martedì 15 novembre 2011

I fondamenti della spiritualità cristiana

Gesù non è solo un uomo del passato, per quanto insigne, ma un Vivente, è Spirito o potenza di Dio in noi. Il Vangelo non è, in primo luogo, possedere una dottrina etica eccellente e neppure godere di mezzi di grazia, ma è essere una cosa sola col Cristo, il Vivente, rendersi disponibili all’azione continua con cui egli forma se stesso in noi, e così trasferire in noi la sua stessa esperienza 1.




Mistero nella Bibbia

Tra le molteplici denominazioni utilizzate per parlare dell'esperienza di fede vissuta (la “via”, avere la vita eterna, accogliere il regno), la tradizione cristiana, liturgica e mistica, ha preferito la locuzione conoscere il mistero. Proprio questa categoria è apparsa la più significativa per illustrare ciò che la Chiesa vedeva realizzarsi in se stessa. Cerchiamo allora, in primo luogo, di scoprire il senso di l'espressione biblica mistero del Vangelo.

In che cosa consiste il mistero del Vangelo? Quando oggi sentiamo parlare di vangelo, pensiamo spontaneamente al libro che contiene gli scritti dei quattro evangelisti. Al tempo della predicazione degli apostoli, invece, il termine non significava un testo scritto ma l’annuncio di un evento lieto in fase di realizzazione. Il Vangelo richiama in primo luogo un movimento in atto non soltanto una dottrina; è la proclamazione solenne e gioiosa che rende noto lo svolgersi dell'azione decisiva di Dio a favore degli uomini, grazie alla persona di Gesù Cristo. Il vangelo parla quindi di Dio che agisce per mezzo Cristo2.

Già nel Primo Testamento, il ritorno dall'esilio, la riunificazione del popolo e la ricostruzione di Gerusalemme, opere che sono attribuite al volere di Dio, sono annunciate come un vangelo3. I destinatari di questi vangeli, più che ricevere degli insegnamenti, vengono a conoscenza di avvenimenti che Dio sta realizzando.

Nella riflessione di S. Paolo, l'autore che tratta questo tema con maggior estensione, vangelo è la predicazione che non solo attesta ma anche realizza l'avvenimento decisivo che Dio sta attuando a favore degli uomini per mezzo di Gesù (Rm 16, 25-26).

Conclusione: il termine vangelo, sia nel Primo come nel Nuovo Testamento, significa l'agire salvifico di Dio ma nel Nuovo indica l'azione definitiva di salvezza che Dio opera per mezzo di Cristo, nel presente.

L'uso della categoria di mistero, associata a quella del vangelo, ribadisce la convinzione che la missione di Gesù sia da interpretare come l’azione decisiva di Dio. Il mistero è un progetto segreto di Dio che, dopo essere stato ignorato a lungo, è svelato ora, nel corso della sua attuazione. L'intenzione profonda che anima questo progetto è la volontà di donare se stesso interamente in Cristo4.

Ora Cristo è il fulcro del progetto misterioso elaborato da Dio. La lettera ai Colossesi enuncia tutta questa novità in una sola parola: «Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,27). Ci troviamo di fronte ad un messaggio davvero paradossale: un avvenimento che si concentra in una persona; oppure una persona che pretende di porsi come il fatto decisivo.

Il mistero del Vangelo ha un carattere di attualità perché esso si dispiega in modo che tutti gli uomini vi possano partecipare: «Cristo in voi... »5.

Il vangelo e il mistero si riferiscono a ciò che Dio sta operando nel presente. Attualità e possibilità di partecipazione sono i due cardini per la comprensione dell'evento Cristo.


Nel cuore del mistero

«La durata della vita di Abramo fu di centosettacinque anni. Poi Abramo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni e si unì ai suoi padri (Gn 25, 7-8). «Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo. Il Signore gli mostrò tutto il paese […] Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, secondo l’ordine del Signore» (Dt 34, 5).

Gli uomini di Dio muoiono di solito tranquilli e felici, contenti soprattutto del risultato ottenuto dal loro impegno religioso. Buddha viene ritratto in una posizione pacificata, solcato da un sorriso. Anch’egli fu un uomo riuscito. Secondo le tradizione morì all’età di 80 anni, circondato dai suoi seguaci, tra i quali il discepolo prediletto Ananda, al quale lasciò le sue ultime disposizioni. Maometto muore, circondato dalle mogli premurose, dopo aver vinto numerose battaglie, certo di aver convertito l’Arabia e che la sua dottrina si sarebbe diffusa ovunque.

Riguardo a Gesù la sua morte in croce può impressionare sfavorevolmente. Di fatto i suoi discepoli ne rimasero turbati; la comunità primitiva, pur parlando della sua morte, era imbarazzata nel riferire le modalità con cui era avvenuta. Egli muore come un criminale sul patibolo della croce, alla stregua di chi viene condannato (o «maledetto») da Dio. Sembra fare l’esperienza di chi si sente abbandonato da Dio e sicuramente viene lasciato dai discepoli. Pur immerso in tanta sofferenza, egli continua ad affidarsi a Dio Padre e a trattare benevolmente il suo prossimo, fino al perdono dei nemici. È chiaro, comunque, che, nel corso della sua passione e morte, Gesù ha manifestato una straordinaria capacità di carità.

Paolo, nell’aderire al Vangelo, è stato colpito in primo luogo dall’altruismo di Cristo. Vincendo la ritrosia della Chiesa, egli ha capito che la vicenda che sembrava estremamente sfavorevole per Gesù, era in realtà la rivelazione della sua grandezza.

Nella concezione ebraica il Messia non avrebbe dovuto morire. La morte infatti è una conseguenza del peccato ma il Messia, essendo del tutto innocente, non avrebbe dovuto essere sottoposto a questa pena. Ne consegue che, se egli è morto, ha fatto questo volontariamente. Mentre tutti gli uomini devono rassegnarsi alla morte, Gesù non era sottoposto a questa regola ma la sua morte dipese da una sua decisione personale. Per Paolo, quindi, Gesù è «Colui che diede se stesso per i nostri peccati» (Gal 1, 4). La ragione per cui aveva scelto di essere crocifisso era fare del bene a persone inconsapevoli e indifferenti. «Paolo rimase talmente sopraffatto da questa intuizione che non riusciva a pensare alla morte di Cristo senza volere che anche altri apprezzassero la straordinaria profondità e forza dell’amore che essa rivelava» 6.

Possiamo ora capire perché la morte sia l'unico "evento" della vita di Gesù sul quale egli torna in continuazione nelle sue lettere. «Per Paolo era di grande importanza che la gente da lui convertita conoscesse quello che Gesù aveva detto e fatto, e così egli lo trasmetteva loro nella sua predicazione orale (2 Corinzi 11,4). Ma in ultima analisi non era questo a rendere unico Gesù. Anche altri maestri trasmettevano profondi insegnamenti teologici ed etici. E ce n'erano anche altri che avevano la fama di operare miracoli. Per Paolo, il fatto che Gesù avesse avuto la possibilità di scegliere se morire o meno lo distingueva da tutti gli altri, per i quali la morte era inevitabile. Per questo la morte di Gesù divenne la chiave che schiudeva il senso della sua vita. Essa rivelò a Paolo che quello che rende una persona autenticamente umana è l'amore che sacrifica se stesso, così come mostrato da Cristo. Ed egli voleva che i suoi lettori prendessero a cuore soprattutto questo» 7.

Credo che questa valorizzazione della morte di Cristo compiuta da Paolo sia uno dei fatti fondamentali, anzi l’evento più decisivo, della storia della spiritualità cristiana.

La manifestazione della fedeltà e della generosità del Crocifisso, operata nella sua morte, sia stato considerata da Paolo come il punto di svolta di tutta la storia.

Nella tradizione prepaolina (per esempio, I Cor 15, 3 - 4), croce e risurrezione sono trattate come eventi in sequenza, ma Paolo ha capovolto questo modo di vedere dando valore primario alla morte di Gesù. Prima di lui, la croce era pensata come il presupposto necessario della risurrezione (in quanto, senza la morte di Cristo, non potrebbe essererci risurrezione), ma quest'idea non era significativa dal punto di vista teologico. «Non è che la croce sia un capitolo nella storia della risurrezione, in cui la risurrezione supera in importanza la croce. Piuttosto, la risurrezione da significato alla croce, che è il vero centro di gravità. Si potrebbe quasi dire che la risurrezione sia un capitolo in un libro sulla teologia della croce» 8. Avverte John Stott: «Dobbiamo essere chiari riguardo alla natura della relazione tra la morte e la risurrezione di Gesù, e attenti a non attribuire un’efficacia salvifica ad entrambe in misura eguale […] Persino nel più antico kerigma apostolico, Paolo scrive che Cristo morì per i nostri peccati. In nessuna parte del Nuovo Testamento troviamo scritto che Cristo risuscitò per i nostri peccati. Ma non fu forse per mezzo della sua risurrezione che Cristo vinse la morte? No, per mezzo della sua morte egli distrusse colui che aveva il potere sulla morte (Eb 2, 14)» 9.

Il mistero della croce getta una nuova luce sulla spiritualità cristiana.

In primo luogo viene messo in risalto che cosa sia veramente amore. L’evento della croce è rivelazione di una realtà del tutto nuova e paradossale: l’amore gratuito di Cristo e di Dio Padre.

Gesù nella sua autodonazione presenta l’amore di Dio come un bene del tutto gratuito. «Mentre eravamo ancora peccatori, deboli, empi, impotenti... così è descritto l'uomo non giustificato, incapace di qualsiasi azione per essere giusto davanti a Dio, degno del suo amore. Come può l'uomo, lasciato a se stesso, essere degno di Dio? Nel testo greco è ripetuto eti (ancora), per sottolineare il perdurare di queste incapacità. È un'impotenza perdurante: e qui si inserisce la morte di Cristo. La Croce mostra un amore paradossale. E tuttavia anche vero, logico: anche l'amore umano, se vuole essere autentico, è amore gratuito»10.

«La Croce non dice soltanto che Dio ha donato il Figlio. Nella Croce Gesù ha svelato come è fatto l'amore di Dio: la sua profondità, la sua gratuità, le sue qualità. Tutto questo si è svelato nel modo in cui Gesù - nella sua esistenza e nella sua Croce - ha mostrato. È già difficile morire per qualcuno. In ogni caso qualcuno può morire per persone giuste e buone. Il paradosso dell'amore di Dio è che Cristo è morto per noi quando eravamo ancora peccatori. L'amore di Dio è il dono della vita da parte di Cristo, proprio così. La Croce è lo specchio dell'amore di Dio, non solo di Gesù»11.

1. Ora, ne deriva come ovvia conseguenza, che la persona spirituale dovrà, nel corso della sua maturazione, mostrare anch’essa di aver guadagnato il livello della gratuità della carità.

2. La spiritualità non ha carattere teorico ma pratico. La spiritualità si differenzia dalla teologia in quanto essa è dottrina vissuta. Quanto il teologo conosce in astratto, il mistico lo sa per esperienza. È quanto riappare nel concetto di esemplarità espresso ancora da S. Paolo. Nella prima lettera ai Tessalonicesi egli «insiste sull'esemplarità dell'Apostolo e della comunità cristiana come modalità privilegiata di trasmissione della fede in Cristo. In 1 Ts 1,6 i cristiani di Tessalonica sono definiti dai mittenti della Lettera «imitatori nostri e del Signore». Più avanti, è presentato un altro modello di vita cristiana che la Chiesa tessalonicese, durante le persecuzioni, è stata capace di imitare, cioè le comunità cristiane, anch'esse perseguitate, della Giudea (cf 2,14). Ma, a loro volta, pure i cristiani di Tessalonica diventano così esemplari da suscitare la stessa dinamica in altri cristiani della Macedonia e dell'Acaia (1,7)» 12. Una Chiesa impara il vangelo da una maniera di vivere (o meglio di essere) proposta da un’altra comunità.

Si può riassumere così il principio di esemplarità prospettato da Paolo: «Solo perché Paolo vive in prima persona un'esperienza di gioia e di sofferenza ad imitazione del mistero di morte e di risurrezione di Cristo (cf 2 Cor 1,3-7; 4,10-16), può diventare a sua volta oggetto di imitazione da parte dei cristiani, in modo da favorire l’accoglienza da parte loro della «parola (di Dio) in mezzo ad abbondante tribolazione con gioia di Spirito Santo» 13.

3. La spiritualità è una vita efficace per se stessa. Si evidenzia così un terzo aspetto, il più paradossale ma anche il più decisivo. Soltanto chi diviene carità, evangelizza in verità e diffonde vita.

