venerdì 28 maggio 2010

Salmi (Raccolte)


Nel salterio i singoli salmi non siano stati riposti a caso, uno dopo l’altro. Essi sono divisi in cinque libri (sono forse un pentateuco di lode?) ma ogni libro, a sua volta, è suddiviso in altre sezioni. T. Lorenzin ha scritto un commento al salterio in cui propone la suddivisioni più accreditate. Alcune sezioni sono tradizionali e fortemente caratterizzate (Salmi di conversione; Salmi della regalità; Canti di Pasqua; Canti per le salite; Lode conclusiva), altre sono più congetturali. Offrono comunque almeno il vantaggio di stimolare a cercare delle assonanze tematiche tra composizioni attigue, evitando di isolare un salmo dal suo contesto.

Libro primo:

Introduzione: il giusto e il Re-Messia (1 e 2).
Il Re messia (2) rivive l’esperienza propria del giusto (1). Sperimenta come il Signore vegli sul suo cammino, mentre la via dei malvagi che si oppongono a lui, vada in rovina.

Prima raccolta del povero (3-14)

In realtà il termine povero compare di frequente soltanto nel salmo 9/10 (9/10,13.17.23.30.38-39; 11,5; 13,6). L’orante tuttavia vive la povertà e si esprime conforme allo spirito religioso del povero. È una persona che, perseguitata da altri, confida in Dio e invoca protezione e giustizia.
Il salmo 8 funge da divisorio in questa sezione, suddividendola in due parti. Nella prima parte (3-7), prevale la supplica individuale. Angosciato per le trame dei nemici, il salmista conferma la sua fiducia in Dio che si rivela come l’unico valido aiuto. Nella seconda parte (9-13) la preghiera è rivolta in modo prevalente a favore di una collettività. I poveri sono un gruppo religioso angariato da violenti che sono anche sprezzanti verso Dio. Nella società sembra prevalere la corruzione e il giusto avverte la sua situazione come estremamente difficile. La sua fedeltà a Dio è il risultato di una deliberazione tenace.
Il salmo centrale (8) presenta la povertà come iscritta nella natura dell’uomo. L’uomo è di per sé una nullità ma, amato da Dio, acquista una dignità regale. Di nuovo è ripetuto lo stesso messaggio: soltanto la fiducia in Dio rende possibile il superamento della nostra misera situazione.

L’esperienza del giusto (15-24)

Ho già esposto il contenuto di questa composizione. Il salmo centrale è il 18, dove il giusto è simboleggiato dal sole, radioso e forte. L’uomo diventa solido e raggiante, solare, quando vive la comunione con Dio conservando la fedeltà alla sua Legge. I salmi della prima parte (15-18) corrispondono a quelli della seconda (20-24) in modo quasi parallelo (15-24; 16-23; 17-22; 18-20.21). La corrispondenza tra i due gruppi può essere tracciata così: Il giusto vive un rapporto solidale con il prossimo, e soltanto in questa relazione benevola acquista mani innocenti e cuore puro (15 e 24). Vive poi una comunione gioiosa con Dio (16 e 23), ma è toccato dalla prova (17-22). Perseverando nella fede può vincere la situazione negativa e recuperare la sua condizione felice (18 e 20-21).

L’esperienza della comunità (25-34)

Anche di questa raccolta ho già fatto cenno. Il salmo centrale è il 29: il raduno del popolo nel tempio che riceve pace e salvezza nelle situazioni tempestose della sua esistenza. Nella prima parte, in cui è espresso il desiderio di recarsi al tempio, prevale la supplica e nella seconda, che presuppone come adempiuta la visita al santuario (descritta nel salmo 29), s’innalza il ringraziamento. I salmi della prima parte rinviano a quelli della seconda in modo parallelo: desiderio di redenzione (25) e ringraziamento per la redenzione ottenuta (34); desiderio di innocenza (26) e ringraziamento per il perdono (32); desiderio di protezione nella difficoltà (27) e ringraziamento per la liberazione (31); desiderio di liberazione dalla morte (28) e lode per la risurrezione sperimentata (30).
Il salmo 33, l’unico fuori dello schema (non ha nessun sottotitolo), presenta la caratteristica essenziale del pellegrino: è colui che spera nell’amore di Dio il quale, a sua volta, ama verificare la presenza di questo sentimento. La speranza si manifesta come rinuncia a procurarsi la salvezza da soli: «Un’illusione è il cavallo per la vittoria, e neppure un grande esercito può dare salvezza. Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore» (18-20).

Seconda raccolta del povero (35-41)

Riprende i temi della prima raccolta con approfondimenti. Il povero del salmo 35 e 41, si era comportato in modo solidale con i suoi attuali nemici e così prefigura lo stile di Gesù (35,14; 41,10). Il salmo 36 contrappone il malvagio oppressore, dominato dal peccato (2-5) a Dio che, al contrario, è dominato da amore smisurato (6-7). Nei salmi 38, 39, 40 e 41, il povero che sta supplicando si considera anche peccatore. Il peccato aggrava la nostra condizione di miseria e non ci esclude dalla misericordia divina. È particolarmente significativo il salmo 40: l’orante porta al tempio un rotolo in cui ha scritto il suo vivo desiderio di conformarsi al volere di Dio; egli ritiene che questa intenzione valga di più dell’offerta di sacrifici. Così egli prefigura il sentimento di Gesù che ci ha santificati grazie a questa sua volontà di obbedire al Padre (Eb 10,10). In questa raccolta il povero sta acquistando la fisionomia di Gesù che porta su di sé il cumulo dei nostri peccati.

Libro secondo:

L’amore fedele di Dio (42-49)

Il primo movimento è un canto di nostalgia rivolto a Dio che rimane come assente alle implorazioni (42-43). Lo stesso sentimento è espresso dalla comunità che, pur rimasta fedele a lui, si sente dimenticata da Dio (44). Dopo questo esordio doloroso, i salmi successivi sono una risposta all’interrogativo angoscioso che percorre l’orante ma anche tutta la comunità. Il Signore è lo sposo amoroso che non dimentica la sua amata, ossia il popolo d’Israele; per ricordare questo dato di fede viene descritta una festa nuziale (45). Dopo questa rassicurazione cambia il tono delle preghiere che passa dalla tristezza alla fiducia serena. Gerusalemme non deve temere: Dio è in mezzo ad essa e non potrà vacillare. Nessun rivolgimento naturale o storico potrà annientarla (46). I popoli che ora osteggiano Israele si raduneranno insieme con i principi d’Israele per celebrare con gioia l’unica regalità del Signore (47). La presenza di Dio nella città santa è fonte di gioia e di sicurezza per tutti (48). L’ultimo salmo (49) è una meditazione sapienziale in cui si invita a leggere i fatti dell’esistenza con la fede. Non ha legami diretti con i precedenti ma richiama quello iniziale (42-43): l’anima abbandonata è riscattata da Dio (50,16).

La conversione (50-51)

La breve raccolta presenta due salmi che hanno per oggetto la conversione.

