martedì 26 marzo 2024

Camaldoli 27.03.24

 «PREFERISCO RIMANERE NELLA CARNE» 

(Fil 1,23)

1. «[Cristo Gesù], pur essendo nella condizione di Dio, svuotò se stesso» (Fil 2,6-7). 

Giovanni rivela questo «essere nella condizione di Dio», come un essere presso Dio (1,1), rivolto verso il seno del Padre (1,18) oppure come un modo di vederlo: «Colui che è da Dio, solo questi ha veduto il Padre» (Gv 6,46). 

Vedere il Padre significa conoscere il suo progetto, il suo volere, le sue intenzioni. Gesù vede la “preoccupazione” del Padre, la fa sua e volontariamente decide di assumerla e realizzarla. 

A Mosè Dio dovette rivelarla; da solo il profeta non l’avrebbe intuita: «Ho guardato attentamente l’afflizione del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo per farlo salire» (Es 3,7-8). Gesù, guardando Dio, osserva ciò a cui Egli è interessato, guarda là dove guarda Dio, il quale <siede nell'alto ma si china a guardare sulla terra, verso il povero sull'immondizia> (cf Sal 112,5-6). 

Il Padre non deve rivelargli niente. Ciò che è di Dio, è anche suo. Lo rivela un passo della Lettera agli Ebrei: «Entrando nel mondo, (Cristo) dice: […] un corpo mi hai preparato. Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà (Sal 39,7-9 LXX)» (Eb 10,5-7).

Il farsi carne di Gesù è l’evento decisivo. Egli che vive nella beatitudine, sceglie il peggio. La sua generosità appare in questa decisione originaria. «Dio non ha fatto se non opere mirabili. L’azione più sorprendente, tuttavia, è stata la sua volontaria umiliazione, quando ha assunto la nostra carne e ha condiviso le nostre sofferenze» (Bruno di Segni PL 164, 836). Rivela la sua carità impensabile e inarrivabile, non per le buone opere compiute sulla terra ma perché ha voluto farsi carne. 

Gesù, pur mostrando le scelte tipiche di un uomo giusto, rivela piuttosto il modo di ragionare di Dio, ciò che pensa il Padre nel cielo, meglio ancora ciò che è Dio, ossia una perenne e pura donazione di sé. Per questo, Gesù è l’esegesi di Dio: Egli la Grazia fatta carne («è apparsa la grazia di Dio» (Tt 2,11); egli è la Buona volontà di Dio (Eudokia) (Lc 2,14). Gli uomini non vengono definiti in base a ciò che sono, ma in base a ciò che Dio pensa di loro: «pace sulla terra agli uomini della Eudokìa» (Lc 2,14). 

Il cristianesimo non è, quindi, in primo luogo, una religione (raccolta dei doveri degli uomini verso le divinità o verso Dio, cf. Cicerone De natura deorum II,28) ma accoglienza della disponibilità di Dio verso di loro. 

La missione del Figlio mostra queste caratteristiche del cuore di Dio: Egli «non risparmia» il Figlio, cioè dona agli uomini il massimo di quanto poteva donare (Cf Rm 8,32). Lo dona ad uomini malvagi (Cf Rm 5,7-8) che lo avrebbero ucciso ed espulso dalla vigna (Cf Mc 12,8). Annuncia la sua disponibilità alla riconciliazione (sebbene sarebbero stati gli uomini a dover assumersi la responsabilità di questa iniziativa dal momento che erano stati loro ad infrangere il patto) (2 Cor 5,19). 

Gesù avverte questo essere del Padre che è anche suo. Si spende, perciò, a favore di uomini che non lo cercano, che non richiedono il suo donarsi a loro ma che, al contrario, lo rifiutano e lo disprezzano. Accetta una missione dalla quale non ricava alcun guadagno per sé. Il suo guadagno è la salvezza dei malvagi ai quali si mescola per poter considerarli e trattarli da fratelli (Cf Eb 2,11). 

Per Gesù, farsi carne è ben diverso dal farsi uomo. All’estremo è ciò che viene suggerito da Paolo: «Dio lo fece peccato» (2 Cor 5,21). Il Padre non lo considerò un peccatore, né lo punì come tale ma volle che sperimentasse il peggio del mondo dominato dal peccato. 