La croce toglie ogni illusione: solo essa è l’atto decisivo della redenzione. Gesù ha redento il mondo non con l’insegnamento, con i miracoli e con le esperienze mistiche ma con il dono totale di sé. L’evangelizzatore che riproduce in sé l’evento pasquale del Signore, massima prova di carità, diffonde la vita del Signore. Ritorniamo di nuovo alla vicenda dell’apostolo Paolo. Egli è stato sorpreso che dal fatto che Dio non trasformasse in un corteo trionfale il suo pellegrinaggio evangelizzatore. Al contrario, ovunque trovò difficoltà, che spesso gli apparvero come schiaccianti. Egli stesso le elenca. I problemi danno sempre fastidio e ognuno di noi istintivamente cerca di rimuoverli, anzi chiede a Dio che gli vengano rimossi. Così si è comportato Paolo. Per «tre volte» ha chiesto di Dio di essere liberato da tutto ciò che chiama, con un’immagine vivace, la spina infitta nella sua carne. La risposta di Dio è stata ben diversa da come l’apostolo si attendeva: «La (mia potenza) si compie nella debolezza». Nella prassi normale degli uomini le difficoltà avviliscono e fanno perdere, mente la forza inorgoglisce e consente la vittoria. Cristo però ha vinto, ossia ha modificato le sorti dell’umanità, proprio nello sperimentare una vicenda che, umanamente, è percepibile come il massimo dell’impotenza e dell’inefficacia. Ora l’apostolo si accorge di essere efficace nella sua azione e vitale proprio quando vede riapparire in sé la vicenda stessa di Gesù. Nel capitolo precedente avevo detto che il cristiano non può sussistere come tale se in lui non si rende presente Cristo. Ora và aggiunto che Cristo vuole operare nel suo discepolo il suo massimo evento d’amore.

Tutti questi aspetti determinano in profondità un percorso cristiano di spiritualità. Se, come ho scritto sopra, la spiritualità è azione, ora bisogna precisare che essa non corrisponde tanto ad un qualsiasi operare positivo, ma all’irradiarsi in noi della carità che sta alla radice di ogni nostra azione spirituale. Non basta fare ma bisogna agire per amore. Inoltre è più efficace un’opera arricchita da una profonda stratificazione d’amore, piuttosto che un’azione di grande rilievo ed appariscenza ma povera di carità. Ci sono opere di santità che sono anche vistose, ma non sono tali per il semplice spicco pubblicitario. Questo libera l’uomo spirituale da ogni angosciosa ricerca di scovare opportunità. Il semplice quotidiano basta a santificare, anzi spesso è esso a costituire il banco di prova più duro ed efficace. Anzi – la spiritualità cristiana incontra sempre il paradosso – i fatti svantaggiosi possono diventare i più arricchenti. Questo accade perché essi attivano nel credente energie di fede, di speranza, di carità e di pazienza, impensabili in via ordinaria.


La Bibbia rivela una nuova immagine di Dio rispetto a quella presentata dalle altre religioni. Ne era già cosciente un antico teologo cristiano. In due capitoli della Lettera a Diogneto, ritroviamo l’aspetto essenziale dell’annuncio cristiano. Ripercorriamoli con attenzione.

In un primo passo viene messa in risalto la novità di un Dio che si fa conoscere da se stesso: «Chi fra tutti gli uomini sapeva perfettamente che cosa è Dio, prima che egli venisse? […] Nessun uomo lo vide e lo conobbe, ma egli stesso si rivelò a noi. Si rivelò mediante la fede, con la quale solo è concesso vedere Dio. Dio, signore e creatore dell'universo, che ha fatto tutte le cose e le ha stabilite in ordine, non solo si mostrò amico degli uomini, ma anche magnanimo. Tale fu sempre, è e sarà: eccellente, buono, mite e veritiero, il solo buono».

Nelle religioni asiatiche e greco-romane viene a prevalere la riflessione dell’uomo su Dio ed anche il suo sforzo per cercarlo, sebbene in questa ricerca sia stato preceduto dal suo aiuto e l’illuminazione corrisponda ad una manifestazione libera della divinità; nella Bibbia Dio rivela se stesso, come colui che è appassionato, interessato dell’uomo.

Nel nuovo Testamento, poi, la novità è Gesù Cristo stesso. Continua lo stesso antico teologo: «[Dio Padre] avendo pensato un piano grande e ineffabile lo comunicò solo al Figlio. Finché lo teneva nel mistero e custodiva il suo saggio volere, pareva che non si curasse e non pensasse a noi. Dopo che per mezzo del suo Figlio diletto rivelò e manifestò ciò che aveva stabilito sin dall'inizio, ci concesse insieme ogni cosa, cioè di partecipare ai suoi benefici, di vederli e di comprenderli. Chi di noi se lo sarebbe aspettato?». Il segno che si è colto il significato unico della fede cristiana si trova nel nostro sentimento di stupore: chi di noi se lo sarebbe aspettato?

La missione del Figlio, culminante nella morte di croce, è la rivelazione estrema dell’amore divino. A differenza dell’uomo che può amare solo ciò che è desiderabile e apprezzabile, Dio mostra di amare anche ciò che è vituperevole. Si preoccupa dell’uomo che gli si dimostra indifferente, perfino ostile e cerca di liberarlo dal peccato di cui si è reso schiavo: «Dopo che la nostra ingiustizia giunse al colmo e fu dimostrato chiaramente che come suo guadagno spettava il castigo e la morte, venne il tempo che Dio aveva stabilito per manifestare la sua bontà e la sua potenza. O immensa bontà e amore di Dio. Non ci odiò, non ci respinse e non si vendicò, ma fu magnanimo e ci sopportò e con misericordia si addossò i nostri peccati e mandò suo Figlio per il nostro riscatto; il santo per gli empi, l'innocente per i malvagi, il giusto per gli ingiusti, l'incorruttibile per i corrotti, l'immortale per i mortali».

La morte di Gesù segna il punto di svolta della storia degli uomini, così intrisa di violenza, fino alla crudeltà. Il merito del suo impegno d’amore ci viene attribuito come nostro: «Quale altra cosa poteva coprire i nostri peccati se non la sua giustizia? In chi avremmo potuto essere giustificati noi ingiusti ed empi se non nel solo Figlio di Dio? L'ingiustizia di molti viene riparata da un solo giusto e la giustizia di uno solo rende giusti molti. Egli che prima ci convinse dell'impotenza della nostra natura per avere la vita, ora ci mostra il salvatore capace di salvare anche l'impossibile. Con queste due cose ha voluto che ci fidiamo della sua bontà e lo consideriamo nostro sostentatore, padre, maestro, consigliere, medico, mente, luce, onore, gloria, forza, vita». (A Diogneto, VIII e IX)

In questi due capitoli, ripeto, riscopriamo l’essenziale della fede che diventa il paradigma del cristiano maturo, dell’uomo spirituale in Cristo e il paradigma del nostro comportamento.

Il Vangelo, l’annuncio della novità di Cristo, rimane vincolato per sempre alla rivelazione di Dio nella persona di Gesù, nel suo operare e parlare, soprattutto alla sua capacità di attraversare la durezza della sua vicenda umana trasformando dall’interno un’esistenza contrassegnata dalla povertà e dal rifiuto.

Vediamo come san Massimo il Confessore sintetizzi l’intera esperienza di Gesù. Questo grande Padre vede in Gesù Colui che in tutta la sua esistenza ha lottato per salvaguardare nella concretezza della sua persona il comandamento dell’amore verso Dio e verso gli uomini:

«Se vuoi conoscere lo scopo del Signore, ascolta attentamente. Orbene, il nostro Signore Gesù Cristo, essendo per natura Dio ed essendosi degnato di diventare uomo per amore degli uomini, generato da una donna divenne sottoposto alla legge, secondo il divino Apostolo, affinché, osservando il comandamento come uomo, eliminasse l'antica maledizione di Adamo. Ora sapendo il Signore che tutta la legge ed i profeti consistono in questi due comandamenti: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore ed il prossimo come te stesso, si sforzò di osservarli dal principio e sino al termine in modo umano. Invece colui che aveva ingannato dall'inizio l'uomo e per questo aveva il potere della morte, il diavolo, avendolo visto testimoniato dal Padre durante il battesimo e mentre riceveva dai cieli come uomo lo Spirito Santo a lui congenito e quando si recava nel deserto per essere da lui tentato, scatenò tutta la sua guerra contro di lui, se per caso potesse fare in modo che anch'egli preferisse il mondo materiale all'amore di Dio. Ora il diavolo sapendo che questi sono i tre motivi per cui si muovono tutte le cose umane, intendo cibi, ricchezze e gloria, per mezzo dei quali riuscì sempre a spingere l'uomo nel baratro della sua rovina, lo tentò nel deserto in queste tre cose, ma nostro Signore, mostratesi più forte di esse, ordinò al diavolo di retrocedere.

Questo dunque è il segno dell'amore per Dio. Ora non potendo indurlo a trasgredire questo comandamento mediante ciò che prometteva, si sforzava con le sue macchinazioni di fare in modo che egli trasgredisse almeno il comandamento dell'amore per il prossimo, una volta tornato in società, agendo per mezzo degli ingiusti Giudei. Per questo motivo mentre egli insegnava le vie della vita e con i fatti mostrava la condotta celeste ed annunziava la risurrezione dei morti e prometteva ai credenti la vita eterna ed il regno dei cieli, minacciando invece l'eterno castigo agli increduli e presentando a conferma delle sue parole mirabili segni divini ed invitando alla fede le turbe, spingeva gli ingiusti farisei e scribi a varie insidie contro di lui, affinché egli, come credeva, non potendo sopportare le tentazioni, si volgesse all'odio verso coloro che lo insidiavano ed in questo modo il malvagio raggiungesse il suo scopo, mostrandolo trasgressore del comandamento dell'amore del prossimo.

Ma il Signore, ben conoscendo come Dio le loro intenzioni, non odiò i farisei istigati da lui — come infatti avrebbe potuto, essendo buono per natura? —, ma si vendicò del loro istigatore mediante l'amore per essi. Ammoniva, rimproverava, biasimava, commiserava quelli istigati come se, pur potendo non essere istigati, per debolezza sopportassero volontariamente l'istigatore; non cessava di fare loro del bene; ingiuriato, era magnanimo; soffrendo, sopportava; mostrava ad essi tutte le opere dell'amore. Si vendicò dell'istigatore con la benevolenza verso gli istigati: oh, lotta paradossale!, invece dell'odio mostrando l'amore e colpendo con la bontà il padre della malvagità. Per questo avendo sopportato tali mali da parte loro, o meglio, per dirla più esattamente, per causa loro, lottò sino alla morte secondo la natura umana per il comandamento dell'amore e, riportata la vittoria perfetta sul diavolo, consegui per noi la corona della risurrezione. E cosi il nuovo Adamo rinnovò l'antico. Questo è ciò che afferma il divino Apostolo: Sia in voi questo sentimento che fu pure in Cristo Gesù, ed il seguito»14.

Queste due testimonianze richiamano l’essenziale del Vangelo: Dio si prende cura dell’uomo e mostra pietà dell’umanità colpevole. La sua iniziativa non consiste in ulteriori richiami profetici ma nell’invio dello stesso Figlio. L’essenziale della missione di Gesù non sta nel suo insegnamento ma nella sua persona, in quello che Egli è. Il suo amore verso Dio lo dimostra nel suo amore verso gli uomini, particolarmente nel travaglio della sua passione. La sua spiritualità consiste nell’attraverso dell’esperienza del male vincendolo con il bene.

Tutto ciò che Egli ha compiuto lo ha fatto per noi affinché, abbandonando la nostra miseria, diventassimo ricchi della sua pienezza: «[Cristo si consegnò volontariamente alla morte] per glorificarci, facendoci rifulgere con la bellezza della propria divinità, tanto quanto, in proporzione, egli stesso accettò di essere disonorato con i patimenti dovuti a noi»15.


I primi passi della mistica cristiana

Abbiamo compiuto così il primo passo per spiegare il termine mistica cristiana: bisogna risalire al mistero biblico, quindi all’evento Cristo che deve realizzarsi in noi.

Tuttavia è necessario un altro riferimento di carattere storico. Sono stati i Padri della Chiesa a definire la vita cristiana come mistica. Essi hanno usato la parola mistero in un contesto culturale in cui era dominante la relazione coi misteri pagani. In questo modo essi potevano da una parte entrare in sintonia con questa cultura e dall’altra anche contrapporsi ai misteri pagani, pur recuperando e trasferendo in ambito di fede la motivazione che li rendeva così attraenti.


Mistica cristiana e misteri

Nei primi secoli del cristianesimo16, il fenomeno mistico ottenne accoglienza nella chiesa già dal terzo secolo (a partire da Clemente Alessandrino)17 e fu interpretato utilizzando categorie culturali attinte in primo luogo dalla Sacra Scrittura ma anche dai misteri greci. I Padri, pur ricevendo dalla Sacra Scrittura sia il termine mistero come anche il suo contenuto, lo hanno esposto tenendo conto degli orientamenti culturali dell’epoca, accogliendo o respingendo ciò che sembrava conforme o difforme alla dottrina cristiana18.

Ciò non significa, tuttavia, che i misteri ellenistici siano stati la culla della mistica, né di quella pagana, né di quella cristiana. Infatti, la ricerca di unità con l’Assoluto ha radici più profonde delle celebrazioni misteriche e i Padri, come ho detto, attingono il contenuto della fede dalla tradizione apostolica.

I riti iniziatici ellenistici presupponevano un evento originario atemporale (mito), illustrato da un racconto mitico e rievocato da un rito. Nei misteri più celebri dell’antichità, quelli celebrati ad Eleusi, l’evento originario era costituito dal periodico ritorno alla vita di Persefone (o Kore). Rapita dal dio degli inferi, Ade (o Plutone) è cercata disperatamente dalla madre Demetra. Costei, rivoltasi al padre degli dei per avere giustizia, ottiene da Zeus che la figlia, pur sposando il dio rapitore, ritorni semestralmente presso la madre. Dalla congiunzione di Kore col suo sposo e poi dal suo ritorno alla madre celeste nascono e poi crescono le messi. Questo accadimento atemporale era ricordato dal racconto mitologico e rievocato nella celebrazione a cui partecipavano l’iniziato e il neo adepto (mystes o myoumenos)19.