La convivenza impossibile (52-60)

I primi quattro salmi (52-55, sottotitolati maskil) presentano l’implorazione di un individuo, oggetto di violenza gratuita, che rappresenta tutta la nazione. L’argomento è riassunto nel versetto: Stranieri contro di me sono insorti e prepotenti insidiano la mia vita; non pongono Dio davanti ai loro occhi. Ecco, Dio è il mio aiuto, il Signore sostiene la mia vita. Ricada il male sui miei nemici, nella tua fedeltà annientali (5-7). Compare, nella richiesta di protezione, la preghiera contro i nemici, ormai irrecuperabili e insopportabili.
Il secondo gruppo di cinque salmi (56-60, sottotitolati miktam) suggeriscono la preghiera di chi vive in una situazione impossibile. In mezzo ai leoni devo coricarmi (57,5). Sarebbe opportuno fuggire: Dentro di me si stringe il mio cuore, piombano su di me terrori di morte. Mi invadono timore e tremore e mi ricopre lo sgomento. Dico: «Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo? Ecco, errando, fuggirei lontano, abiterei nel deserto» (5-8). L’orante innocente ha sperimentato il tradimento da parte d’un amico (56,13-15). Si fanno più insistenti le richieste di giustizia ma soprattutto i sentimenti di abbandono e confidenza in Dio: Affida al Signore il tuo peso, ed egli ti sosterrà (55,23); Nell’ora della paura, io in te confido (56,4); I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro (56,9);Pietà di me, pietà di me, o Dio, in te si rifugia l’anima mia; all’ombra delle tue ali mi rifugio finché l’insidia sia passata (57,2).

Speranza (61-64)

Troviamo quattro salmi in cui emerge soprattutto un sentimento di speranza. L’orante manifesta un sentimento profondi di comunione con Dio: Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza. Confida in lui o popolo in ogni tempo; davanti a lui aprite il vostro cuore (62, 6.9); A te si stringe l’anima mia e la forza della tua destra mi sostiene (63,9); Il giusto gioirà nel Signore e riporrà in lui la sua speranza: si glorieranno tutti i retti di cuore (64,11). Contro il complotto dei malvagi, non si deve contare sulla violenza, sulla ricchezza o la rapina. Dio giudicherà ognuno secondo le sue opere.

La lode (65-68)

I quattro salmi presentano occasioni diverse di lode e ringraziamento a Dio.

In attesa di redenzione (69-72)

Ho già presentato la raccolta. Il salmista espone un bisogno urgente di salvezza (68-70) e a questa richiesta risponde il salmo 71 che celebra la sovranità del Re –Messia.

Libro terzo

Appello a Dio giudice (73-83)

La situazione della comunità credente è assai dolorosa: il tempio è stato incendiato (74,7) e Gerusalemme ridotta in macerie (79,1); la vigna, immagine della nazione, è come un podere rimasto priva di cinta di riparo ed esposto ad ogni abuso (80,13-14). Il fedele, preso dall’angoscia, non comprende il senso degli avvenimenti ed invidia i prepotenti (73,2-3) oppure dubita che Dio continui ad amare Israele. Non avrà deciso di rompere l’alleanza stabilita? (77, 8-11).
Altri salmisti, invece di reclamare con Dio, contestano il popolo. Israele ha una lunga storia di ribellione, di disobbedienza e di sfiducia in Dio, mentre il Signore ha usato nei suoi confronti una pazienza tenace (77). Se il popolo accogliesse la parola di Dio, Egli potrebbe donarsi senza alcuna riserva, poiché sarebbe sua intenzione nutrirli con fiore di frumento e saziarli con miele dalla roccia (81,17).
Nella raccolta i salmisti innalzano suppliche ardenti al Signore perché venga in soccorso. Evidentemente non pensano che tutto sia finito. Essi si considerano dei poveri oppressi che fanno appello al giudice (74,20-21; 82,2-3). Il mondo non è in mano dei violenti ma Dio è il giudice (75,8), ed è l’unico che può togliere il respiro ai potenti (76,13).

La caduta del regno di Davide (84-89)

In questa sezione, il salmo più significativo è l’ultimo (89). È una accorata lamentazione sulla caduta della dinastia di Davide. Tutta la nazione si sente perduta, coinvolta nella triste sorte del re. S’insinuano anche dubbi di fede: se Dio è fedele (la qualità della fedeltà è fortemente risaltata), come mai non sostiene più la casa di Davide a cui era stata promessa una durata eterna? La tristezza che pervade il salmo è come anticipata in quello precedente (88) dove una persona espone a Dio la sua sofferenza acuta e prolungata. È il salmo più pervaso di tristezza ma anche da enorme fiducia: Io sono sazio di sventure, la mia vita è sull’orlo degli inferi. Ma io, Signore, a te grido aiuto e al mattino viene incontro a te la mia preghiera. Perché, Signore, mi respingi? Perché mi nascondi il tuo volto? (88,3.14-15).
Il credente può affrontare questi fatti dolorosi perché prima ha avuto un’esperienza di Dio molto felice. In un periodo di crisi, in un viaggio al tempio (soltanto immaginato?) il salmista aveva supplicato per re (84,10). Alla richiesta insistente affinché Dio ristabilisca tempi felici (paradisiaci) (85) e liberi dall’avversione di uomini ostili (alla fede), il Signore aveva risposto con una promessa di grande respiro: tutti i popoli sarebbero confluiti a Gerusalemme e si sarebbero gloriati di appartenere a quella città. Per ora questa speranza è contraddetta. Cala la tenebra. Quali possibilità si aprono per il credente? La risposta viene nelle raccolte successive del libro quarto: Dio resta sempre il custode provvidente di tutto il popolo; Egli ora funge da re ed è il vero Sovrano. Sarà possibile un giorno ricostruire la nazione.

Libro quarto

Dio provvidente (90-94)

Il quarto libro (90-106) affronta la crisi della monarchia e l’esperienza dolorosa dell’esilio. I primi cinque salmi (90-94) ripropongono la fede in Dio nell’amarezza della catastrofe nazionale: Beato l’uomo che tu castighi, Signore, e a cui insegni la tua legge, per dargli riposo nei giorni di sventura; poiché il Signore non respinge il suo popolo e non abbandona la sua eredità, il giudizio ritornerà a essere giusto e lo seguiranno tutti i retti di cuore (94,12-15). Israele ricorre a Mosé (posto nel sottotitolo come autore del salmo 90), il grande intercessore dopo la rottura dell’alleanza in seguito alla costruzione del vitello d’oro: anche adesso il popolo si sente colpevole ma spera nella misericordia di Dio (91,14-15). Intanto il credente deve acquisire la forza di un bufalo, consolidandosi nella speranza (92,11). L’opera di Dio è potente e può dominare il fragore dei flutti del mare, ossia qualsiasi tempesta della storia (93,4).

La regalità divina (95-100)

La monarchia non ha più alcuna funzione. In questa circostanza, Israele sperimenta che il vero sovrano è Dio.

Il rinnovamento della nazione (101-106)

Ormai è possibile il rimpatrio. La nazione e la città di Gerusalemme stanno per essere ricostruite (102). Il nuovo inizio si fonda sulla disponibilità del popolo a restare fedele a Dio (100) ma soprattutto sulla fedeltà misericordiosa del Signore (103 e 106). Il rinnovamento sarà come una nuova creazione (104) e un nuovo esodo (105).

Libro quinto

La comunità degli uomini retti (107-112)

I sei salmi interessano la comunità di fede nel suo cammino ordinario che si basa sulla convinzione di essere guidata e soccorsa da Dio nelle situazioni più disparate (107,13). Essa sa che può continuare ad abitare nella terra donata da Dio ma sempre a rischio d’essere occupata da altri; la promessa di Dio si rinnova al presente. Il salmo 109 è una supplica dai toni accesi ed accorati contro ogni possibile oppressore. La comunità sarà soccorsa dal futuro Messia che trionferà in modo definitivo su tutto ciò che la minaccia (110). Nella speranza del tempo messianico, i fedeli perseverano nella lode e nella meditazione dei prodigi divini (111), mentre cercano di vivere nella rettitudine e nella solidarietà (112), secondo il volere divino.