Ecco: in Gesù appare che cosa sia amore in tutto il suo splendore e, di conseguenza, diventa la persona che suscita verso di sé un amore totale ed esclusivo: «Nelle anime umane è deposta una grande e mirabile disposizione all’amore e alla gioia, la quale diviene pienamente operante alla presenza di Colui che è il vero amabile e diletto. È questa la gioia piena di cui parla il Salvatore» (N. Cabasìlas, Vita in Cristo, II, IX [92]). In Lui appare l’amore in tutta la sua interezza: «Non è mai accaduto che, pur desiderando il bene e la verità, gli uomini li abbiano conseguiti in modo puro» (ivi). In questo modo rivela all’uomo le sue potenzialità: «Prima non era noto quanto fosse grande la nostra potenza di amare e di godere» (ivi). 

Conclusa questa premessa, entriamo in argomento. 

2. Si trova nella Scrittura qualcuno che ha imitato la scelta del Figlio di Dio? La lettera agli Ebrei recupera la figura di Mosé. Qualcosa accadde in lui, prima della chiamata al roveto: "Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere del peccato [...], come vedesse l'invisibile ἀόρατον ὡς ὁρῶν" (Eb 12,24-25.27). In realtà questo modalità di scelta dovrebbe essere tipica del credente, il quale dona ai beni invisibili la stessa concretezza di quelli visibili.

Paolo annuncia ai cristiani di Filippi la regola del discepolo. I discepoli di Gesù devono fare propria la sua generosità e considerare gli altri più importanti di se stessi. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5); sentimento (phronema) è più che un ragionamento; è un progetto sapiente: «Sia in voi, ciò che fu in Cristo Gesù». 

Dal momento che questo proponimento è molto impegnativo, l’apostolo non lo impone in tutta la sua ampiezza ma vuole che, almeno, diventi l’orientamento della loro esistenza. 

L’intento di Paolo si scopre nel versetto di Fil 2,4: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri». La prima parte dell’invito richiama in modo più diretto lo stile di Gesù (non cercare il proprio interesse [ta eauton]); la seconda parte, quasi smentendo in parte la prima, accetta che i discepoli cerchino il proprio vantaggio ma, oltre a questo, devono cercare anche quello degli altri [kai ta eteron]. La forma più coerente dell’invito avrebbe dovuto essere espressa in questo modo: ciascuno non cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri. Con l’aggiunta della congiunzione “kai”, ossia “ma anche”, l’apostolo unisce l’ideale con il reale. Esiste un ottimo da perseguire (cf 1 Cor 13,5), e un minimo da evitare. Spesso Paolo unisce alla proclamazione del bene ideale, la considerazione del cammino reale: «Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!» (Gal 5,14-15). 

Paolo attesta che sono pochi quelli che lo imitano, ad eccezione di Timoteo: «Non ho nessuno che condivida come lui [Timoteo] i miei sentimenti e prenda sinceramente a cuore ciò che vi riguarda: tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (2,21).

Nel corso della lettera, si mostra come modello ed annuncia le scelte concrete da lui attuate. Un momento nevralgico è costituito dal sentimento predominante che lo pervade mentre scrive. L’apostolo si trova in carcere (ad Efeso?). È in attesa della sentenza che verrà pronunciata dal magistrato romano: assoluzione o condanna a morte (per decapitazione)? A questo punto, sorge un dissidio nel suo cuore. 

«Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede» (Fil 1,23-25). È preso da due desideri intensi che quasi l’opprimono (synechomai). Da una parte spera che si realizzi quanto desidera per ottenere il suo vantaggio: sciogliere «la corda che tiene vincolata la nave al molo (analysai)» e raggiungere Cristo; dall’altra desidera che si attui ciò che sperano i suoi fedeli in vista del loro vantaggio, ossia che egli venga assolto e ritorni presso di loro. Infine, fa prevalere ciò che avvantaggia i suoi fedeli. 

Da notare: non dice che rimarrà nel corpo (come viene tradotto) ma nella “carne”. Rimanere nel corpo potrebbe andare incontro ad una vita felice ma rimanere nella carne significa continuare ad esporsi ad una esistenza travagliata. Qui Paolo sta mostrando come imita Gesù: questi si trovava in una forma di vita esente da travagli ma, andando contro se stesso, volle farsi carne. Paolo si trova già nella carne ma rinuncia ad una vita felice e vuole continuare ad affrontare tutti i travagli del suo mistero. Cristo ha scelto la discesa e Paolo rinuncia all’ascesa. L’intenzione è identica: preferire rimanere nella carne. «So che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi (oida oti menò kai paramenò)» (Fil 1,25)

3. La regola di Paolo è stata seguita dagli uomini dello Spirito lungo la storia della Chiesa. È come se esistesse un sinodo permanente, che oltrepassa i secoli e i luoghi, convocato dallo Spirito. Vediamo alcuni casi. 