Il fascino esercitato dalla celebrazione misterica stava nel fatto che essa garantiva una relazione personale e permanente con la divinità. Il miste veniva accolto personalmente dalla divinità e poteva rivivere la sua vicenda divina. La salvezza promessa riguardava l’attuale esistenza terrena, ma toccava anche quella ultraterrena, garantendo l’immortalità20.

Il valore della categoria di mistero, sta nell'aver percepito la necessità di un trascendimento, - certo non del rifiuto -, della sfera morale o dell'apparato dottrinale, a favore di un contatto diretto con la sfera divina, e, quindi, nell'aver aspirato alla possibilità di incontrare dal vivo una divinità e di partecipare alla sua sorte.

Accogliendo termini e concetti dalle religioni misteriche, i Padri, proseguirono un processo di rielaborazione dei riti misterici già intrapreso dalla filosofia (platonismo e neoplatonismo). Plotino, particolarmente, aveva sostenuto che l'anima, nel processo di ritorno all'Uno, vive un reale processo iniziatico. Questo il senso del suo messaggio: i benefici che gli adepti cercavano di conseguire partecipando ai riti iniziatici, erano ottenuti con maggior sicurezza dai cultori della sapienza filosofica, i quali si impegnavano nella ricerca razionale e nella purificazione etica21.

Come ho già rilevato, la fede e, quindi, la mistica cristiana si fondano sul fatto che Gesù non è solo una grande personalità religiosa della storia né un grande maestro spirituale ma un mistero, un evento divino eterno che apre ad ogni credente la prospettiva di una gnosi, di una sapienza integrale che è deificazione.

Questa operazione culturale è evidente nella riflessione di Gregorio di Nissa. J. Daniélou ha individuato quattro sensi principali di mysterion nel suo pensiero22.

Il significato fondamentale coincide con quello biblico: il mistero corrisponde a Cristo Signore. Compare tuttavia un aspetto di novità: in modo più specifico tutti gli eventi della vita di Cristo, dal concepimento alla risurrezione, vengono chiamati misteri. Qui la cultura cristiana opera un capovolgimento del concetto di mistero: se nel pensiero greco, il termine significa qualcosa di segreto e di sconosciuto, nell’ambito cristiano si indica, invece, ciò che passa all’oscurità alla rivelazione. In un secondo significato, il mistero corrisponde alla prassi sacramentale della Chiesa. Il terzo ambito nel quale questo termine compare rientra nel campo dell’esegesi biblica; anche in questo caso avviene un passaggio tra ciò che inizialmente appare nascosto ma in seguito viene invece rivelato. Il contenuto profondo del testo biblico deve essere rivelato dallo Spirito e la conoscenza penetrante della Scrittura è un dono che viene da Dio. L’ultimo senso è quello relativo all’esperienza mistica. In quest’ambito, il mistero corrisponde al grado più elevato della vita spirituale ove si riceve una conoscenza sperimentale di ciò che prima si credeva soltanto per fede. Tutti questi sensi indicati reagiscono tra loro e convergono in un’unica concezione. Faccio un esempio. Secondo Gregorio di Nissa, un evento della vita di Cristo come l’ultima cena, che fonda il sacramento eucaristico, viene annunciato già nel libro del Cantico dei Cantici, là dove compare l’invito: mangiate, amici miei, bevete, inebriatevi, fratelli miei (5, 1). Il cristiano che si accosta all’Eucaristia non soltanto aderisce a quest’invito ma ne sperimenta la verità. In altre parole, cibandosi del Cristo, viene inebriato da Lui, vive una ebbrezza che lo aliena dalle falsità della vita presente e lo introduce nei beni divini. L’eucaristia trasforma il credente in un mistico; egli appare come tale perché sperimenta nella sua esistenza sia il contenuto segreto della Scrittura quanto l’efficacia del sacramento.

Mistero riguarda prima di tutto la persona di Gesù ma il linguaggio misterico fu utilizzato dai Padri della Chiesa, che furono gli iniziatori della mistica cristiana, anche per parlare delle modalità più significative con cui esso si rende accessibile al credente: Culto liturgico (sacramenti) e Sacra Scrittura. La spiritualità cristiana è stata considerata un’esistenza mistica proprio perché si fonda su questi misteri.

La liturgia è mistica, la Scrittura è mistica. Sono tali perché permettono al credente di assimilare il Verbo di Dio che si comunica per loro mezzo fino a trasformare la vita stessa in una realtà di esistenza che diventa, a sua volta, mistica. Il cristiano diventa così un altro Cristo, oppure, in altre parole, diventa Eucarestia e Scrittura viventi. Gli elementi menzionati (culto, Scrittura, esistenza coerente alla fede), inoltre, sono strettamente connessi tra loro: il Signore si rende presente nel culto per rendere tutta la chiesa partecipe, nella sua esistenza, di ciò che si annunzia nella Scrittura, e di ciò che Egli è. È questo il dato essenziale della sapienza cristiana, ciò a cui si allude parlando dell'oggettività del mistero cristiano.

In questa parte del mio lavoro vorrei riesaminare il loro insegnamento su ognuno di questi aspetti specifici. Vedremo come in ognuna di questa realtà si sperimenta la presenza permanente del Signore che offre a tutti la possibilità di diventare ciò che Egli è.


La Liturgia è una realtà mistica

Il processo di deificazione o di conformazione a Cristo prende avvio e acquista un consolidamento dalla partecipazione ai misteri o sacramenti. Non possiamo salire fino a Dio, se Egli non scende ad incontrarci. Nel nostro cammino Dio ci precede sempre e ci accompagna. La purificazione e la somiglianza con Lui, prima ci vengono offerte come possibilità. Solo dopo aver accolto il dono, può in iniziare il nostro impegno di collaborazione. Osserva giustamente O. Casel: “Tutta la mistica cristiana si fonda sull’azione salvifica di Cristo che si effettua nella liturgia e da questa trae il suo contenuto e la sua forza. Non è certo lo spirito dell’uomo, che può innalzare l’anima all’altezza di Dio, ma solo il sacro Spirito divino, che non è altro che lo spirito di Cristo”23.

Gregorio di Nazianzo interpreta la festa cristiana come un’evocazione misterica: “Ritorna il mio Gesù e ritorna il mistero – un mistero non ingannevole né indecoroso, che non ha niente a che fare con gli errori né con l’ebbrezza della Grecia si tratta di un mistero sublime, divino, che preannuncia lo splendore superno”24.

Il mistero del Signore, rimanendo sempre vivo ed attuale, è offerto ad ogni credente perché possa parteciparvi: “Per l’uomo è stata data ogni parola e istituito ogni mistero…”25. “Tu devi passare attraverso tutte le varie età di Cristo e le sue virtù…”26. “Quante sono le feste avrei per celebrare ognuno dei misteri di Cristo! Ma in tutti il punto fondamentale è la mia perfezione”27.

Il Signore, dunque, vuole includere la Chiesa intera, di ogni tempo e luogo, in ciò che egli è e in ciò che ha vissuto ed essa ha ricevuto la possibilità di partecipare al grande evento della salvezza attuato da Gesù. “Non senza motivo, carissimi, vi abbiamo esortato a partecipare alla passione di Cristo”, avverte S. Leone, “affinché la vita dei credenti attui in se stessa il mistero pasquale, e ciò che è venerato nella festa, venga celebrato dalla vita”28.

Agostino per spiegare la relazione tra evento storico, ormai compiuto, e la sua contemporaneità per i credenti d’ogni tempo stabilisce una distinzione tra veritas e sollemnitas. La verità narra che cosa è avvenuto e come è avvenuto; la solennità, invece, non compiendole per la prima volta, ma celebrandole, “non lascia che passino cose già passate”29. Se la verità ci fa sapere che la Pasqua di Cristo è già accaduta in un tempo specifico, in quel modo particolare e una volta per tutte, parlando secondo la solennità, si afferma che la Pasqua viene ogni anno.

L’ora della grazia ha una scadenza diversa da quella della cronologia. Secondo Massimo di Torino ciò che Cristo compì, non lo operò soltanto per quelli che aveva davanti a sé allora, ma anche per noi che saremmo venuti dopo, cosicché i nostri antenati, che pure ci precedono nel tempo, non ci precedessero nella grazia dei segni30; ed aggiunge, con una formula audace, “noi vediamo ora ciò che è stato fatto un tempo, è cosa che abbiamo visto chiaramente e che vediamo ogni giorno”31. La Scrittura proclamata nella liturgia diventa così uno specchio posto davanti alla Chiesa perché possa contemplare ciò che il Signore sta operando in essa32.

Agostino concentra il senso di tutte le feste cristiane in un unico atto commemorativo, quello dell’incontro nuziale di Cristo con la sua Chiesa: “ogni celebrazione liturgica è, infatti, una festa nuziale; la festa delle nozze della Chiesa […] Coloro che nella Chiesa assistono alle celebrazioni liturgiche, se vi partecipano bene, diventano la sua sposa”33. Al di là dell’annunzio specifico delle singole festività, permane un unico riferimento costante: la comunità ricorda e riceve l’amore sponsale del Signore che si dona nuovamente ad essa, per santificarla e renderla una sposa splendente e immacolata.

Alle nozze di Cana, cambiando l’acqua in vino, Gesù “inaugurò i sacramenti della Chiesa”. Siamo posti così di fronte ad un archetipo. Sebbene questo miracolo fosse commemorato all’Epifania, la circostanza è sfruttata per dare uno sguardo unitario all’opera della salvezza, rievocata nella varie festività che in quel tempo si stavano costituendo: “Quando il Signore fu battezzato e istituì il sacramento del battesimo mutò anche il genere umano come vile acqua in eterna sostanza, con il sapore della divinità”34.“Da questo miracolo è contenuto per intero il mistero della risurrezione”, infatti, la trasformazione dell’acqua in vino “sta a significare, che la sostanza dell’uomo… deve essere mutata nella gloria della risurrezione”35.

Nella teologia dei Padri il punto di riferimento centrale della fede è il mistero della Pasqua. Ogni azione compiuta da Cristo dà luogo ad un mistero36 ma quello centrale è la Pasqua.

“Questa è la Pasqua del Signore […] Questa è, per noi, la festa di tutte le feste, la celebrazione di tutte le celebrazioni, al di sopra, tanto quale il sole lo è rispetto alle stelle”37.

In modo analogo si esprime s. Leone: “Fra tutti i giorni che la devozione cristiana celebra con onore in molti modi, nessuno è più importante della festa di Pasqua, dalla quale tutte le altre festività della Chiesa di Dio attingono la loro sacra solennità. Lo stesso Natale del Signore è legato al mistero pasquale, perché il Figlio di Dio non nacque se non per essere confitto in croce”38. Nella Pasqua, infatti, con il corpo preso dalla Vergine, Gesù diventa redenzione e principio di risurrezione. Come si vede, evita di isolare un mistero dall'altro o di svincolarli dal loro sviluppo culminante che corrisponde al compimento pasquale.

Le feste liturgiche celebrano il farsi del mistero di Cristo nella Chiesa lungo la storia. Manca il concetto di un anno liturgico parallelo a quello civile (esiste piuttosto il concetto di ciclo liturgico), ma in ogni festività, lungo il trascorrere dell'unico tempo storico, la comunità si unisce al Signore per partecipare alla sua gloria, attuando nella vita la carità manifestata sulla croce. Tutti gli eventi della vita del Signore, annunciati nella varie feste liturgiche, sono atti in cui Egli non fa altro che preannunziare quanto compirà nella Pasqua e in tutti questi episodi egli comincia a mostrare quella carità efficace che manifesterà in pienezza sulla croce. In questo modo il cristiano vive un unico mistero, quello del Signore, glorioso per la forza del suo amore, nell'unico tempo della storia, divenuto ormai, storia di salvezza.

Un modo di pensare analogo si riscontra anche nella riflessione sui sacramenti: anch'essi rinviano ad un fatto storico archetipale che intende rinnovarsi, ossia la Pasqua del Signore.

Cirillo di Gerusalemme, seguendo le orme di s. Paolo, spiega ai neobattezzati che l'immersione nell'acqua battesimale, è imitazione di quanto è accaduto a Gesù: l'immersione richiama un seppellimento. Il riferimento essenziale è costituito dalla morte e sepoltura del Signore. Il battezzato, imitando nel rito quei fatti, ottiene la realtà di salvezza comunicatagli dal Signore che lo unisce a sé39.

In modo analogo, per Gregorio di Nissa, “la triplice immersione nell'acqua” battesimale riproduce fedelmente “la grazia della risurrezione dopo i tre giorni”40. Si tratta di accogliere in se stessi quanto è stato vissuta da Gesù.

Il culto, particolarmente l’Eucaristia, rappresenta la modalità massima della presenza del Signore, l’irruzione del Regno e del mistero di Dio. Esso si colloca, allora, come la sorgente della vita cristiana, fino al suo sviluppo nell’unione mistica. Una dichiarazione di Clemente, evoca questo nucleo essenziale dell'esperienza cristiana: “il Salvatore... spezzò il pane e lo porse. Questo perché noi mangiassimo con atteggiamento razionale e governassimo la nostra vita secondo obbedienza con la conoscenza delle Scritture»41. Gesù consegna se stesso nell'Eucaristia per trasferirsi nella nostra vita grazie all'attuazione della sua parola. Sacramento, Scrittura e vita, le tre modalità in cui si attua il mistero, concorrono nel realizzare lo stesso evento.