La celebrazione della Pasqua (113-118)

Sono i sei salmi dell’Hallel egiziano, chiamati così perché celebrano l’uscita dall’Egitto, inaugurata dalla Pasqua dell’Agnello. Compare la predilezione di Dio per i miseri e le pietre scartate. Forte è il senso del ringraziamento e della lode al Dio soccorritore.

La celebrazione della Legge (119)

Il salmo suggerisce i sentimenti più adeguati nei confronti del dono della Legge.

Canti per le salite (120-135)

La raccolta raccoglie i salmi che erano cantati nel pellegrinaggio al santuario.
La raccolta dei salmi di pellegrinaggio può essere suddivisa in tre parti; la prima comprende i salmi 120-124.
Si può pensare ad un tragitto ideale concepito in questo modo: il salmista, che abita fra gente malvagia, esprime la sua profonda amarezza per essere costretto a questa convivenza e chiede di poter uscire dalla sua situazione (120). Allora rivolge lo sguardo e il desiderio al monte del tempio e muove i passi verso di là, scortato dal Signore stesso (121). Giunto alla meta sperata, esprime la gioia di trovarsi di fronte alla città tanto cara e ne descrive la bellezza (122). Nel canto successivo condensa la richiesta che ha motivato il pellegrinaggio: ottenere soccorso nella vita impossibile che sta conducendo (123). Persuaso che la sua preghiera venga esaudita, innalza un ringraziamento per il soccorso ottenuto: «Se il Signore non fosse stato con noi…» (124).
La breve raccolta traccia un percorso di vita che possiamo fare con il nostro cuore più che con i nostri passi. Incontrando il Signore, siamo aiutati ad affrontare una vita penosa e rapporti umani difficili. La Chiesa prega con questi salmi per saper affrontare le difficoltà senza lasciarci schiacciare da esse: Troppo tempo ho abitato con chi detesta la pace. «Talvolta l'eccesso stesso delle nostre tribolazioni fa sì che noi siamo esauditi» (G. Cassiano).

La seconda raccolta, composta d’altri cinque salmi, ci suggerisce di consolidare la nostra relazione con il Signore nelle vicende della nostra esistenza, durante la quale sperimentiamo la presenza della grazia nel persistere delle difficoltà (125-129).
Il salmista riafferma l'identità della comunità credente che deve essere una cosa sola con il monte di Sion: chi confida nel Signore è come il monte Sion. L'attuale situazione di prevaricazione degli oppressori non potrà durare, ma i fedeli che tradiscono meritano di ottenere la sorte negativa degli empi (125). La situazione può cambiare all'improvviso, com’è accaduto nell'imprevista liberazione dall'esilio. Se al momento i fedeli seminano pervasi da tristezza, certamente un giorno potranno raccogliere nella gioia (126). Sarebbe inutile progettare ed affaticarsi molto senza tener conto dell'aiuto e del progetto del Signore su noi (127). La sua grazia accompagna con discrezione la nostra vita, donando ad esempio, la serenità di una famiglia prospera ed unita (128). Un giorno la comunità dei fedeli vedrà ripetersi quanto ha sperimentato fino al presente: nonostante le continue persecuzioni, Israele non è distrutto e il disegno degli iniqui, invece, fallisce (129).
La raccolta, quindi, propone un altro tipo di pellegrinaggio ideale che possiamo percorrere in altre circostanze della nostra esistenza. È importante soprattutto conservare la fiducia in Dio. Il credente che conserva la fiducia è come un monte solido. «Il non allontanarsi dal Signore, ma rimanere stabile nell'amore di lui e del prossimo fra gli scandali e le vicissitudini del mondo è cosa così sublime che coloro che rimangono saldi in questa fermezza, ottengono di essere l'immagine del monte Sion. Essi infatti con la fede e la speranza abitano nella Gerusalemme celeste ed eterna» (Prospero d'Aquitania).

Il terzo gruppo di salmi alimenta la speranza che Dio porterà a compimento la sua promessa di redenzione definitiva (130-134)
Il salmista, parlando a nome di tutto il popolo, conta sul perdono di Dio e sul suo intervento di grazia (130): Dal profondo a te grido (1); … redimerà Israele da tutte le sue colpe (8). «Grida dal profondo, cioè dall'intimo del cuore. Grida non con la voce ma con il cuore, non con lo strepito ma con la fede che Dio sa volentieri ascoltare. Pietro, gridando dal profondo, ottenne dal Signore di camminare sano e salvo sulle onde del mare» (Zeno di Verona). «Cristo ha dato la speranza anche a chi giace nell'ultima profondità. Il peccatore, oppresso da qualsiasi peso, ha nel linguaggio di questo salmo il modello di preghiera da seguire per non disperare della sua liberazione» (Prospero d'Aquitania).
La comunità, consapevole della sua povertà, non ha pretese smodate: non vuole fare altro che abbandonarsi al Signore, attendendo tutto da Lui (131; resto quieto e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, v.2). Si reca in pellegrinaggio a Gerusalemme, perché là il Signore ha deciso di abitare, divenendo una sorgente di benedizione. Questo è il mio riposo… Dio adempirà la sua promessa: quella di dare perennità al trono di Davide, facendo sorgere dalla sua progenie un Salvatore (132). Per quanto riguarda l’attesa d’Israele, del salmo 132, essa ora è diventata adempimento. «L'apostolo dice che Cristo abita per la fede nei nostri cuori. Né fa meraviglia se il Signore Gesù abita volentieri in questo cielo che non solo creò con una sola parola, ma si acquistò combattendo e redense con la sua morte. Dopo tanta fatica dice, esprimendo il suo vivo desiderio:Questo è il mio riposo per sempre, qui abiterò perché l'ho desiderato» (Bernardo). «Appare con quanto ineffabile amore Dio ami la sua Chiesa, dal momento che la dice suo riposo» (Prospero d'Aquitania).
Torniamo alla raccolta. Già, al presente, Dio ricolma di gioia e di grazia l'assemblea dei pellegrini, radunati insieme in un'unica famiglia di credenti (133; come è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme v.1). I sacerdoti invitano alcuni di essi a benedire il Signore lungo l'intero corso della notte, a nome di tutti, e da questa lode incessante, scenderà una copiosa benedizione per tutto il popolo (134; benedite il Signore… durante la notte, v.1).

La grande lode (135-136)

Sono i salmi del grande hallel o lode solenne: Dio viene celebrato come Creatore e Signore della storia. Si ricordano le grandi meraviglie operate da lui.

I ricordi dell’esilio (137)

Il salmo è isolato. Il canto è stato composto nel periodo dopo l’esilio. Il salmista ricorda la nostalgia degli esuli e il loro proposito di restare fedeli a Gerusalemme.

La lotta del Messia (138-145)

Il nucleo della composizione si trova nei quattro salmi di lotta (140-143). Un re sostiene un combattimento gravoso ma, una volta che avrà vinto, potrà cambiare radicalmente la condizione del suo popolo, che potrà godere dei beni messianici, tanto attesi (144). I salmi di lotta sono preceduti e seguiti da due salmi di fiducia (139 e 144) e da due salmi di ringraziamento (138 e 145).

La lode conclusiva (146-150)

La lode conclusiva, già intonata dal salmo 145, echeggia in altri sei salmi. Predomina il ringraziamento per la cura provvidenziale di Dio nella vita quotidiana. L’ultimo salmo chiede che ogni essere diventi uno strumento di lode della gloria di Dio.

lunedì 24 maggio 2010

MAGNIFICAT BENEDICTUS

«L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre».