3.1. Guglielmo di saint Thierry (1085-1148) insegna che la comunione con Dio è l'unica vera sorgente di felicità per l'uomo. 

Tuttavia questa aspirazione non distrae affatto il cristiano dal suo impegno a favore della terra. A creare gioia è il fatto di amare; più precisamente di essere, per quanto possibile all'uomo, ciò che Dio è: amore disinteressato, fedeltà a tutta prova, accondiscendenza misericordiosa. 

Il contemplativo, condotto da un sentimento d'amore totale, riesce ad intuire, a leggere sul volto di Dio i pensieri e i desideri che lo riguardano. Questo non significa che egli deve sviluppare delle considerazioni astratte, ma discernere la propria missione. Contemplativo è, allora, colui che comprende con chiarezza il volere di Dio su di sé e che poi vi si conforma in totale fedeltà. «La <carità> trova dolce rivolgere sempre <lo sguardo> verso quel volto e, come su un libro di vita, leggervi le leggi della vita <adatte> per sé, e comprenderle, illuminando la fede, consolidandola speranza e risvegliando la carità» (Natura e valore dell’amore, 27). 

Il fatto di gustare Dio fa sgorgare nell'amante il desiderio di partecipare all'amore che lo riempie di gioia stupita. L'anima sapiente, gustando solamente Dio, «spoglia l'uomo dell'uomo» (cit 50), ossia, mentre ammira l'amore di Dio, lo assimila e, di conseguenza, elimina da sé ogni traccia di meschinità che si oppone ad esso. 

Se questo è il sentire di Guglielmo, non stupisce che egli, a sua volta, condivida e faccia sua la scelta già compiuta da Paolo: «Anche se la vita di Paolo si svolgeva tutta nei cieli, egli non si negava ogni volta che era necessario stare accanto agli uomini sulla terra», osserva Guglielmo (cit 26). 

3.2 La testimonianza più preziosa ci viene offerta da Riccardo di San Vittore (1110-1173). 

L'uomo viene paragonato ad un pezzo di ferro che deve perdere la durezza ed essere reso malleabile nelle mani di Dio. Il ferro ha bisogno di percorrere diverse fasi di trasformazione e di lavorazione: riscaldarsi, arroventarsi, liquefarsi. Ora, tutte le esperienze spirituali gratificanti sono tutte modalità con Dio cerca di riscaldare e arroventare il cuore dell'uomo che, al principio appare rigido come un pezzo di ferro. Alla fine, però, esso si liquefa per assumere la forma, ossia la missione, assegnatagli da Dio. «Come i fonditori, dopo aver liquefatto i metalli e preparato gli stampi, modellano come vogliono qualsiasi figura [...], così l'anima in questo stato si adatta facilmente a qualsiasi cenno della volontà divina, anzi, per un desiderio spontaneo, si dispone ad ogni sua decisione e piega ogni sua volontà all'approvazione di Dio» (I quattro gradi della violenta carità, 42). Solo dopo aver vissuto questa liquefazione, l'uomo diventa capace di assomigliare a Dio. Ogni grado mistico non è fine a se stesso ma prepara il trasferimento della stessa carità di Dio nel cuore dell'uomo, secondo il messaggio: «Siate gli imitatori di Dio come figli amatissimi e vivete nell'amore come anche Cristo vi ha amato e ha sacrificato se stesso per voi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave profumo» (Ef 5,1-2). 

Riccardo, perciò, evoca il dissidio vissuto da s. Paolo - stare con Cristo o rimanere nella carne per amore degli uomini? -; condivide interamente la scelta già compiuta dall'apostolo e ripensa con ammirazione a Mosé che rifiuta di essere accolto da Dio da solo mentre il popolo viene destinato alla rovina (Es 32, 32) (cit 44). 

In conclusione, ciò che conduce la persona umana allo scioglimento in Dio nella gioia piena dell'unione è anche la condizione che permette all'amante divino di scorrere facilmente verso il basso (facile ad inferiora currendo), nella piena disponibilità alla solidarietà più impegnativa. 

In quest’epoca, grazie alla riflessione di Guglielo e di Riccardo, viene elaborata la definizione più matura della contemplazione cristiana. 

3.3 Il valore dell’apporto dato da questi due teologi mistici, lo cogliamo operando un confronto con Eckhart (1260-1327). 