2. La Scrittura è una realtà mistica

Assieme al culto, i Padri denominano come realtà mistica il contenuto cristico della Sacra Scrittura. Per poter concepire la Scrittura come mistero, bisogna aver elaborato due convinzioni: che Cristo sia il fine della Scrittura e che ora essa possa essere rivissuta in lui.

Gi episodi della Sacra Scrittura sono misteri in quanto sono dei fatti esemplari che, preannunziando, dapprima, o proclamando, poi, il Cristo, svelano il progetto di salvezza pensato da Dio, in modo tale che possa essere attuato nuovamente dalla Chiesa.

1. Cristo è il contenuto profondo della sacra Scrittura. I cristiani attribuiscono a Cristo quel valore primario che Israele attribuisce alla Legge. Gli autori sacri cristiani proclamano l'esistenza di un modello originario, presente nel cielo, trascendente il tempo, forma ideale per l'agire di ogni creatura, per ogni fatto storico salvifico e per ogni atto di culto: questi è il Signore Gesù, l'Agnello immolato prima della fondazione del mondo42.

A sua immagine e per sua opera è stato creato ogni uomo. Tutti gli uomini retti si sono ispirati a lui quando si sono incamminati nell'obbedienza a Dio. Il suo Spirito ha animato i giusti e i profeti di Israele, i quali, sotto la sua guida, predissero e compirono, limitatamente alle loro possibilità, ciò che avrebbe compiuto in futuro. Lo stesso Spirito parla ora tramite gli apostoli per rendere ancora possibile l'adempimento di quelle prefigurazioni nella vita della Chiesa. “Tutto nelle Scritture parla di Cristo...”, ripete Agostino43, testimoniando la comune convinzione della Chiesa. Il cristiano, a sua volta, deve cercare di “percepire il suo pensiero”, “il suo modo di intenderla”44; deve ricevere in sé il Verbo fatto carne ed essere come “imbevuto dei misteri evangelici”45.

2. Il mistero cristiano, rivivendo Cristo, attua di nuovo, tutta la Sacra Scrittura che è compresa in Lui. Se Cristo è il centro della Sacra Scrittura, quando la Chiesa, e il mistico cristiano in essa, quale sua migliore realizzazione, imitano il Signore e lo ripresentano nell’oggi, danno origine a fatti che sono in analogia con quelli narrati dal testo sacro. Di conseguenza, gli eventi biblici sono dichiarati misteri perché tornano a ripetersi e annunciano ciò che la Chiesa vede accadere in essa, nei suoi membri più qualificati, per opera del Signore. Quanto è accaduto nel passato torna a ripresentarsi nell'oggi. Lo abbiamo già visto a proposito dei sacramenti. In questo modo appare evidente come Cristo sia “il mistero della Chiesa”, e che “da Cristo viene descritta la Chiesa”46, come proclama Origene47.

3. Lasciandosi dominare dalla Parola, il cristiano comprende e conosce il Signore stesso. La tradizione dei Padri coglie una stretta relazione tra esperienza mistica e Sacra Scrittura, in quanto riconosce che l'obbedienza alla Parola del Signore consente l'esperienza di una comunione profonda con lui. A partire da questa convinzione, s. Massimo stabilisce una viva relazione tra comunione col Cristo e conoscenza mistica della Bibbia.

Quando il Verbo di Dio sarà in noi chiaro e splendente e il suo volto rifulgerà come il sole, allora anche le sue vesti appariranno candide, cioè le parole della Sacra Scrittura, penetranti e chiare, senza nulla di nascosto48.

La Parola stessa, quindi, rivela infinite possibilità e cambia aspetto a misura della maturazione spirituale di chi la legge. In altre parole il culmine della comprensione della Scrittura coincide con la perfetta assimilazione del Signore Gesù, e viceversa. Il traguardo finale a cui aspira il mistico cristiano è quello di divenire un esegeta vivente della Scrittura.


3. L'esistenza cristiana è una realtà mistica

Clemente Alessandrino è stato il primo ad illustrare l'esperienza spirituale utilizzando largamente i concetti e la terminologia dei misteri.

Ispirandosi a s. Paolo, egli ritiene che esista una verità presso Dio, sconosciuta agli uomini, ma rivelata ai “perfetti”; nascosta allo stesso Israele, è stata rivelata agli apostoli49. Si compiace di rilevare il carattere di segretezza di tale rivelazione, che rimane, comunque, destinata e offerta a tutti, sebbene, di fatto, venga accolta o sviluppata appieno da un numero più ristretto di eletti. «Il mistero trasmesso è Cristo stesso che si consegna alla gnosi della Chiesa» 50.

Il cristiano fa proprio il mistero del Signore e lo accoglie mentre Egli comunica se stesso proprio a lui.

La contemplazione, che può, dunque, essere chiamata meglio unione, è lo scopo stesso dell'esistenza. L'epopteia mistica anticipa la visione futura51. Lo gnostico sale alla realtà celeste come già il misto o il filosofo platonico e al termine della vita potrà raggiungere la pienezza della contemplazione52.

Un altro Padre che ha applicato il linguaggio dei misteri anche alla vita spirituale del credente, è stato Gregorio di Nissa, contribuendo così, a sua volta, a fondare la riflessione teologica sulla mistica cristiana53.

I misteri sono le esperienze che il cristiano può godere quando raggiunge i gradi più elevati della vita spirituale; sono la contemplazione delle cose invisibili e i segreti rivelati nel terzo cielo, il luogo tipico della rivelazione personale.

L'“adyton” di cui si parla nei misteri greci viene identificato col luogo segreto dell'anima: “Rappresenta la realtà mistica del santuario dell'anima ove Dio abita e dove l'anima deve penetrare per trovarlo e vivere in familiarità con lui”54.

Un altro termine tipico dei misteri, la “teognosia”, in Gregorio sta a significare la conoscenza vitale di Dio, ossia quella che si ottiene mediante la purificazione del cuore, superiore al semplice livello concettuale.

Conclusione

L'esperienza cristiana è il farsi del Cristo stesso nella vita del discepolo; la nostra partecipazione all'evento pasquale della sua morte e risurrezione. Questo è l'aspetto oggettivo della fede, e a ciò pensano i Padri parlando di mistero.

Ai Padri interessava proporre questo fatto oggettivo e il fenomeno dei culti misterici fornì un quadro di riferimento per una sua trasposizione nella cultura dell'epoca. Attuando quest'azione di evangelizzazione, non hanno contaminato il messaggio evangelico con elementi estranei ma hanno, al contrario, enucleato e ed evidenziato il contenuto essenziale dell'esperienza cristiana.

Odo Casel così sintetizza la loro convinzione:

vedevano in Gesù non semplicemente l'uomo in quanto maestro e modello morale, ma soprattutto il Figlio di Dio divenuto Pneuma, che per noi diventa la luce, la verità e la vita55.

La conoscenza del Cristo poteva avvenire solo assoggettandosi ad un metodo particolare che esigeva, oltre all'apprendimento intellettuale, una conformazione sempre più corrispondente all'oggetto indagato, anzi alla Persona cercata56.

Nel cristianesimo il mistico è un credente cristiano: egli cioè resta radicalmente riferito e normato dall'economia storica di salvezza il cui avvenimento definitivo e risolutivo è rappresentato da Gesù di Nazaret. Come tutti i credenti, anch'egli resta riferito e si fa normare da questo singolarissimo avvenimento, mediante la parola ispirata (la Scrittura) e la celebrazione sacramentale, entro quella particolare comunità storica di fede che è la comunità della chiesa57.

Questa è la conclusione ultima che si deve trarre da questa sommaria esposizione dei fondamenti della mistica cristiana.

1 Così spiega O. Casel: “non è che il Signore abbia salvato il mondo e poi lo abbia abbandonato a se stesso, guidando al massimo la chiesa dal cielo attraverso i suoi rappresentanti che poi avrebbero distribuito la grazia per suo conto e sotto la sua autorità. No, il Kyrios è, come egli stesso ha predetto, sempre immediatamente presente ed efficace nella sua comunità, “essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore” (Eb 7, 25)”, Cf. Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto cristiano, Messagero, Padova 2001, p. 53.

2 Cf. A. B. Luter Jr., “Vangelo”, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo, Milano 1999, pp. 1596-1599.

3 Il libro di Isaia riporta l’incoraggiamento rivolto ad un “messaggero di liete notizie”, il quale acquista tale titolo perché è incaricato ad annunziare la fine dell'esilio e il ritorno del popolo a Gerusalemme: “Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio i suoi trofei lo precedono. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri (40,9-11)”. In un passo analogo, il profeta riferisce ancora di un messaggero ideale il quale, parlando a nome di Dio, reca un vangelo, un annuncio di pace e di salvezza alla città di Gerusalemme: il ritorno del popolo dall'esilio il quale intraprenderà la ricostruzione della città (52, 7-9).

4 Cf. P.T. O’Brien, “Mistero”, Dizionario di Paolo…, pp. 1032-1035. Cf. R. Penna, Il mysterion paolino: treiettoria e costituzione, Paideia, Brescia 1978.

5 L'apostolo Paolo attesta con forza il carattere di attualità di ciò che sta annunziando. Qualora trovi un riscontro di fede alla sua predicazione, ritiene di poter realizzare il vangelo, di attuare il mistero o di introdurre il regno. Accogliendone il messaggio, i suoi fedeli si sottopongono alla forza di un'energia trasformante. Ai romani Paolo dichiara che il vangelo è “un'energia operante di Dio per portare la salvezza a chiunque crede” (Rm 1,16). Infatti, l'apostolo non giunge mai con la sola parola ma con l'accompagnamento dello Spirito (I Ts 1, 5).

La parola del messaggero avvia l'avvenimento che annuncia. Parlando, Dio non espone dei desideri ma agisce; la sua parola è creativa. “Non cessiamo di ringraziare Dio perché, ricevendo dalla nostra voce la parola di Dio, l'avete accolta non come parola di uomini ma, come è realmente, parola di Dio: essa opera in voi che credete” (I Ts 2,13).

6 J. Murphy O'Connor, Paolo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, 53.

7 J. Murphy O'Connor, Paolo…, 53-56

8 A. E. MacGrath, Teologia della croce, in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999, 402.

9 J. Stott, La croce di Cristo, Edizioni GBU, Roma 2001, 323.

10 B. Maggioni, Lettera ai Romani…, 76.

11 B. Maggioni, Lettera ai Romani…, 77.

12 F. Manzi, Imitatori e modelli in 1 Tessalonicesi, in Lettere di Paolo…, 1091.

13 Ibidem, 1092.

14 Massimo il Confessore, Discorso ascetico, 10-13, Città Nuova Roma 1979, 30-32.

15 Massimo il Confessore, Capitoli vari, IV, 50, Filocalia, 2, Gribaudi, Torino 1983, p. 253.

16 P.T. O’Brien, “Mistero”, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo, Milano 1999, pp. 1032-1035.

R. Penna, Il mysterion paolino: treiettoria e costituzione, Paideia, Brescia 1978.

R. Arnou, Il desiderio di Dio nella filosofia di Plotino, Vita e Pensiero, Milano 1997.

L. Bouyer, Mysterion. Dal mistero alla mistica, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 1998.

O. Casel, Liturgia come mistero, Medusa, Milano 2002

O. Casel, Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto cristiano, Ed. Messaggero, Padova 2001

F -X. Durrwell, Eucaristia ed Evangelizzazione, Qiqajon, Magnano 2000

G. Bonaccorso, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia, Edizioni Messaggero, Padova 2003.

17 Cf. A. Levasti, “Clemente Alessandrino, iniziatore della Mistica cristiana”, Rivista di Ascetica e mistica, 12 (1967) 127-147.

18 Cf. L. Bouyer, Mysterion. Dal mistero alla mistica, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1998, pp. 155-218.

19 Alcune analogie rituali (le abluzioni, i banchetti), la somiglianza tra alcune convinzioni (i passaggi da morte a vita; le ascensioni al mondo celeste), l’uso dei racconti mitici di fronte alle narrazioni del testo sacro, rievocano alla mente le celebrazioni sacramentali cristiane, tanto da lasciar prospettare una contaminazione tra le due forme culturali. S’impongono, però, anche delle differenze nette: la Pasqua di Gesù non è un evento mitico ma un racconto storico, avvenuta una volta per sempre; il culto cristiano, libero da manifestazioni irrazionali e amorali, esige la trasformazione dell’esistenza sul piano etico; cf. J. Jeffers, Il mondo greco-romano all’epoca del Nuovo testamento, S. Paolo, Milano 2004, 127-133.