Lo sviluppo del Magnificat lo possiamo parafrasare in questo modo: rendiamo lode a Dio con grande gioia perché si è preso cura della nostra misera situazione e ci ha donato il Salvatore. Per mezzo di lui, Egli ha compiuto e continua a compiere grandi cose in noi. Dobbiamo riconoscere questo: il Signore si preoccupa davvero dei poveri e distrugge i progetti dei malvagi che li opprimono e s’oppongono al suo disegno di salvezza. Sempre ha agito in questo modo, operando a favore del suo popolo.
In sintesi, la lode di Maria e della Chiesa è un ringraziamento a Dio perché ci ha donato e continua a donarci il Signore Gesù. Questo è il primo aspetto più importante. Maria è voce che incarna la lode della prima comunità cristiana e della Chiesa di ogni epoca. Appare poi un tema anch’esso rilevante: la comunità che celebra il Signore attesta davanti a Dio di essere una povera. Maria e la comunità di cui è il portavoce vive il valore della povertà davanti a Dio. Essa può ricevere ogni giorno il Signore e i doni della sua salvezza perché vive la spiritualità del povertà.



a) La povertà come oggetto di benevolenza da parte di Dio.

Dio mostra una particolare cura per chi si trova in una situazione di povertà. E' il messaggio, ad esempio, del primo dei salmi pasquali, il 112.
Nella prima strofa è celebrato il nome di Dio (shem), che ricorre per tre volte. Si dice che il Nome del Signore mostra una caratteristica sorprendente: siede nel luogo più elevato ma si china a guardare, con preoccupazione sulla terra. Non è un Dio che se ne rimane soddisfatto in cielo ma vuole fare parità tra cielo e terra.«Chi è come il Signore, nostro Dio, che siede nell’alto e si china a guardare sui cieli e sulla terra?».
Il salmo, poi, esprime una nota ancora più sorprendente. Che cosa osserva il Signore? Gli antichi pensavano che Dio si interessasse soprattutto dei potenti. I re erano considerati sue immagini e rappresentanti. Invece il Dio di cui parla il salmo si preoccupa della categoria più misera tra gli uomini: «Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero» (Sal 112,5-7). Dio si prende cura di chi si trova nella situazione peggiore, la più svantaggiata. Non considera se il misero che siede sull’immondizia meriti o non meriti soccorso ma viene aiutato soltanto perché è tale; il sofferente viene soccorso a motivo della sua sofferenza.
Il salmo si completa affermando che Dio non soltanto libera il misero dall’immondizia ma addirittura che, in seguito, lo colloca tra i principi del popolo. Dall’umiliazione estrema, lo eleva alla condizione più elevata.
Il passaggio dall’umiliazione all’esaltazione, su cui si muove il salmo, prepara il rovesciamento che sarà vissuto da Cristo, secondo l’inno paolino della lettera ai Filippesi (cap. 2): Gesù, volontariamente, passa dapprima dalla gloria divina all’umiliazione estrema della croce. In seguito, proprio per aver affrontato quest’umiliazione (per questo), viene esaltato col ricevere la funzione più elevata (il Nome che è al di sopra di ogni altro nome), a gloria del Padre.
Gesù merita l’esaltazione perché si è umiliato volontariamente per servire il disegno di Dio a vantaggio degli uomini.
Tutti questi testi sono una rivisitazione dell’esperienza fondante del popolo d’Israele: il passaggio dall’umiliazione del lavoro forzato alla glorificazione, che consiste nell’essere stabilito come popolo di Dio, partner dell’Alleanza con Lui. Proprio nel momento dell’Esodo, Dio aveva fatto conoscere il suo Nome più vero:
«Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore! Mi sono manifestato ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come Dio l’Onnipotente, ma non ho fatto conoscere loro il mio nome di Signore… Io stesso ho udito il lamento degli Israeliti, che gli Egiziani resero loro schiavi, e mi sono ricordato della mia alleanza. Pertanto di’ agli Israeliti: “Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio teso e con grandi castighi. Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani» (Es 6,2-7).
Israele non viene soccorso perché meritevole ma in base alla benevolenza gratuita di Dio: Se si prende cura del popolo, lo fa considerando la sua situazione disperata, non per la rettitudine morale che quello ha dimostrato: «Dio fa le cose nostre non a misura nostra, ma a misura della sua sconfinata misericordia. Non guardiamo allora a noi stessi, ma alla potenza paziente e piena di compassione del nostro Dio e Padre più che buono» (Callisto Patriarca).
A sua volta Gesù otterrà la salvezza per altri, usando nei loro confronti la stessa solidarietà compassionevole di Dio: «Gesù vide un uomo chiamato Matteo, che sedeva al banco delle imposte e gli disse: Seguimi. Lo vide non tanto con la vista del corpo quanto con lo sguardo della commiserazione interiore; con lo stesso con cui guardò anche Pietro che lo rinnegava, perché riconoscesse e piangesse il suo peccato. Con lo stesso sguardo, un tempo, aveva osservato il suo popolo per strapparlo dalla schiavitù d'Egitto, quando disse a Mosè: Ho osservato l'afflizione del mio popolo, ho udito i suoi gemiti e sono disceso a liberarlo. Vide Matteo ed ebbe compassione di lui perché era dedito soltanto agli affari di questa terra. Lo vide seduto al banco delle imposte con la mente avida di guadagni terreni (Mt 9,9)» (Beda).
Finora abbiamo visto come il povero sia privilegiato da Dio. Addirittura la situazione di trovarsi in peccato è vista da Dio come una condizione di povertà bisognosa di soccorso.
Dobbiamo ora fare un secondo passo.

b) Il povero, collaboratore di Dio (umiltà)

Dio sceglie il povero come oggetto del suo intervento salvifico ma anche come collaboratore nella storia di salvezza. Questo secondo aspetto è più importante del primo e ci avvicina di più al compito svolto da Gesù e da sua Madre, Maria; ci avvicina di più al compito della Chiesa.
Vediamo ancora una volta il retroterra vetero testamentario.
Nel salmo 32 leggiamo che Dio, dopo aver mostrato la potenza della sua parola e del suo volere nella creazione, la mostra nuovamente creando ordine nel caos che accompagna la storia degli uomini. Egli crea sempre nell’oggi; di continuo dirige la storia degli uomini, annullando i progetti di malvagità elabotati dai potenti: «Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il disegno del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazioni. Beata la nazione che ha il Signore come Dio, il popolo che egli ha scelto come sua eredità» (32,10-12).
Di chi si serve il Signore per compiere nella storia esperienze di nuova creazione? Gli uomini tendono a confidare nei potenti, nei ricchi, ni sapienti. Proprio tutte queste categorie sono scartate da Dio: «Il re non si salva per un grande esercito né un prode scampa per il suo grande vigore. Un’illusione è il cavallo per la vittoria, e neppure un grande esercito può dare salvezza» (32,16-17)
Chi può essere allora il collaboratore di Dio? La risposta viene enunciata nel versetto 18, il cuore del salmo: «Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore» (32,18).
I ricchi, i potenti e i sapienti sperano in se stessi e nella potenza dei loro strumenti, ma Dio si serve soltanto di chi spera nel suo amore. In questo salmo non si parla in modo esplicito del povero ma, dal momento che il fedele collaboratore è il contrario dei potenti (e prepotenti), ciò significa che egli non è né un ricco, né un uomo autorevole né è membro di qualche altra categoria nella quale gli uomini sogliono confidare. Questa caratteristica ci rinvia di nuovo al Magnificat. Anche Maria attesta che Dio rovescia i potenti dai loro troni e che allontana i ricchi.
Maria è umile, perchè confida in tutto e per tutto nell’amore di Dio. La Chiesa diventa potente quando confida in Dio, mentre viene vinta quando s’appoggia ai potenti.
Afferma Zeno di Verona (IV sec.): «Com’è indifesa quella fede che invoca ad ogni istante la protezione dei re e dei ricchi! (O quam indefensa fides quae regum, divitum… desiderat per momenta patrocinia!» [II, III, 4 (10)].

