 10, CTP 267-268.

[19] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 11, 2, CTP 240.

[20] Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, XIV, 1.

[21] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 11, 3, CTP 241.

[22] Smaragdo, Diadema monachorum, PL CII, XL, 636 B.

[23] Isacco della Stella, Semoni, 16, 1.

[24] Cesario d’Arles, Sermoni 8, 3.

[25] Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, VIII, 2.

[26] Bernardo, SCC, LIV, 8

[27] Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, XI, 3.

[28] C. Mondésert, Clément d’Alexandrie…, 104-105.

[29] Origene, Omelie su Isaia, V, 2, CTP 113.

[30] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 12, 19, CTP 276.

[31] Ep 9,1, 1105C.

[32] Isacco della Stella, Sermoni, 25, 13, ed. cit. 195.

[33] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele/1, I, 8, CTP 17, 133.

[34] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, II, 288, pp. 326-327.

[35] Bernard McGinn, Storia della mistica cristiana in occidente. Lo sviluppo (VI-XII secolo): Capitolo 2. Gregorio Magno: un contemplativo in azione, Marietti 1820, 56-72.

[36] G. Cassiano, Conferenze, I, IX, 25.

[37] Diadoco di Foticea, Centurie gnostiche, 67.

[38] Diadoco di Foticea, Centurie gnostiche, 68.

[39] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, X, 39, CTP 232.

[40] Isacco di Ninive, Discorsi ascetici/1, XXII, p. 204-205.

[41] Smaragdo di San Michele, Diadema monachorum, PL CII, 598 B.

[42] Isacco della Stella, Sermoni, 18, 3.

[43] Isacco della Stella, Sermoni, 14, 6.

[44] Isacco della Stella, Sermoni, 19, 24.

[45] Bernardo, SCC, XXIX, 4.

[46] Massimo di Torino, Sermoni, 39, 1, CTP 169.

[47] D. Poirel, «Bernardo di Clairvaux» in La lectio divina nella vita religiosa…, 267.

[48] G. Pomerio, La vita contemplativa, I, VIII, p. 70.

Nessun commento:

Posta un commento