20 Cf. Odo Casel, Liturgia come mistero, Medusa, Milano 2002, pp. 33-63.

21 Cf. R. Arnou, Il desiderio di Dio nella filosofia di Plotino, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp. 212-215. Lo stabilire una connessione tra misteri e filosofia o tra misteri e sacramenti cristiani è, talora, considerata impropria, in considerazione anche dei comportamenti immorali e irrazionalistici riscontrabili in questi riti. Per ovviare a queste difficoltà, Arnou suggerisce di operare una distinzione tra mistica e misticismo. Entrambi si somigliano in quanto esprimono un'urgente ricerca di Dio, il desiderio di unione col divino, la persuasione che essa sia possibile. Ciò nonostante “La loro essenza differisce. Poiché il misticismo dipende dal sentimento e per questo è esposto a tutte le deformazioni, a tutti gli eccessi, esso merita, in larga misura, la severità che gli si manifesta. Al contrario, la mistica si presenta priva di questo sentimentalismo sospetto; è unione a Dio di uno spirito molto purificato ed è a riparo da sensazioni” (Op. cit, p. 209).

22 Cf. G. Maspero, Mistero, in Gregorio di Nissa. Dizionario, Città nuova, Roma 2007, 388-390.

23 O. Casel, La Liturgia come mistero…, pp. 85-86.

24 Gregorio di Nazianzo, Discorso 39, 2, Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Bompiani, Milano 2000, p. 901.

25 Gregorio di Nazianzo, Discorso 39, 20, ivi, p. 921.

26 Gregorio di Nazianzo, Discorso 38, 18, ivi, p. 899.

27 Gregorio di Nazianzo, Discorso 38, 16, ivi p. 897.

28 Leone Magno, Sermoni, 71, 1-2, 138 A, 434-436.

29 Agostino, Discorsi, 220, 1, NBA p. 303.

30 Massimo di Torino, Sermoni, 103, 1, CTP 168, Città Nuova, Roma 1991, p. 400.

31 Massimo di Torino, Sermoni, 102, 2, Op. cit., p. 398.

32 Massimo di Torino, Sermoni, 103, 1, Op. cit. p. 400.

33 Agostino, Omelie sulla prima lettera di Giovanni, 2, 2.

34 Massimo di Torino, Sermoni, 65, 1, Op. cit., p. 279.

35 Massimo di Torino, Sermoni, 101, 3, Op. cit, p. 397.

36 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorso 39, 14, Op. cit., p. 913.

37 Gregorio di Nazianzo, Discorso 45, 2, Op. cit., p. 1135.

38 Leone Magno, Sermoni, 48, 1, 138 A, 279-280.

39 Cirillo di Gerusalemme, Le Catechesi, XX (mist. II), 5, CTP 103, Città Nuova, Roma, 1993, p.446.

40 Gregorio di Nissa, La grande catechesi, XXXV, 3-6, CTP 34, Città Nuova, Roma 1982, pp. 125-127.

41 Stromati, I, 10, Op. cit., p. 111.

42 Questo modo di pensare viene sviluppato particolarmente nella lettera agli Ebrei, la quale insegna che: “... il mistero di Cristo, il sacrificio che egli compie, la salvezza che apporta, sono ad un tempo le cose celesti, eterne per natura e le cose future, avvenute alla fine dei secoli. [...] Di fatto la prima alleanza ne conteneva soltanto riproduzioni anticipate, ombre, repliche, di un modello che esisteva fin d'allora in cielo, pur non dovendo essere rivelato quaggiù che per mezzo di Cristo. [...] Ora le realtà ecclesiali non racchiudono più soltanto un'ombra dei beni futuri, ma un'immagine che ne contiene tutta la sostanza e permette di parteciparvi misteriosamente”, Cf. P. Grelot, “Figura”, Dizionario di Teologia biblica, Marietti, Casale Monferrato, 1971, c. 420.

43 Agostino, Commento alla prima lettera di Giovanni, 2, 1, NBA XXIV, Città Nuova, Roma 1968, p. 1666.

44 HIos, IX, 8.

45 HLev, VII, 5.

46 HIer, XVIII, 5.

47 Seguendo la prospettiva biblica, questo maestro, quando parla di misteri, pensa al contenuto cristologico prefigurativo nascosto negli episodi dell'Antica Alleanza oppure al significato più profondo presente nei gesti compiuti da Gesù, che può essere trasferito nella Chiesa. Le vicende, i riti, gli oggetti di culto del primo Testamento sono figure di questi misteri (cf. HLev, V, 6. HLev IX, 1.), ossia sono delle realizzazioni parziali, a modo di anticipazione, di ciò che avrebbero operato Cristo. Il progetto di Dio, avendo di mira la venuta del Cristo, già si esplicava in molteplici eventi e insegnamenti preparatori. Per questo tutta la Scrittura è piena di misteri, ossia di anticipazioni e richiami allusivi alla realtà del Signore, che si sarebbe rivelata solo in una tappa successiva. Stabilisce così il principio che demarca la distinzione netta con l'ebraismo.

48 Massimo il Confessore, Duecento capitoli, II, 14, Filocalia 2, Gribaudi, Torino 1983, p. 140.

49 Clemente Alessandrino, Stromati. Note di vera filosofia, V, 10, a cura di G; Pini, Edizioni Paoline, Milano 1985, pp. 594-596.

50ivi, VII, 16, p. 863.

51McGinn, Storia della mistica in occidente. Le origini, Marietti 1820, Genova 1997, p. 139.

52“ La gnosi conduce ad un fine che è senza limiti perfetto, insegnandoci in anticipo lo stile di vita secondo Dio, che sarà nostro quando saremo fra dei…” (Str. VII, 10 p. 41)

53 Cf. J. Danielou, Platonisme et théologie mystique, pp. 189-201.

54 Cf. J. Danielou, Platonisme et…, p. 194.

55 Cf. O. Casel, Fede, gnosi e mistero…, p. 32.

56 Cf. O. Casel, Fede, gnosi e mistero…, p. 26.

57 G. Moioli, “Mistica cristiana”, Nuovo dizionario di Spiritualità, Milano 1985, p. 986.

venerdì 11 novembre 2011

Liturgia delle ore. Breve introduzione



Il canto di lode, che risuona eternamente nelle sedi celesti, e che Gesù Cristo Sommo Sacerdote introdusse in questa terra di esilio, la Chiesa lo ha conservato con costanza e fedeltà nel corso di tanti secoli e lo ha arricchito di una mirabile varietà di forme. La Liturgia delle Ore, infatti, si è sviluppata a poco a poco in modo da divenire la preghiera della Chiesa locale. Essa si svolgeva in tempi e luoghi stabiliti, sotto la presidenza del sacerdote. Era come una indispensabile integrazione di ciò che costituisce la sintesi di tutto il culto divino, cioè del sacrificio eucaristico, la cui straordinaria ricchezza faceva rifluire ed estendeva ad ogni ora della vita umana. Rinnovata dunque e restaurata completamente la preghiera della santa Chiesa secondo la sua antichissima tradizione, e tenuto conto delle necessità del nostro tempo, è davvero auspicabile che essa pervada profondamente, ravvivi, guidi ed esprima tutta la preghiera cristiana e alimenti efficacemente la vita spirituale del popolo di Dio.


Per questo abbiamo piena fiducia che lo spirito di quella preghiera che si deve fare «senza interruzioni»3 e che nostro Signore Gesù Cristo ha ordinato alla sua Chiesa, riprenda nuova vita.Il libro della Liturgia delle Ore, distribuito nel tempo giusto, la sostiene, e la favorisce, mentre la stessa celebrazione, soprattutto quando una comunità si raduna a questo scopo, esprime la vera natura della Chiesa orante, e risplende come suo segno meraviglioso. La preghiera cristiana è anzitutto implorazione di tutta la famiglia umana, che Cristo associa a se stesso4, nel senso che ognuno partecipa a questa preghiera, che è propria dell'intero corpo. Questa perciò esprime la voce della diletta Sposa di Cristo, i desideri e i voti di tutto il popolo cristiano, le suppliche e le implorazioni per le necessità di tutti gli uomini. Ma questa preghiera riceve la sua unità dal cuore di Cristo. Il nostro Redentore ha voluto infatti «che quella vita che aveva iniziato con le sue preghiere e col suo sacrificio, durante la sua esistenza terrena non venisse interrotta per il volgere dei secoli nel suo Corpo mistico, che è la Chiesa»5. Avviene, perciò, che la preghiera della Chiesa è insieme «la preghiera che Cristo con il suo Corpo rivolge al Padre»6. Mentre dunque recitiamo l'Ufficio, dobbiamo riconoscere l'eco delle nostre voci in quelle di Cristo e quelle di Cristo in noi7.


Perché questa caratteristica della nostra preghiera risplenda più chiaramente, è indispensabile che «quella soave e viva conoscenza della Sacra Scrittura»8 che emana dalla Liturgia delle Ore, rifiorisca in tutti, in modo che la Sacra Scrittura diventi realmente la fonte principale di tutta la preghiera cristiana. Soprattutto la preghiera dei salmi, che senza interruzione accompagna e proclama l'azione di Dio nella storia della salvezza, deve essere compresa con rinnovato amore dal popolo di Dio. Perché sia raggiunto più facilmente questo scopo è necessario che il significato inteso dalla Chiesa quando canta i salmi nella liturgia, sia studiato più assiduamente dal clero e sia comunicato anche ai fedeli mediante opportuna catechesi. Questa più estesa lettura della Sacra Bibbia, non solo nella Messa ma anche nella nuova Liturgia delle Ore, farà sì che venga continuamente ricordata la storia della salvezza e annunziata con grande efficacia la sua continuazione nella vita degli uomini. Ma poiché la vita di Cristo nel suo Corpo mistico perfeziona ed eleva anche la vita propria o personale di ogni fedele, deve essere del tutto esclusa qualunque opposizione tra preghiera della Chiesa e preghiera privata; anzi, bisogna mettere in maggior rilievo e sviluppare più ampiamente i rapporti che esistono tra l'una e l'altra. L'orazione mentale deve attingere inesauribile alimento dalle letture, dai salmi e dalle altre parti della Liturgia delle Ore. La stessa recita dell'Ufficio deve adattarsi, per quanto è possibile, alle necessità di una preghiera viva e personale, poiché, come è previsto in Principi e Norme, si possono scegliere i tempi, i modi e le forme di celebrazione che meglio rispondono alle condizioni spirituali degli oranti. Che, se la preghiera dell'Ufficio divino diviene preghiera personale, più evidenti appariranno anche quei legami che uniscono tra di loro la Liturgia e tutta la vita cristiana. L'intera vita dei fedeli, infatti, attraverso le singole ore del giorno e della notte, è quasi una leitourgia, mediante la quale essi si dedicano in servizio di amore a Dio e agli uomini, aderendo all'azione di Cristo che con la sua dimora tra noi e con l'offerta di se stesso, ha santificato la vita di tutti gli uomini. Questa sublime verità del tutto inerente alla vita cristiana, la Liturgia delle Ore la esprime con evidenza e la conferma in maniera efficace. È per questa ragione che le preghiere delle Ore vengono proposte a tutti i fedeli, anche a coloro che non sono tenuti per legge a recitarle.


Quelli invece che hanno ricevuto dalla Chiesa il mandato di celebrare la Liturgia delle Ore, ne adempiano devotamente ogni giorno la recita completa, osservando, per quanto è possibile, la corrispondenza delle ore e, soprattutto, diano la dovuta importanza alle Lodi mattutine e ai Vespri. Inoltre, quelli che, insigniti dell'Ordine sacro, partecipano alla dignità sacerdotale del Cristo in forza di un particolare sigillo sacramentale, o coloro che, mediante i voti della professione religiosa si sono consacrati in maniera speciale al servizio di Dio e della Chiesa, non celebrino la Liturgia delle Ore solo per obbedienza a una legge, ma si sentano spinti dalla considerazione della sua intima importanza e dalla sua utilità pastorale e ascetica. È molto auspicabile che la preghiera pubblica della Chiesa sia riconosciuta come un naturale frutto del rinnovamento spirituale e una evidente necessità interiore di tutto il Corpo della Chiesa. Questa, infatti, a somiglianza del suo Capo, non può essere definita altrimenti che come Chiesa orante. Si elevi, dunque, con il sussidio del nuovo libro della Liturgia delle Ore, che di Nostra autorità apostolica ora stabiliamo, approviamo e promulghiamo, più solenne e più bella la lode di Dio nella Chiesa del nostro tempo, si associa quella che viene cantata nelle sedi celesti dai santi e dagli angeli, e accrescendosi incessantemente in perfezione nei giorni di questo terrestre esilio, muova con nuovo slancio incontro a quella lode perfetta che per tutta l'eternità è attribuita «a colui che siede sul trono, e all'Agnello»9.

Dato a Roma, presso San Pietro il 1 ° novembre,

solennità di Tutti i Santi, dell'anno 1970,

ottavo del Nostro Pontificato.

Paolo PP. VI

martedì 1 novembre 2011

prego leggendo la Bibbia

Dall’ascolto alla lettura

La pratica della lectio affonda le radici nella proclamazione liturgica della Parola. La Bibbia, prima di essere un testo da leggere, è una parola ricevuta e proclamata nel cuore del dramma liturgico. «Se vieni con frequenza in Chiesa, porgi l’orecchio alle letture divine, ricevi la spiegazione dei comandamenti celesti, lo spirito si rafforzerà per le parole e i pensieri divini. Nutrimento dello spirito sono la lettura divina, le preghiere incessanti, la predicazione della dottrina» [1]. In questi passi la lettura divina coincide con la proclamazione della parola in ambito liturgico.