Nella Bibbia troviamo altri casi in cui è riproposta questa forma di fiducia. Spesso gli eletti di Dio, mostrano di avere la stessa mentalità degli uomini mondani, ossia pensano che la loro pochezza sia un ostacolo insormontabile per poter fungere da inviati di Dio. Mosè ha paura della sua balbuzie (ho nasconde la viltà dietro la balbuzie); Isaia pensa di essere troppo peccatore; Geremia, invece, troppo giovane. In realtà Dio li assicura che nessun limite oggettivo può essere di per sé un impedimento. L’unico vero ostacolo sta nella mancanza di fede.
La logica paradossale della ricchezza della povertà che si abbandona al Signore la troviamo nel racconto della guerra di Gedeone. Questo giudice, quando viene chiamato, si meraviglia di essere stato scelto proprio perché è il più piccolo della sua famiglia e quest’ultima è la più insignificante tra quelle della tribù di Beniamino (Gd 6,7). Come potrà una persona così ordinaria poter governare un esercito o una nazione? Quando egli accetta l’incarico ricevuto e riesce a raccogliere un gruppo d’armati, assai inferiore al numero dell’esercito opposto, viene obbligato da Dio e rinviare la maggior parte dei suoi soldati perché sarebbero troppi (Gd 7). Deve essere evidente che il Signore non salva per la potenza di un esercito ma soltanto per la sua potenza che si dispiega nella povertà ma anche nella fede di Gedeone e del suo piccolo esercito. Egli deve rischiare e combattere mettendo in campo la sua pochezza ma contando sull’aiuto del Signore. In questo sta la povertà dello spirito.

Più tardi san Paolo dovrà apprendere la stessa logica. Preoccupato a causa delle difficoltà e degli ostacoli continui che incontrava nell’evangelizzazione, egli ripetutamente chiede al Signore di essere liberato dalla spina confitta nella sua carne, ossia dal tormento dovuto alla sua povertà umana. Vuole essere libero da tutti gli intralci. Il Signore, però, non lo ascolta. Gli assicura che continuerà ad amarlo e ad assisterlo nelle difficoltà insuperabili per un uomo. Paolo si lascia convincere e capisce che la forza di Dio si dispiega con maggiore evidenza proprio nell’esperienza della povertà (2 Cor 12,7-10). Alla fine finisce di vantarsi proprio della sua miseria. Solo quando è debole, diventa forte della potenza del Risorto. Soltanto nelle difficoltà può maturare e portare a compimento in sé il tragitto della Pasqua del Signore.

In conclusione: cantando il Magnificat la Chiesa impara ad essere povera davanti a Dio; lo ringrazia per essere soccorsa ogni giorno dalla presenza del Risorto e si dispone a collaborare con Lui che dispiega la sua energia nella povertà fiduciosa della Chiesa.

«Grazia, grazia sia a te, Padre eterno, che tu non hai spregiata me, factura tua, né voltata la faccia tua da me. Tu, luce, non hai raguardato alla mia tenebre; tu, vita, non hai raguardato a me, che sono morte; né tu, medico, alle gravi mie infermità; tu, purità etterna, a me, che sono piena di loto di molte miserie. Per tutti quanti questi ed altri infiniti mali e difetti che sonno in me, la tua sapienzia, la tua bontá, la tua clemenzia e il tuo infinito bene non m’ha spregiata. Ho cognosciuta la veritá nella tua clemenzia, ho trovato la caritá tua e dileczione del proximo. Chi t’ha costretto? Non le mie virtú, ma solo la caritá tua. Dammi che la memoria sia capace a ritenere i benefizi tuoi, la volontà arda nel fuoco della tua carità… Questo medesimo t’adimando cordialmente per ogni creatura che ha in sé ragione, e in comune e in particulare e per lo corpo mistico della sancta Chiesa. Io confesso, e non lo niego, che tu m’amasti prima che io fusse, e che tu m’ami ineffabilemente come pazzo della tua creatura» (Caterina da Siena, Dialogo, Cap. 167).


Benedictus


«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi un Salvatore potente nella casa di Davide, suo servo, come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati.
Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace».