Il problema dei partecipanti stava nel non dimenticare il messaggio ricevuto e da qui nasceva la necessità della meditazione. Il meditare era concepito come il semplice ricordarsi gli insegnamenti accolti, traducendoli nelle azioni della vita. «Auspichiamo che, dopo aver ascoltato queste cose, vi applichiate non solo ad ascoltare in chiesa le parole di Dio, ma anche a metterle in pratica nelle vostre case e a meditare giorno e notte la Legge del Signore; là c’è il Cristo e ovunque è presente a chi lo cerca» [2]. A questo proposito, compare la funzione del ruminare: «… affidiamo alla memoria ciò che ora s’insegna e si legge in Chiesa, affinché, uscendo dalla Chiesa, compiendo le opere di misericordia, offriamo un sacrificio… In modo che, ruminando come animali puri quello che ascoltate in Chiesa, richiamate alla memoria le parole dette e le confrontiate nel vostro cuore» [3]. Ricordare, ruminare hanno lo scopo pratico di orientare la vita in modo positivo.

L’ascolto, avviato durante la predicazione, si prolungava nel ricordo personale e soprattutto nella lettura individuale della Sacra Scrittura. Massimo di Torino esorta i fedeli a leggere i testi biblici anche in privato: «Tutto il giorno preghiamo o leggiamo assiduamente i testi sacri. Chi non sa leggere, rivolgendosi ad un uomo santo tragga alimento dalla sua conversazione» [4]. Cesario d’Arles, come Massimo, esige dai fedeli una lettura prolungata. «Con sollecitudine paterna vi prego e vi esorto e vi scongiuro, come già s'è detto, di impegnarvi o a leggere sempre personalmente la Scrittura divina, o ad ascoltare volentieri altri che la leggano, cosicché, meditando ininterrottamente nello scrigno del vostro cuore ciò che è giusto e santo, vi procuriate il cibo spirituale che gioverà per sempre alle vostre anime nell'eterna beatitudine» [5].

I fedeli, quindi, sono esortati a partecipare all’assemblea liturgica e a leggere la Bibbia, in continuità, presso le loro abitazioni. «Ascoltate volentieri le letture dagli scritti divini in chiesa, come vi siete abituati a fare, e rileggetele nelle vostre case» [6].

Lettura e meditazione

La spiritualità del primo millennio è un fiore che sboccia dalla lettura frequente del testo biblico. Come avveniva questa pratica? A noi potrà sembrare un po’ strano, ma si considerava sufficiente leggere; un leggere lento, attento e prolungato, tale da poter fissare nella memoria il contenuto da assimilare. Non si faceva alcuna teoria della lectio né si cercava di articolare una tecnica particolare. La distinzione netta tra i momenti di questo esercizio (lectio, meditatio, contemplatio…) comparirà in epoca successiva (cf. Guigo II), proprio nel tempo in cui si sarà già diradata nella pratica, quando era un esercizio del passato da riscoprire nel presente.

L’atto del meditare non era ben distinto dal leggere, in quanto per meditazione s’intendeva una lettura prolungata ed attenta, condotta in spirito di preghiera. Bisogna tener conto che un antico sentiva il termine meditazione in modo diverso da noi. A noi richiama la riflessione della mente, mentre per il mondo dell’epoca significava esercizio, applicazione costante ad un interesse dominante.

Vediamo ora alcune testimonianze. Giovanni Cassiano invita i monaci alla meditazione. In che cosa consiste? Nella lettura ripetuta di testi già letti. Ad esempio, egli chiama meditazione la recitazione continuata di un versetto di un salmo («Huius versiculi meditatio in tuo pectore indirupta volvatur») [7]. Girolamo approva l’apprendimento a memoria di brani interi. Elogia la discepola Paola di aver imposto questa regola alle sue monache: «A nessuna di quelle religiose era lecito non sapere i salmi, o non imparare ogni giorno qualche passo della Sacra Scrittura» [8]. Cassiodoro considerava la ripetizione non un puro atto mnemonico ma un’esperienza religiosa: «Supplicando il Signore, dal quale viene ogni grazia, leggete – vi prego – continuamente, ritornate diligentemente sul suo testo. L’assidua ed attenta meditazione è madre della conoscenza» [9]. Anche per lui la meditazione è applicazione al testo: leggere e rileggere. La palestra dello spirito s’identifica nella lettura quotidiana.

Era necessario soprattutto conservare quanto era stato letto o appreso. «La lettura ha bisogno dell’aiuto della memoria», aveva già sentenziato Isidoro [10]. Qualche secolo dopo, l’abate Smaradgo riprende e spiega il senso dell’esortazione isidoriana, e ci fa capire che cosa intendesse per meditazione: leggere lo stesso passo più volte. Immaginando un monaco tardior, meno brillante nell’apprendimento, egli ritiene che questi possa migliorare alquanto se si affina grazie ad una meditazione prolungata e se raccoglie frutto rimanendo costante nel leggere («Quod si fuerit naturaliter tardior, frequenti tamen meditatione acuitur, ac legendi assiduitate colligitur») [11]. La seconda parte della frase spiega il significato della prima: la lettura prolungata (legendi assiduitate) di un testo è chiamata meditazione (frequenti meditazione).

L’uno e l’altro chiedono che le parole della Scrittura non svaniscano dal cuore ma vi rimangano per orientare l’esistenza. L’uno e l’altro ritengono la meditazione un esercizio che è inscindibile dal leggere, o meglio da un leggere che si svolga con una certa intelligenza. Bisogna leggere e capire ciò che si legge. Questo è sufficiente per fare meditazione.

Poiché entrambi erano realistici, sanno che una lettura prolungata in modo eccessivo sfianca il lettore ed ottiene effetto contrari a quelli prefissati. Per questo, si credeva fosse cosa migliore, ogni tanto, chiudere il libro e ripensare a quanto era stato letto. Isidoro e Smaragdo pensano che il fare meditazione (il ripensare) sia di per sé un atto meno impegnativo del leggere. Suggeriscono la lettura silenziosa piuttosto di quella fatta a voce alta, a differenza da come erano soliti fare i loro monaci e tutti i lettori in genere. Tuttavia non và dimenticato che la lettura abituale, anche quella in privato, era fatta a voce e questo metodo rimarrà il preferito dai maestri spirituali. L’unica avvertenza consisterà nel raccomandare una lettura a voce più sommessa. Pronunciare le parole è utile per conservare l’attenzione. Soltanto gli stati di preghiera più elevata rendono superflua la pronuncia delle parole.

Ciò nonostante, ci si rende conto che, nonostante tanta buona volontà, la sola meditazione (cioè la lettura ripetuta) talora poteva non bastare. Nel corso della preghiera liturgica, il vescovo poteva arricchire la lettura fornendo dei suggerimenti teologici o morali. Nell’ambito privato, come si poteva rimediare all’incomprensione, madre di stanchezza? Accompagnare la lettura del testo biblico con quella di commentari qualificati: «Carissimi fratelli, saliamo con estrema certezza verso le divine Scritture, per mezzo delle lodevoli spiegazioni dei Padri, avvalendoci di una scala simile a quella della visione di Giacobbe, affinché spinti in alto dai loro sentimenti possiamo giungere per nostro vantaggio, alla contemplazione del Signore» [12]. Questa raccomandazione di Cassiodoro è rivolta a dei monaci, i quali con facilità potevano usufruire di libri. I laici erano effettivamente più svantaggiati poiché potevano contare soltanto sulla memoria richiamando la spiegazione ricevuta in altre circostanze.

Anche vescovi o presbiteri potevano trovarsi in difficoltà ed anche a loro, quindi, fu raccomandata la lettura dei commenti elaborati dai Padri che li avevano preceduti: «Se per caso per alcuni dei miei vescovi è faticoso predicare personalmente, perché non introducono quell'antica e santa consuetudine, ancora in uso in modo salutare nelle regioni orientali: e cioè che, per la salvezza delle anime, vengano lette in chiesa le omelie degli antichi Padri per mezzo del ministero dei santi presbiteri? Anche se mancassero presbiteri in grado di assolvere questo compito, non è una cosa inopportuna né indegna se viene affidato ai diaconi il compito di leggere pubblicamente in chiesa le omelie dei santi Padri» [13].

Ecco il nucleo originario e perenne della lectio: ripetere la lettura fino a pervenire alla memorizzazione di un testo; almeno per gli ecclesiastici, s’aggiungeva la lettura di un commentario patristico. I fedeli chiedevano spiegazioni ai loro pastori. Girolamo ricorda l’impegno generoso della discepola Fabiola e l’aiuto che egli le diede: «Con che ardore, con quale applicazione s’era buttata sulle divine Scritture! Passava incessantemente dai Profeti ai Vangeli e ai Salmi. Ti proponeva questioni e ne immagazzinava le soluzioni date nello scrigno del suo cuore» [14]. A loro volta i pastori cercavano un chiarimento presso gli autori più stimati.

Tutti i ministri della Chiesa erano invitati ad esercitarsi nella Bibbia. I presbiteri possono, dunque, essere degli autentici contemplativi purché adempiano le condizioni richieste per diventare tali. Giuliano Pomerio li considera destinati alla contemplazione, come del resto tutti i battezzati. «Liberati da tutti i legami delle attività secolari, se si dedicano instancabilmente alla Parola di Dio, diventano sapienti e e gustano le cose celesti; avvertono anche quaggiù un certo qual gusto della vita contemplativa («Illi qui se ab omnibus implicamentis negotiorum saecularium removentes, […] verbo Dei infatigabiliter vacant, sapientes veraciter fiunt, et coelestia sapiunt […] hic quidem velut gustum quemdam contemplativae vitae accipiunt») [15]. Diffondere la pratica della lectio non è una monasticizzazione del clero né una clericalizzazione del monaco.

Si domanda il Poirel: «Vogliamo forse dire che la pratica medievale della lectio divina non consisterebbe in nient'altro che nell'apprendimento a memoria dei testi ispirati, come se si avesse a che fare con un trattato qualsiasi di grammatica o di medicina? No di certo: tutti gli autori spirituali lo sottolineano, la lectio divina, per non essere un esercizio vano, deve essere preceduta dalla preghiera e dalla mortificazione dei sensi, per poi compiersi in obbedienza alla Parola e con un desiderio sincero di progredire nella conoscenza e nell'amore di Dio. Detto questo, rimane il fatto che la lectio divina ha inizio con uno sforzo mnemonico, anche se questo sforzo per ricordare quanto si legge è accompagnato fin dal primo momento da un mettere al lavoro la nostra intelligenza e la nostra affettività, per comprendere e amare quanto custodiamo nella memoria» [16].

Aiutarsi ad ascoltare

La lectio si svolge con maggior profitto in un ambito comunitario perché il singolo fedele può trovarsi disorientato davanti al testo, come accadde al ministro etiope che fu soccorso da Filippo (At 8, 30-31). In tutti i battezzati, però, dimora l’autorità di una parola autentica e sono organi della verità (1 Gv 2,27): «Quanti viviamo in Dio siamo organi della verità, che spesso parla a me per mezzo di un altro, spesso invece parla agli altri per mezzo mio; perciò deve risiedere in noi l’autorità della parola autentica…» [17].

Sentirsi legati gli uni agli altri, tuttavia, è talmente importante e gradito agli occhi di Dio che Egli concede la sua parola proprio a chi decide di uscire da se stesso per dedicarsi al prossimo. A parere di Gregorio Magno, Ezechiele riceve la visione della gloria divina, proprio perché accetta di uscire nella valle, cioè nella situazione difficoltosa. Quanto più, per amore del prossimo, ci s’impegna nella fatica della predicazione, tanto più largamente si riceve la grazia di saper insegnare. Il profeta «uscendo fuori viene condotto verso una visione alta. Nella misura in cui illumina la cecità che si trova nel cuore degli altri, la grazia lo innalza verso una comprensione più elevata» [18]. Parlare agli altri, però, presuppone che si condivida la vita di coloro ai quali si rivolge la predicazione. Non si parla dall’esterno o dall’alto. Si parla stando insieme. Ezechiele per poter essere accolto dal popolo, rimane in mezzo agli esiliati. «Il profeta si stabilì con il popolo prigioniero e rimase in mezzo a loro afflitto; così, condividendone la sorte grazie alla carità, riuscì ad avvicinarlo con la forza della parola» [19].

La tradizione conosce l’uso della collactio. I monaci si riunivano insieme per ascoltare la spiegazione data dall’abate e in questa circostanza era possibile rivolgere delle domande oppure aggiungere altre osservazioni. Isidoro di Siviglia, che raccomanda ai monaci tre collactiones alla settimana, afferma: «La lettura è senz’altro utile per istruire, ma, se si usa anche il colloquio, essa fornisce una maggiore possibilità di comprensione, poiché è meglio scambiarsi le opinioni che leggere» [20]; purché sia fatto salvo un principio complementare («Sa parlare con verità soltanto chi ha imparato prima a ben tacere. Custodire il silenzio significa alimentare la parola» [21]).

Smaragdo riprende le esortazioni già espresse da Isidoro e torna a raccomandare ai suoi monaci la collactio: «La lectio è utile per l’istruzione ma se s’accompagna la collactio, si ottiene un risultato migliore. È meglio confrontarsi insieme che leggere [da soli]. La collactio facilita l’apprendimento. L’alternarsi delle domande riduce la persistenza di qualche dubbio e la verità si fa strada grazie alle difficoltà avanzate. Nel confronto delle opinioni si dipana subito ciò che era rimasto ancora oscuro o dubbio» [22].