Dio «ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi un Salvatore potente» (Lc 1,68). Il cantico di Zaccaria ha come argomento principale il ringraziamento per la venuta di Gesù nel mondo e per la redenzione attuata da lui (remissione dei peccati e dono della pace). Con questo canto la Chiesa, ogni giorno, ringrazia il Signore perché ogni giorno riceve da Dio Padre Cristo Signore, come dono massimo all’umanità. Egli è il vero sole che viene a rischiararci ogni giorno per introdurci sulla strada del bene e della pace. Dal momento che questo è il senso più importante, vorrei soffermarmi su di esso per svolgere la meditazione.
Ogni azione di Dio rivela chi è Dio. Ora lo conosciamo in un modo, ora in un altro. Con questo non significa che una nuova comprensione elimini la precedente, avendola considerata quasi un errore, ma piuttosto che quanto già conosciamo era ancora molto poco in confronto a quanto veniamo a sapere in una nuova rivelazione. Manifestandosi a Mosè come il Signore (YHWH), Dio si manifesta come Colui che prende a cuore la sorte del misero. Questa forse non era una novità assoluta, ma è certamente una nuova illuminazione. Si viene a conoscere qualcosa di nuovo anche quando siamo in grado di accorgerci di ciò che, pur conosendolo, avevamo trascurato.
Il Cantico di Zaccaria afferma che, donandoci Cristo, Dio rivela le sue “viscere di bontà”. Compare il termine splangkna che è l’equivalente in ebraico di rahamin, il seno materno. Tutto questo, piuttosto che voler esprimere la femminilità divina, vuole evidenziare in modo radicale la sua misericordia. Viscere nell’antico oriente corrisponde al cuore per la nostra cultura.
[La grande misericordia (rahamin) richiama un aspetto materno di Dio; vediamo alcuni passi biblici: «Come ti posso abbandonare Efraim? Si sconvolge dentro di me il mio intimo»(Os 11, 7-9). «è un figlio prezioso per me Efraim, o un bimbo delizioso, ché ogni volta che parlo contro di lui lo ricordo sempre più teneramente? Per questo si commuovono le mie viscere per lui, ho per lui grande compassione» (Ger 31, 20). «Dov’è il tuo zelo e la tua potenza? Il fremito delle tue viscere e della tua misericordia» (Is 63, 15)].
Ora Dio appare come amore. Lo si sapeva già ma adesso il modo con cui Dio manifesta il suo modo d’amare ha una modalità totalmente nuova. Giovanni tenta di scuoterci e di fare attenzione a questo ultimo volto di Dio scrivendo: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (16-18).
Gesù è una nuova grazia sull’altra che è l’Antica Alleanza. Una grazia incomparabilmente più grande della prima. La Bibbia dice che Mosè o Isaia avevano visto Dio. Giovanni afferma, quasi in contrasto, che a vedere veramente Dio è stato soltanto Gesù. Lui solo lo ha conosciuto in tutta la sua profondità e ce l’ha rivelato. «Quale misericordia è più grande di quella divina per la quale il Creatore è diventato creatura, il Signore un servo, il Liberatore viene venduto, Colui che innalza è umiliato, Chi da la vita, è ucciso?» (Cassiodoro)
Adesso cerchiamo di vedere in che cosa consiste questa rivelazione di Dio portata da Gesù? Perché è stato lui a farci conoscere il cuore di Dio, le sue viscere di misericordia?
Forse l’interprete più chiaro della novità del Vangelo è stato san Paolo. Scrivendo ai Romani, dopo lunga maturazione della sua riflessione sulla fede cristiana, spiega perché, avendo visto l’amore di Dio in Gesù, possiamo dire di aver visto per la prima volta nella storia che cosa significhi amore. Di solito gli uomini con questo termine esprimono l’attrazione verso ciò che considerano bello, affascinante ed appagante. Si può apprezzare una persona, una musica, un’opera d’arte, un panorama. Gli uomini cercano la bellezza perché sentono che vengono nutriti da essa. Una mamma dice al suo bambino: ti mangio. I baci sono un modo per mangiare l’altra persona, facendole capire che la consideriamo un valore di cui non possiamo fare a meno. Credo che fare una copia di una buona musica sia come tentare di mangiarla, di renderla in nostro possesso. Lo stesso significato ha fotografare. Gli uomini non possono amare ciò che è deturpato e considerano repellente
Paolo insegna che Dio ha amato gli uomini mentre questi erano per lui deturpati, quando erano ostili a lui:
«Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi... Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,6-10).
Il passo riportato non dice soltanto che Dio ha amato gli uomini malvagi ma che a loro favore ha sacrificato il suo stesso Figlio. Ad Abramo Dio aveva impedito di immolare il figlio Isacco. Non voleva che il patriarca si costringesse ad un dono troppo gravoso. Tuttavia Lui ha compiuto ciò che aveva proibito ad Abramo. IlPreconio sottolinea così la novità per noi quasi incomprensibile: per salvare il servo, Dio ha impegnato il Figlio.
Questa per Paolo è il volto nuovo di Dio, ormai insuperabile. Con questo dono, Egli ha raggiunto la fine, l’estrema possibilità. Solo ora vediamo le viscere di misericordia del nostro Dio, le profondità ancora nascoste.
Tuttavia il Cantico di Zaccaria ringrazia per l’attualità di questo dono. Vale a dire: Dio non ha cambiato idea, non ha un altro sentimento. L’amore che ha mostrato per noi accettando la croce è ancora attuale e permanente. I testi biblici cercano di farcelo comprendere. L’Apocalisse presentando Gesù Risorto dice a suo riguardo: «a Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue». Si può tradurre: a Colui che ora ci sta amando (tò agaponti emas). L’allusionesuccessiva alla liberazione dal peccato è un rinvio ad un fatto del passato, ossia alla crocifissione. Tuttavia l’amore mostrato sulla croce è ancora attuale. San Paolo insegna: se Dio ci ha donato il Figlio e non ha cessato di avere questo stile di misericordia, ora ci dona in Lui tutto ciò di cui abbiamo bisogno. «Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,31-32).
Ora nel Benedictus ringraziamo il Padre perché ogni giorno ci dona il Figlio e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere la sua sequela.
I santi hanno visto nel Signore crocifisso la lora fonte vera di autentica speranza: «Quando considero un Dio prendere anima e corpo per poter patire e soddisfare per noi e renderci così oggetti cari al suo Padre ed… eredi di Lui stesso, non mi spaventano più i miei enormi peccati. Non mi atterisce più il Nemico che fugge via adendo quel Nome sacro. Non temo più di divenire inerte nell’operare il bene perché ogni ogni forza e buona volontà ci deriva per noi dai quei meriti. … La miseria nostra esposta [con verità] alla ricchezza del nostro Dio, potrà forse restare ancora tale? Ricorri a quel ciborio dove risiede la midolla dell’amore divino… Tu diventi, per il sangue di Cristo, amabile all’eterno Padre e oggetto del suo amore tenerissimo» (Elisabetta Vendramini E258).
Nell’ultima strofa si fa menzione del sole che, sorgendo dall’alto, c’illumina liberandoci dal peccato. L’attenzione all’apparizione di una Stella appartiene all’attesa messianica.
La simbologia del sole presenta svariati motivi nella Bibbia: pensiamo alla lode degli astri e, soprattutto del sole, presente nel salmo 18. Esso viene presentato come un prode gioioso e forte che, girando nella volta celeste, illumina e riscalda ogni realtà: «Sorge da un estremo del cielo e la sua orbita raggiunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore».
In alcuni passi del Nuovo Testamento Gesù viene presentato come un astro splendente: «Il volto di [Cristo Risorto] era come il sole quando splende in tutta la sua forza» (Ap 1,16). «Il volto [di Gesù] brillò come il sole e le sue vesti divennero come la luce» (Mt 17,2).
Sulla scorta della Scrittura, i Padri hanno completato la riflessione biblica cercando di applicarla nei dettagli: «Cristo Signore esce dalla sua stanza nuziale, cioè dal grembo verginale, come sposo della sua Chiesa. Riconciliando il mondo con Dio, si unì a sé la Chiesa mediante l’amore. è un prode perché, vincendo la natura umana, sconfisse ogni vizio con il suo autore» (Cassidoro). «Il mondo è un esempio dell'azione divina, perché, mentre si vede l'opera, se ne scopre l'autore. Se cerchi lo splendore di Dio, il Figlio è l'immagine del Dio invisibile» (Ambrogio). «Cristo brillò in tutto il suo fulgore divino e trasmise ai discepoli la luce celeste delle sue parole. Col calore, allude allo Spirito Santo che inviò ai discepoli dopo la sua Ascensione» (Cassiodoro).
Nella seconda parte del salmo 18, l’autore biblico, poi, celebra la solarità della vita del credente obbediente a Dio. La fedeltà alla Parola di Dio rende gioiosi, forti, uomini dallo sguardo puro e dal cuore rinfrancato. Anche la Chiesa ha riflettuto su questa realtà. Gli astri celebrano la gloria di Dio semplicemente con la loro presenza luminosa e silenziosa. Parlano di Dio senza gridare e senza imporsi. S. Paolo afferma che questa modalità di testimonianza splendente e mite potrebbe essere un compito di tutti i fedeli: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita» (Fil 2,14-16).
Un autore spirituale bizantino riprende questi suggerimenti e vede l’esistenza del giusto come l’annuncio di una vita che, a modo degli astri, annunciano giorno dopo giorno la luminostà della vita nuova nello Spirito: «Lo Spirito è luce, vita e pace. Chi è illuminato dallo Spirito, vivendo in pace, compie una vita tranquilla. Conosce i misteri del regno, penetra nelle profondità di Dio e, giorno dopo giorno, proferisce parole di vita da un cuore tranquillo, buone per gli uomini» (Niceta).
Ogni giono siamo illuminati dal Signore Gesù, riscaldati da lui; riprendiamo, grazie a lui, una vita luminosa e pacificata, buona per altri uomini.
Vediamo altri elementi del Cantico: Gesù proviene dalla casa di Davide (Is 11,1-9; Atti 13, 23-39).
Era stato promesso da tanti profeti (1 Pt 1,10-12), a partire da Abramo stesso (Gal 3,16; Gv 8,55).
Dio, dopo averci liberati dai nemici (tutto ciò che si oppone alla realizzazione del progetto di Dio) ci rende capaci di servirlo in santità e giustizia (Rm 6, 17-19). In Gesù abbiamo la remissione dei peccati e possiamo ottenere la pace (Rm 5,1-2).

domenica 23 maggio 2010

PADRE NOSTRO

La prima cosa che dovrebbe sorprenderci quando recitiamo il Padre nostro è proprio il modo con cui comincia. Iniziamo col dire semplicemente: Padre. La versione di Luca riporta solo questo appellativo (Lc 11,2). Se ci trovassimo di fronte a qualsiasi autorità di questo mondo, non cominceremmo mai il discorso con una confidenza del genere. Dio, invece, lo chiamiamo subito Padre, senza altri preamboli. Incontriamo qui lo stile di Gesù. Egli si rivolgeva a Dio chiamandolo, in aramaico, Abba! Questo ha sorpreso i discepoli. L’ebraismo, come del resto tutte le altre religioni, non usava certo questa confidenza. Noi stessi nella liturgia adoperiamo delle formule più solenni: O Dio, onnipotente ed eterno...