La lettura individuale tende all’unilateralità mentre una molteplicità di approcci consente di rispettare l’infinita sfaccettatura della verità: «Una pagina della Scrittura che sembra evidente, è spiegata e commentata correttamente da diverse persone in modo sempre diverso, senza però che il senso globale sia mai completamente esplorato da nessuno...» [23].

Nel cuore della lectio

Condizioni preventive

«Chi legge o ascolta di frequente la Scrittura divina parla con Dio» [24]. Finora siamo rimasti come all’esterno della pratica della lectio e, quindi, rimane ancora un aspetto più profondo da riscoprire: «Chi vuole stare sempre con Dio, deve pregare spesso e spesso anche leggere; quando preghiamo, siamo noi a parlare con Dio, quando invece leggiamo è Dio che parla con noi» [25].

La lectio, quale dialogo con Dio, è un atto religioso. Che cosa vuol dire questo? Significa che il protagonista è Dio stesso e che, nel leggere in spirito di conversione, noi sottostiamo alla sua azione che è impetuosa (Es 19,18) e dolce ( 1 Re 19,12) nello stesso tempo. Il nucleo decisivo della lectio consiste nell’agire dello Spirito in noi. Da questo punto di vista è un atto diverso dallo studio scientifico del testo. La lettura è efficace quando riproduce i medesimi effetti positivi propri della predicazione: sentirsi trafiggere il cuore. Mentre un ascoltatore avverte il suono della la voce di un messaggero, Dio agisce nel suo cuore, come fece con Lidia mentre ascoltava Paolo (At 16,14). Da questo punto di vista ogni lectio è esperienza mistica (considero tale un’azione che ci dà la possibilità di incontrare Dio e sottoporci alla sua azione). Gesù dice che nell’aderire a Lui siamo attratti da Dio Padre (Gv 6,44). Questo essere attratti ha un valore trascendente: non possiamo verificarne il movimento in sé ma solo l’effetto. In ogni azione di Dio, le orme di Dio rimangono invisibili, non vengono riconosciute (Sal 77,20).

Dal momento che Dio opera con discrezione, a livello più intimo di ogni movimento psicologico ed emotivo, i segni con i quali manifesta la sua presenza, rimanendo non avvertibili sul piano fenomenico, possono essere deprezzati o perfino derisi. I cittadini di Nazaret non riuscivano a scoprire in Gesù nient’altro che l’abilità del carpentiere, divenuto all’improvviso un inquietante saccente (Mc 6,2-4). Paolo, nel presentarsi a Corinto, scopre come la semplicità del suo parlare sia poca cosa rispetto alla dialettica della filosofia o all’incanto della retorica. La predicazione può essere svalutata come stoltezza (1 Cor 1,21). Lo stesso può avvenire per la lectio. Noi potremmo parafrasare in questo modo le parole di Paolo: piace a Dio salvare i credenti con la «stoltezza» della lectio. Gli uomini sono attratti sempre da metodi più complicati. Si vuole verificare, conoscere di più degli altri, sentirsi speciali, avere libero accesso al sacro. Chi intraprende l’itinerario della lectio deve piuttosto sentirsi uno dei poveri convocati dalla grazia, strappato dalla strada senza proprio merito (Lc 14,15-24).

La grazia agisce normalmente nell’ordinario e Cristo cresce in noi alla maniera del grano silenzioso, che matura senza che si sappia come ciò avvenga (Mc 4,27). Come abbiamo visto, la lectio sta nel lento e paziente depositare nel cuore le parole di Dio. Chi legge, come del resto chi prega, deve saper affrontare l’aridità. La donna Cananea grida dietro a Gesù, piuttosto a lungo, mentre Egli non le rivolgeva neppure una parola (Mt 15,23). Chi non sa sopportare l’aridità, non è un vero cercatore di Dio. L’esperienza insegna che talora la lettura può essere tediosa e così si parla di aridità nella lectio come nella preghiera. «Non ha gusto per me il salmo, non ho voglia di leggere, non provo piacere a pregare, non mi vengono, come di solito, pensieri nella meditazione» [26]. In tutti questi casi, nel fervore o nel tedio, il leggere ha significato perché Dio, con la nostra verifica o senza di essa, scrive qualcosa nel nostro animo. Il suo intento ultimo è quello di trascrivere in noi il suo Figlio, mediante lo Spirito (Gv 16,12-15). La Parola scava in noi nella modalità della goccia che scava la roccia: ora la caduta della singola goccia sembra una realtà insignificante.

La lettura è un atto religioso. Essa espone all’azione libera di Dio a nostro favore. Questa azione è trascendente e noi non la verifichiamo affatto. A volte possiamo sentirne una eco, quando si apre in noi una sensibilità spirituale. Ma questo non è tutto. Dio agisce sempre, al di là della percezione che noi possiamo avere di questa sua azione.

L’efficacia della lettura non dipende da noi, dalla sola preparazione culturale e da altre ingegnosità umane. La tradizione conosce esperienze in cui una conversione profonda è provocata da una semplice frase ascoltata nella liturgia. La persona che l’accoglieva spesso era poco più che alfabetizzata (o perfino analfabeta) e per nulla propensa ad una svolta nella vita. Inoltre Dio agisce con gradualità nel senso che una sua prima manifestazione nel cuore ne prepara una successiva, fino a quella decisiva. I veri testimoni della lectio non sono, alla fine, neppure i lettori assidui ma gli uomini santi che, nell’udire o nel ricordare anche una sola frase, si sentono «costretti» a cambiare vita, divenuti prigionieri dello Spirito.

La lettura esplica tutta la sua forza entro delle condizioni preventive e ineludibili. Ci sono, quindi, delle condizioni a cui ottemperare. «I recessi segreti della legge divina sono aperti agli umili e a quelli che entrano a Dio con le dovute disposizioni. Le parole divine, quanto alla lettura, sono accessibili ai presuntuosi, tuttavia, nel loro significato misterioso, rimangono chiuse ed occulte» [27]. Dobbiamo dare un po’ di tempo per richiamare alcune delle condizioni imprescindibili affinché il semplice leggere diventi esperienza di Dio.

Bisogna ricevere una vista spirituale [28]. La fede rappresenta la prima condizione.

In secondo luogo la comprensione del testo biblico doveva essere richiesta al Signore con insistenza. Nessun è capace da sé di rendere viva ed infuocata la parola percepita. La preghiera precede l’ascolto o la lettura perché la sua efficacia non dipende in primo luogo da noi.

Un’altra condizione indispensabile è la purificazione. A creare difficoltà nella comprensione non è in primo luogo l’oscurità del testo ma la nostra incapacità a porci in sintonia con il Signore, a motivo del nostro peccato. Origene, drammaticamente, avverte i suoi ascoltatori: noi siamo impuri anche nel cuore, negli occhi, negli orecchi. Tuttavia c’è speranza: «Chi mi purifica? Chi lava i miei piedi? Vieni, Gesù, ho sporchi i piedi, per me diventa servo, metti la tua acqua nel tuo catino, vieni, lava i miei piedi» [29].

La Bibbia si rivela nella sua profondità soltanto a chi ha realizzato un progresso nella carità. Gli uditori della Parola spesso vivono in una doppiezza d’animo che ha bisogno di una chiarificazione: «Taluni ascoltando, non ascoltano la parola, poiché tendono l’orecchio al discorso ispirato ma non sottraggono il cuore ai desideri mondani». Interrompono le azioni cattive «ma rivolgono nella mente, compiacendosene, le perversità delle azioni» [30]. La liberazione dal peccato non è facile ma richiede un’attenzione sincera e amorevole verso se stessi. La Scrittura rimane muta o pesante, finché anche il lettore sarà tale. Il cercatore, allora, deve essere libero dalle opere del peccato. Ho già osservato come il testo implichi e coinvolga il lettore. In altri termini la comprensione della Scrittura cresce in corrispondenza dei progressi interiori. «La Scrittura si rivela a coloro che amano veramente la santità», precisa Dionigi[31].

La comprensione della Parola è iniziazione al mistero di Dio e non semplice pratica devozionale atta a soddisfare il credente ancora lattante. «Bisogna che il cuore di chi contempla sia trasparente come uno specchio e come un’acqua limpidissima e quieta, affinché in esso e per esso, come in uno specchio attraverso uno specchio, veda il suo spirito a immagine dell’immagine di Dio. A questo scopo, o carissimi, il cuore che desidera contemplare Dio, deve essere mondo non solo da preoccupazioni nocive o superflue, ma anche da quelle necessarie, e va esercitato nella lettura, nella meditazione, nell’orazione. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» [32].

Esperienza mistica e aridità

I santi hanno colto nella Scrittura un valore particolare. Frequentando la parola divina, si sono sentiti infiammare ed illuminare. Riguardo a queste esperienze essi furono molto discreti e non possiamo andare oltre qualche allusione.

Chi coglie davvero una novità in Dio, sente in se stesso rianimarsi qualcosa di nuovo. Posso cogliere Dio soltanto nel mio rinnovamento. Una nuova luce sul testo, è una nuova luce in me. Il senso di un versetto s’illumina, quando m’illumino. Dal testo si passa al lettore: mistico è il contenuto del testo ma mistico sarà il lettore che vive in sintonia con esso. Il testo coinvolge il lettore. Nessun come Gregorio Magno ha sottolineato la circolarità che si crea tra il testo e il lettore. Commentando la visione del carro, nel libro di Ezechiele, il grande papa osserva quanto è scritto nel testo: «quando quegli animali si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro…» (Ez 1, 7). Nella lettura allegorica proposta da Gregorio, gli esseri viventi rappresentano i lettori e le ruote il senso del passo biblico meditato. Quando i primi riescono ad elevarsi anche le seconde li seguono in pari tempo. Il messaggio è molto limpido: «Nell’oracolo divino troverai tanto maggior profitto quanto maggiore è il progresso che tu avrai realizzato nei suoi confronti» [33]. Potremmo dire così: quando più il lettore, nel suo essere, è conforme al messaggio del testo, tanto più quest’ultimo acquista profondità e splendore. Al contrario chi accusa il testo biblico di grettezza, in realtà sta palesando e denunciando la propria, suo malgrado.

Il contenuto mistico del libro è scoperto da chi diventa ciò che legge. Mistico è chi, ascoltando o leggendo il testo biblico, si sente interpellato, si sente infiammato, si coglie come identico al protagonista della sacra pagina. Chi crede, è come Abramo. Chi lotta con Dio nella prova, è un nuovo Giacobbe. Chi respinge le seduzioni del peccato, agisce come Giuseppe. È possibile, come fece Israele, attraversare il mare quando si diventa superiori ad ogni passione perturbante. È possibile entrare in dialogo con Dio, quali suoi amici, come accadde a Mosè. «Se vedi abbondare in te la grazia dello Spirito Santo che illumina e fa splendere come un sole l’intimo del tuo cuore, si compie in te il prodigio del roveto, cosicché la tua anima brucia per l’unione alla luce inaccessibile e tuttavia non si consuma» [34].

Si potrebbe continuare dando numerosi esempi. Gran parte della produzione letteraria dei Padri consiste nello sforzo di rendere accessibile il testo biblico nell’attualità. Mistico non è chi prova particolari emozioni spirituali ma chi vive la storia della salvezza ottemperando al proprio ruolo. Il mistico non ha l’intento di coltivare un giardinetto interiore ma piuttosto quello di esercitare il compito assegnatogli da Dio nella storia della salvezza a beneficio della comunità. Ritrovare il Sé non ha un significato individualistico ma piuttosto comunitario.

La conoscenza della Scrittura apre ad una gnosi: è il termine usato spesso da Clemente (ma presente già nella lettera di Barnaba) per riferirsi a ciò che in seguito verrà chiamato mistica. In altre parole c’è un senso ulteriore da cogliere nel testo, oltre quello letterale e dentro di esso. Si tratta dello spirito evangelico che richiede profonda conversione e sintonia col Libro ma col Signore stesso. Clemente pensa ad una tradizione spirituale che si succede nella Chiesa, a fianco di quella dottrinale. Tutti i veri discepoli del Signore, in ogni tempo e in ogni luogo, nutrono lo stesso sentire. Partecipano ad una tradizione segreta, ossia condividono sentimenti ed opinioni che altri, stando all’esterno, possono disprezzare (compresi gli stessi semplici battezzati ancora in fase di maturazione).

Accostarsi con frequenza al testo significa attendersi ciò che gli uomini si aspettavano altrimenti dalle illuminazioni interiori, dalle comunicazioni oracolari, dalle visioni, dalla contemplazione filosofica ottenuta mediante lo sforzo della meditazione o del ragionamento. «Possiamo ben affermare che per Gregorio l'illuminazione concessagli a proposito del significato profondo della Scrittura rappresenta l'equivalente dei racconti delle visioni mistiche che diventeranno popolari oltre seicento anni dopo la sua morte. (Per Gregorio, come per i padri latini in generale, l'aggettivo mysticus si riferisce pressoché esclusivamente al significato nascosto e profondo delle Scritture). Gregorio riconosce che Dio parla per mezzo sia della sua parola rivelata sia dell'ispirazione personale, ma dichiara che per i santi padri una simile ispirazione veniva raggiunta grazie a una più profonda penetrazione della Scrittura» [35].