È opportuno che noi preghiamo usando lo stile di Gesù? Non siamo troppo presuntuosi a parlare in questo modo? Non era Lui un caso unico? In realtà non sarebbe normale che parlassimo con Dio in questo modo.

Ora dobbiamo tener presenti due prospettive: da una parte l’essere figli di Dio e poter invocarlo come Padre è un privilegio immeritato, dall’altra non dobbiamo rifiutare il dono offertoci gratuitamente da Dio e chiuderci nel nostro imbarazzo, per quanto motivato. Osare di chiamarlo Padre (audemus dicere...) non è affatto imprudenza o sfacciataggine perché è Dio stesso che vuole così. Ha mandato in terra il Figlio Gesù perché gli uomini potessero considerarlo Padre ed essere realmente suoi figli. «Per mezzo di lui [Cristo] infatti possiamo presentarci... al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù. In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,18-22).

Non solo non dobbiamo esitare di parlare con Dio, ma noi stessi siamo diventati la sua abitazione. Dio ama la nostra confidenza, anche il nostro semplice balbettare. Lo Spirito Santo in noi ci fa superare l’imbarazzo, la paura, la diffidenza e ci insegna a sentirci figli. A volte pensiamo di essere importuni, degli scocciatori ma Dio vuole che noi ci accostiamo a Lui. «Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15). In altre parole non siamo figli di Dio nel senso che siamo stati creati da lui o che siamo amati da lui. Lo siamo perché siamo divenuti partecipi di Cristo (Eb 3,1.14), come fossimo una sola pianta con Lui.

Continuiamo ad osservare la costruzione del Pater. Abbiamo detto che è senza atrio e adesso vediamo che ha due vani. Nel primo diciamo per tre volte tuo o tua, ma nel secondo per tre volte nostro, nostri. Come primo momento, facciamo caso a ciò che Dio ci vuole dare (il suo dono), poi, in un secondo tempo, diamo rilievo alle nostre necessità. Questi due vani, tuttavia, sono un unico edificio. Quando Dio chiede la nostra attenzione ai suoi interessi, pensa sempre a noi, non a se stesso. Siamo noi piuttosto che dovremo dare più importanza al dono che Egli ci vuole fare, piuttosto che alle nostre richieste. Ricordate la donna samaritana. Dice a Gesù: dammi quest’acqua in modo che io non debba più fare questa fatica di venire attingere. Gesù le risponde: se tu conoscessi Chi sono io e che cosa potrei donarti, mi avresti fatto un’altra richiesta (cf Gv 4). Non è opportuno dare spazio alle nostre aspettative prima di aver dato importanza al suo progetto su di noi.

La terza cosa. Osserviamo il modo particolare di parlare di Gesù: sia santificato, venga il tuo regno! Se una signora dicesse alla collaboratrice domestica: siano spazzate le stanze; si faccia il bucato, avvenga la spesa, questo modo di parlare sarebbe piuttosto strano. Come mai questo linguaggio? Chi è che deve operare? Dio o noi?

Prima comincia Dio e poi collaboriamo anche noi. Se prima Dio non comincia a creare il suo regno, noi non potremmo fare un bel niente. La realtà di Dio non possiamo tirarla giù dal cielo con le corde. Tuttavia dobbiamo mettere il nostro consenso e la nostra collaborazione. Dio non lo getta giù dal cielo il suo regno a nostro dispetto, come fosse una meteorite. Ciò che chiediamo nella preghiera, lo dobbiamo volere anche noi. Ciò che chiediamo al Signore, dobbiamo cominciare a farlo anche noi. Vediamo ora le singole invocazioni.

Sia santificato il tuo Nome

Che significa? L’espressione deriva dal profeta Ezechiele (36,23).

Annunciando che Dio avrebbe santificato il suo Nome, il profeta assicurava che Dio, ad un certo punto della storia, avrebbe voluto manifestare la sua santità, ossia la sua grandezza. Tuttavia non possiamo restare così nel generico. Ezechiele pensava ad un dono particolare: quando Dio avrebbe santificato il suo Nome, il popolo avrebbe ricevuto il perdono, avrebbe potuto usufruire di un cuore nuovo, avrebbe ricevuto lo Spirito di Dio per comprendere, amare ed apprezzare i comandamenti del Signore. In altre parole Dio rivela la sua potenza e la sua forza quando siamo noi a migliorare e a cambiare in meglio. Finché gli uomini sono malvagi, essi non possono mostrare lo splendore della presenza di Dio in loro. Potremmo dire: in loro Dio fa una brutta figura. Quando la vita degli uomini migliora, anche Dio si rivela meglio per quello che è. Diceva s. Ireneo di Lione: come la bravura di un medico si vede nel malato, così la bravura di Dio si vede negli uomini risanati.

Questo modo di parlare è simile ad altre invocazioni che troviamo in altri profeti o nei salmi: Svegliati, svegliati, braccio del Signore! Alzati, Signore, con tutta la tua forza! Innalzati, o Dio, sopra il cielo e su tutta la terra si manifesti la tua gloria. In altre parole, spesso gli scrittori sacri avevano chiesto a Dio di non abbandonare gli uomini a se stessi e di farsi valere, di far sentire la potenza del suo amore. Gesù chiede al Padre di non rimanere inerte ma di agire con grande forza. Egli si mette a sua disposizione, affinché il Padre agisca per mezzo di Lui. Anche noi dobbiamo fare altrettanto. Chiedere a Dio di essere attivo nella forza del suo amore e fare quanto ci è possibile per collaborare con Lui. Il campo di azione è vasto, a livello personale e sociale.

Venga il tuo regno

L’invocazione successiva - venga il tuo regno - non fa altro che precisare il significato della prima. Dio si risveglia e manifesta la santità, ossia la grandezza del suo Nome, introducendo nel mondo il suo regno. Questa è l’invocazione più importante. Ricorda lo scopo stesso della missione di Gesù. Egli voleva che il Padre regnasse davvero tra gli uomini e in loro. Le sue parabole spiegano in che modo Dio realizzerà il suo intento e come dobbiamo comportarci in relazione a questo avvenimento. Gesù non pensa neppure che la sua morte impedirà questo realizzarsi del regno. Di fatto, a partire dalla sua risurrezione, il regno si è come concentrato della sua persona: da una parte è Lui, il Cristo, a regnare in nome di Dio e d’altra l’esito finale di tutto questo movimento, non sarà altro che una partecipazione di tutti gli uomini alla gloria del Cristo Risorto. Ormai il significato dell’invocazione di Gesù presenta tante sfaccettature quante sono gli sviluppi concreti di questo annuncio.