La tradizione spirituale del primo millennio conosce esperienze di contemplazione innescate dalla lettura stessa del testo. Lettura e meditazione erano accompagnati anche da fenomeni di carattere mistico, sperimentati nei momenti di preghiera. Cassiano parla di una preghiera ardente che divampa nell’intimo in seguito alla recitazione del Padre nostro. «Questa orazione del Pater, sebbene sembri contenere ogni pienezza di perfezione, appunto perché suggerita e fissata dall'autorità del Signore, tuttavia essa induce coloro che abitualmente la recitano, ad adottare la forma di preghiera più elevata, già da noi in precedenza richiamata: essa li induce progressivamente ad un'orazione ardente, nota a pochissimi e da pochissimi sperimentata, anzi, per meglio esprimermi, ineffabile...» [36].

Diadoco di Foticea conosce un’esperienza della parola divina, chiamata teologia oppure contemplazione, che rende l’orante simile agli angeli. La Parola di Dio entra in contatto con le parole dell’uomo che acquistano un’intensità inaspettata. Tale esperienza elevata della parola, quale «primo germoglio della grazia», concede dei doni che hanno un valore primario. Essa induce al distacco dei beni terreni ma soprattutto «illumina il nostro spirito con il fuoco trasformatore facendolo socio degli spiriti che servono il Signore» [37]. Egli consiglia ai monaci, che hanno difficoltà a pregare, di attendere a familiarizzarsi con la Scrittura perché «la contemplazione delle parole divine dilata e libera lo spirito». È importante, quindi, che essi attendono all’orazione, alla salmodia e alla lettura delle Sacre Scritture facendo in modo che ogni pensiero che sgorga dalla meditazione diventi «fonte di lacrime» [38].

Gregorio avverte che, qualora la predicazione sia efficace, provoca due forme di compunzione: pentimento e desiderio del cielo. In quest’ultimo caso riscontriamo un progresso di tipo mistico: «Quando i Testamenti di Dio cominciano a risuonare nell’orecchio del cuore, lo spirito di chi ascolta, compunto di amore, si commuove fino alle lacrime. È così che le parole della Sacra Scrittura diventano gustose nel cuore di chi legge; chi ama per lo più le legge di nascosto, quasi furtivamente e in silenzio» [39]. Isacco di Ninive attesta anch’egli una percezione di carattere mistico in relazione con la Parola: «Vi è un tempo in cui i versetti dei salmi sono dolci in bocca e si ripete innumerevoli volte un solo versetto della preghiera, senza che si sappia smettere; ma vi è un tempo in cui dalla preghiera si genera la contemplazione…» [40]. Lo stesso annuncia Smaragdo: «Spesso accade che qualcuno colga nelle parole della Sacra Scrittura una profondità mistica. Infiammato dalla grazia ad una contemplazione superna, rimane intento alle cose celesti. Quando l’animo del lettore viene pervaso dall’amore celeste, allora sperimenta la forza mirabile ed ineffabile della parola divina» [41].

A prescindere dall’adempimento delle condizioni dovute, nella pratica della lectio non mancarono comunque le difficoltà, anche all’interno dello stesso monachesimo.

Isacco della Stella lamenta che i suoi monaci durano fatica ad impegnarsi personalmente nella lettura dei testi e, anziché condurre a termine tale esercizio, come veniva loro consigliato, preferiscano ascoltare i commenti del loro preposto [42]. Neppure questa soluzione funzionava all’ottimo. Osservava, infatti, con un certo rammarico, come sia la lettura personale nel chiostro sia il commento da lui svolto, in capitolo, venissero talora vanificati dal disimpegno dei suoi fratelli: «Dove sono quelli che nel chiostro sonnecchiano sui loro libri, durante la lettura nell’oratorio russano, e di fronte a un discorso fatto a viva voce nel capitolo dormono? In tutti questi casi il Verbo di Dio parla ma non gli si fa caso» [43]. Già stanchi per il lavoro pesante a cui s’erano sottoposti, i monaci non erano in grado di seguire un’istruzione prolungata: «per oggi dobbiamo fermarci, essendo stanchi per il lavoro e per il sermone» [44]. Difficile comporre insieme un lavoro impegnativo e lo sforzo richiesto da lettura e meditazione.

Inoltre i testimoni della spiritualità conoscono l’esperienza dell’aridità della preghiera. C’è anche l’aridità della lectio. A volte è facile scoprirne la causa. Bernardo di Chiaravalle insegna ai suoi monaci che se uno di loro ha avuto un conflitto con un confratello e conserva rancore, perde ogni energia per affrontare una preghiera autentica [45]. La causa principale dell’aridità proviene dal mancato distacco dagli interessi e piaceri terreni. Altre volte questa avviene di sorpresa, senza una motivazione comprensibile ed ha una durata o una profondità tali da affliggere il fedele devoto. La tradizione degli spirituali, comunque, sarà unanime nel garantire che l’aridità sperimentata non rende inutile o inefficace la preghiera.

Un ultimo sguardo all’essenziale

L’epoca della lectio fu il primo millennio; in seguito, entrò gradualmente in crisi. Il Concilio, raccomandandola ai fedeli, ha tappato una falla quasi altrettanto millenaria. Questo non significa che nel frattempo, nella Chiesa, sia mancata l’esperienza della Parola ma che la spiritualità non è stata più centrata sulla Scrittura e che si è smarrita un’esperienza di accostamento ad essa di enorme ricchezza. A partire dal sec. XII, comincia a prevalere la meditazione. Questa non è più intesa come ruminazione del testo ma come un’elaborazione dell’intelletto, per scuotere la volontà e smuovere il sentimento. In modo graduale oggetto della meditazione non saranno più i contenuti della Scrittura ma argomenti di devozione. Moralismo e sentimentalismo saranno i frutti degeneri di questo stato di cose.

Ora è tempo di riguadagnare il tempo perduto. «Chi vuole giungere al mistero di Cristo, non vi entra se non attraverso la via segreta del testo evangelico» [46], insegnava san Massimo di Torino, Questa attestazione non deve essere considerata troppo ovvia. Il cristiano conosce Dio contemplando Gesù e conosce Gesù attraverso la testimonianza che Egli stesso da di sé nelle pagine del Nuovo Testamento, scritte dagli apostoli e consegnate alla Chiesa nella sua interezza. Senza le Scritture non conosciamo rettamente Gesù e senza Gesù, non conosciamo rettamente Dio.

Come ho cercato di mostrare, la lectio era, di per sé, un esercizio molto semplice. A livello personale non è mai stata semplicemente uno studio esegetico né, a livello comunitario, una mera conferenza biblica. «Il segreto della lectio divina? Esso è al tempo stesso facile ed esigente: imparare a memoria la lettera del testo sacro. E visto che si apprende bene solo quando si comprende e si ama quel che si legge, il sapore mistico e quello morale della Scrittura ci sono dati in sovrappiù. O, se si desidera, è cercando il senso mistico e morale che anche la lettera finisce per depositarsi nel nostro spirito. Costruiamoci una memoria cristiana, una memoria biblica. Allora, ovunque saremo e qualunque cosa faremo, potremo pregare e crescere nella conoscenza e nell'amore di Dio»[47].

Il lettore o il meditante leggeva, cercando di capire ciò che il testo suggerisce. Spontaneamente usciva in una preghiera di lode o di supplica. Talora accadeva che in questo esercizio venisse rapito dalla compunzione o dall’amore. La lectio era percepita come un atto religioso unitario, sia pure articolato in vari passaggi. Ad arricchirla era la competenza biblica del lettore: ancora oggi sorprende la facilità con cui un testo ne richiamava un altro o la facilità con cui lo si applicava all’esistenza cristiana. Lo scopo della lettura era ed è di carattere profetico: ci s’immerge nella preghiera biblica per far riapparire in terra l’uomo di Dio, colui che vive il volere di Dio nell’oggi e ripresenta la figura mirabile di Cristo per la sua epoca.

Chi pratica la lectio in modo corretto? Il lettore autentico è una persona presa da compunzione. Sa di essere un peccatore e chiede a Dio che cosa debba fare. Non legge soltanto per imparare né, in prima istanza, per correggere o istruire gli altri. Non legge soltanto quando deve esercitare la predicazione o fare qualcosa di analogo.

L’humus naturale della lectio è la compunzione. Questo lettore autentico, allora, amerà spontaneamente il silenzio, e, di conseguenza, la solitudine. Resterà fedele al suo intento, senza pretendere che Dio si riveli nell’immediato. Alternerà alla lettura, la preghiera salmodica e quest’ultima con la lettura di autori spirituali. L’ascetica cristiana và fondata sulla Bibbia ma l’approccio alla Scrittura è favorito quando ad interpretarla sono persone dello Spirito che l’hanno vissuta. Ognuno di noi è un maestro nello sfuggire all’esigenze della Parola, in modo inconsapevole. È facile proiettare sul testo la nostra incongruenza e saccenteria.

Poiché la parola penetri e si deposi nel cuore, i Padri hanno preferito una lettura lenta e ripetuta. La lectio è più vicina alla memorizzazione o alla ruminazione di un testo piuttosto che ad un suo esame. Il praticante della lettura santa impara la Bibbia per una simpatia connaturale con essa e per una lunga frequentazione, vissuta nella progressiva purificazione del cuore. Il lettore autentico ha un occhio sulla sacra pagina ed uno sul suo cuore. Osserviamo il suggerimento che Giuliano Pomerio dava a chi voleva convertirsi in verità: «Si dedichi alla meditazione della Scrittura, vi si immerga fino a dimenticare se stesso, riflettendosi in essa come in uno specchio sfolgorante. Se scoprirà in sé qualcosa di malvagio, lo corregga; quel che c'è di buono, lo conservi; ciò che è brutto, lo migliori; ciò che è bello, lo rifinisca; quanto v'è di sano, lo preservi; quello che è malato, lo rinvigorisca con l'assiduità della lettura sacra» [48].

Il lettore autentico, mentre si apre all’ispirazione divina, coltiva un rapporto corretto e generoso coi fratelli. Desidera il lauto banchetto della casa di Dio ma crede di meritare soltanto le briciole che cadono dalla mensa e vengono raccolte dai cagnolini. La lettura sacra è attesa di Dio e della sua grazia. Già pervaso, in modo invisibile, della luce di Dio, il lettore viaggia verso la Luce, in un percorso all’infinito, che continuerà nella Gerusalemme celeste.


[1] Origene, Omelie sul Levitico IX, 7, CTP 221-222.

[2] Origene, Omelie sul Levitico IX, 5, CTP 216-217.

[3] Origene, Omelie sul Levitico, IV, 9, CTP 95.

[4] Massimo di Torino, Sermoni, 36, 4, CTP 159.

[5] Cesario d’Arles, Sermoni 8, 5.

[6] Cesario d’Arles, Sermoni 198, 5.

[7] G. Cassiano, Conferenze, X, PL 49 836 B.

[8] Girolamo, Epistolario, CVIII, 20.

[9] Cassiodoro, Istituzioni, Prefazione 6.

[10] Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, XIV, 7.

[11] Smaragdo, Diadema monachorum, PL CII, XL, 636 B.

[12] Cassiodoro, Istituzioni, Prefazione 2.

[13] Cesario d’Arles, Sermoni, 1, 15.

[14] Girolamo, Epistolario, LXXVII, 7.

[15] Ibidem.

[16] D. Poirel, «Bernardo di Clairvaux» in La lectio divina nella vita religiosa…, 265.

[17] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 9, 12, CTP 185.

[18] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 12, 10, CTP 267-268.

[19] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 11, 2, CTP 240.

[20] Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, XIV, 1.

[21] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 11, 3, CTP 241.

[22] Smaragdo, Diadema monachorum, PL CII, XL, 636 B.

[23] Isacco della Stella, Semoni, 16, 1.

[24] Cesario d’Arles, Sermoni 8, 3.

[25] Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, VIII, 2.

[26] Bernardo, SCC, LIV, 8

[27] Isidoro di Siviglia, Sentenze, III, XI, 3.

[28] C. Mondésert, Clément d’Alexandrie…, 104-105.

[29] Origene, Omelie su Isaia, V, 2, CTP 113.

[30] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, 12, 19, CTP 276.

[31] Ep 9,1, 1105C.

[32] Isacco della Stella, Sermoni, 25, 13, ed. cit. 195.

[33] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele/1, I, 8, CTP 17, 133.

[34] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, II, 288, pp. 326-327.

[35] Bernard McGinn, Storia della mistica cristiana in occidente. Lo sviluppo (VI-XII secolo): Capitolo 2. Gregorio Magno: un contemplativo in azione, Marietti 1820, 56-72.

[36] G. Cassiano, Conferenze, I, IX, 25.

[37] Diadoco di Foticea, Centurie gnostiche, 67.

[38] Diadoco di Foticea, Centurie gnostiche, 68.

[39] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, X, 39, CTP 232.

[40] Isacco di Ninive, Discorsi ascetici/1, XXII, p. 204-205.

[41] Smaragdo di San Michele, Diadema monachorum, PL CII, 598 B.

[42] Isacco della Stella, Sermoni, 18, 3.

[43] Isacco della Stella, Sermoni, 14, 6.

[44] Isacco della Stella, Sermoni, 19, 24.

[45] Bernardo, SCC, XXIX, 4.

[46] Massimo di Torino, Sermoni, 39, 1, CTP 169.

[47] D. Poirel, «Bernardo di Clairvaux» in La lectio divina nella vita religiosa…, 267.

[48] G. Pomerio, La vita contemplativa, I, VIII, p. 70.