1. Prima di Gesù. La promessa del regno viene annunciata dal profeta Daniele (cap. 7). Nel corso della notte, quando a regnare sono le tenebre (simbolo del male), il profeta vede quattro bestie terrificanti; le vede emergere da un mare fortemente agitato da venti impetuosi (Dan 7,2-3). Questi esseri mostruosi provengono dal caos evocato dalla tempesta notturna (cf. Gen 1,2), e sono simbolo dei regni terreni che opprimono e massacrano gli uomini. Il profeta continua a guardare, ossia sperare, ed ecco aprirsi un’altra visione questa volta rasserenante: dal cielo, da Dio, viene una figura umana integra, denominata Figlio dell’uomo (7, 13-14). Egli appare come l’uomo ritornato ad immagine di Dio e rappresenta una persona singola ma anche un intero popolo (7, 18. 27). Il profeta vede che Dio consegna al Figlio dell’uomo il dominio del mondo. Gesù, in seguito, s’attribuirà questa figura, modificando però la prospettiva e rifiutando un dominio terreno.

2. Durante la vita di Gesù. Gesù attesta di essere il Figlio dell’uomo (Mt 27, 64). Inutile pensare ad un dominio mondano (Gesù si attribuisce questa figura mentre mentre viene processato dai poteri terreni, bestiali; cf. Gv 19, 1-2). Il regno di Dio non si realizza dopo gli altri, dopo averli soppiantati, ma cresce in mezzo ad essi, come buon grano tra la zizzania (Mt 13, 24-30). Non si impone con la forza o con il dominio del denaro (Gv 18,36). È costituito piuttosto da tutti coloro che vogliono fare la volontà di Dio e si pongono dalla parte della verità (Gv 18,37).

3. Dopo la Pasqua. In modo paradossale, Dio inaugura il suo regno con la morte di Gesù (Lc 22,18). Questi si abbassa fino all’ultimo posto, per amore, e per questo, viene esaltato da Dio (Fil 2,9). La croce diventa la garanzia del dominio di Gesù, come una riserva aurea garantisce il valore di una valuta corrente. Se non fosse concretizzata dal servizio umile della croce, la gloria della risurrezione non sarebbe altro che carta straccia, dominazione mondana. Ora coloro che accolgono il suo regno, diventano anch’essi un regno (Ap 1,6) e partecipano alla gloria del Risorto (Ap 3,21) ma dovranno anche loro morire a se stessi manifestando la forza dell’amore (Ap 5,9-10; 12, 11).

L’invocazione del Regno comprende vari aspetti. Per rispettarli tutti dovremmo svolgerla in tante altre preghiere.

Sia fatta la tua volontà

L’invocazione seguente - sia fatta la tua volontà - appare soltanto nel testo di Matteo. Di fatto non aggiunge nulla alle altre due ma le chiarifica. Ciò che Dio vuole è santificare il suo Nome introducendo nel mondo il suo Regno.

Quale altra prospettiva chiarisce quest’invocazione? Il volere divino si realizza quando diveniamo figli di Dio, santi e immacolati: «In Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Ef 1,4-5). Oppure: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4)

Matteo aggiunge, poi, come in cielo così in terra. Il cielo corrisponde alla parola di Dio, la terra alla nostra accoglienza. Il cielo è rappresentato dalla pioggia e dalla neve, la terra dal campo fecondato da esse; i frutti che maturano in terra hanno, dunque, un’origine celeste: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).

«Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano»

Già nell’Antico Testamento Dio è presentato come Colui che si prende cura della sua creazione e della sussistenza del suo popolo. Un caso tipico era costituito dall’esperienza della manna nel cammino verso la patria. Dio aveva nutrito il suo popolo con un cibo sconosciuto, inaspettato. Gli ebrei potevano goderne ma senza tentare di accumularlo. Bisognava raccogliere ogni giorno il quantitativo che bastava, senza dubitare del soccorso che Dio avrebbe prestato nel giorno successivo. «Ecco che cosa comanda il Signore: “Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne”». Così fecero gli Israeliti. Ne raccolsero chi molto, chi poco. Si misurò con l’omer: colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno, non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne. Mosè disse loro: «Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino». Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì» (Es 16,16-19).

La prima invocazione della seconda parte del Pater ci rinvia alla vita di Gesù in terra. Egli aveva abbandonato il lavoro di carpentiere e si era messo a predicare di villaggio in villaggio, senza alcuna garanzia economica, senza sapere dove avrebbe potuto alloggiare. «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58). Chi lo seguiva, affrontava i medesimi rischi. Chi era mandato in missione da lui, doveva abbandonarsi all’assistenza di Dio, affidandosi alla sua provvidenza. Potevano contare, gradualmente, su una rete di discepoli rimasti nei loro villaggi, come Maria, Marta e Lazzaro, godendo della loro ospitalità. Chi abbandona tutto per il regno, si affida a Dio provvidente.

Nei viaggi missionari, gli apostoli si sono fatti ospitare e anche mantenere dalle comunità evangelizzate, seguendo un detto risalente a Gesù. Soltanto Paolo lavorava con le sue mani, come scelta personale (1 Cor 9, 13-18). Lo faceva all’inizio del lavoro apostolico in un determinato luogo poi, anch’egli preferiva darsi interamente all’evangelizzazione, contando sull’aiuto dei cristiani già convertiti (Fil 4, 14-20).

L’apostolo non considera il soccorso della Provvidenza come un atto che preservi dalla prova o dall’esperienza dell’indigenza (Fil 4,11-12) e, quindi, non può essere invocata a servizio di un’esistenza comoda o a sostegno di scelte amministrative estemporanee. La provvidenza non garantisce una stile di vita alieno dalla sobrietà. Egli invita i cristiani a solidarizzare con lui e soprattutto tra di loro (Fil 4, 14; 2 Cor 9, 6-7) perché Dio agisce come provvidente tramite persone rese da lui generose. Assicura che Dio si prende cura di chi si è già fatto carico delle esigenze del prossimo, rischiando sul piano economico (Fil 4,19; 2 Cor 9,10), perché lo scopo dell’elemosina è il ristabilimento dell’uguaglianza nella Chiesa (2 Cor 8,13).

«Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore».

Gesù era venuto per annunciare lil volere di Dio: riconciliarsi con gli uomini. Di solito è l’offensore che deve preoccuparsi di riconciliarsi con l’offeso. Dio agisce al contrario. Proprio lui che è stato offeso prende l’iniziativa della riconciliazione e assicura della sua piena disponibilità alla rappacificazione con gli uomini. «Dio riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,19-20). Il perdono che gli uomini si rendono tra loro è la conseguenza di questa nuova relazione che hanno stabilito con Dio. Da Dio impariamo, dunque, come agire nei riguardi dei nostri simili.

L’argomento può essere allargato oltre il perdono. Il Vangelo promuove lo spirito di gratuità, insito nel perdono, in ogni circostanza: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (Lc 14,12-14).

«Non abbandonarci alla tentazione»

Il testo precedente alla nuova traduzione aveva scosso le coscienze: non indurci in tentazione! Come può Dio indurre l’uomo al male? La Scrittura dice che Dio non vuole spingere nessuno al male. «Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni» (Gc 1,13-14).

Tuttavia, Dio può sottoporre alla prova gli uomini non per farli precipitare nel male ma per renderli persone sempre più mature: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore» (Sir 2,1-5).

La stessa tentazione diabolica può fungere da prova permessa da Dio. È quanto ha vissuto Gesù. Matteo adopera un linguaggio piuttosto drastico: «Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1).

L’espressione della nuova traduzione chiarisce ogni possibile equivoco. «Non abbandonarci alla tentazione». A sua volta Paolo rassicura: «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10,13). Importante è non illudersi di non dover attraversare la prova e soprattutto non illudersi di essere tanto solidi da superarla da soli (cf Lc 22,31: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno… »).

Immagine a fianco: Angelo, icona di Luciano Mistrorigo (cf. residenza camaldolese.blogspot.com)