Anche Eckhart adopera l’immagine dell’uomo che rimane nel fuoco, questa volta a somiglianza di un legno. «Il desiderio di Dio è anche di donarsi completamente a noi. Accade lo stesso quando il fuoco vuole attirare il legno verso di sé e introdursi in esso: all'inizio trova che il legno è dissimile da sé, e per questo ci vuole del tempo. Prima rende il legno caldo e bruciante, e questo fuma e scricchiola, perché è differente dal fuoco. Poi, più il legno arde, più diviene calmo e tranquillo; più è simile al fuoco e più si acquieta, fino a divenire in se stesso completamente fuoco» (Sermoni, 11, 3, p. 164). 

Egli accoglie dal neoplatonismo l’idea che l’uomo può diventare fuoco, deificarsi. L’immagine del legno che s’acquieta corrisponde alle tappe più elevate conosciute da Riccardo ma qui manca l’ultima tappa, quella discesa. Per il mistico neoplatonico l’evento massimo sta nella fusione con l’Uno. Una uscita da questo stato è innimaginabile. 

3.4 Un’ultima testimonianza. Teresa d’Avila espone l’insieme degli effetti di chi è entrato nella «settima stanza». L’evento capitale consiste in questo: la «piccola farfalla è morta nella grande letizia di aver finalmente trovato riposo; in lei vive Cristo = Ahora, pues, decimos que esta mariposica ya murió, con grandissima alegría de haber hallado reposo, y que vive en ella Cristo» (Castillo Interior, Septimas Moradas, 3,1). 

Da questo evento scaturiscono diversi effetti tra i quali evidenzio il seguente: «Già avete visto le fatiche patite da queste anime per morire e poter godere di nostro Signore. Ora è tanto grande il loro anelito di servirlo, che non solo non vogliono più morire, ma vivere moltissimi anni soffrendo le pene più intense possibili perché il Signore sia maggiormente lodato, anche se di poco. Pur sapendo, come sanno, che la dipartita dell'anima dal corpo porta ad un godimento maggiore di Dio, non ci fanno caso… Scoprono la loro gloria nel poter servire in qualcosa il crocifisso. Talvolta, senza pensarlo, tornano i desideri di godere di Dio e di fuggire questo esilio … ma poi presto tornano al loro stato e offrono [al Signore] il medesimo desiderio di vivere, l’offerta più dolorosa che possano fargli» (VII,3,6-7). 

La testimonianza di Paolo ci aiuta a comprendere quella di Teresa ma ques’ultima ci aiuta a comprendere Paolo: vivere nella carne si precisa come servire il Crocifisso; accettare di continuare a vivere, è l’offerta più dolorosa che l’uomo possa fare al Signore (una ofrenda la más costosa para ella que le puede dar). Conoscere la Scrittura soltanto con l’esegesi, è uguale all’ignorare la Scrittura. Essa si comprende bene nel vissuto degli uomini dello Spirito. 

4. La regola di Paolo e dei santi sta, quindi, nell’imitazione di Gesù: conseguire il culmine della carità oppure, detto altrimenti, cercare il vantaggio dell’altro fino a perdere se stessi. 

Il cristiano non deve limitarsi ad essere buono o a fare opere buone ma far nascere Cristo in se stesso. Diventa una persona del tutto spirituale o un contemplativo, nel senso più pregnante del termine, quando per lui il Vangelo non è più un dovere o un proposito da perseguire ma un fatto naturale (Cf G. Pomerio, Vita contemplativa I,XII,1). 

Che cosa significa? Il santo è colui che frena la passione, il contemplativo la domina. Vediamo un esempio: il perdono. Esso si presenta in varie gradazioni. La rinuncia alla vendetta è il primo grado indispensabile. Forse per qualcuno giungere a questo è molto difficile e ritiene che sia il massimo possibile. Tuttavia può accadere che pur non facendo niente di male né pronunciando alcuna parola vendicativa, conservi un sentimento di amarezza e quindi può capitargli di godere se sente qualche altro ha afflitto il suo avversario. Si vendica così per procura. Se uno è maturato nell’amore, supera anche questo genere di amarezza e non gode del male di cui può soffrire il suo offensore, ma forse non riesce a provare piacere se questi viene onorato o se riceve del bene. La liberazione definitiva dal rancore sta in questo: «Bisogna gioire per la contentezza del proprio fratello e fare di tutto per servirlo e preparare ogni cosa per dargli onore e soddisfazione» (Cf Doroteo, VIII,93). Solo chi gode della fortuna del suo nemico ha ottenuto in pienezza la carità dello Spirito. 

Vediamo la testimonianza di Teresa d’Avila dalla quale si scorge in che modo il perdono sia divenuto un sentimento naturale: «Quando sono perseguitate, queste anime godono di grande gioia interiore, con una pace ancora più profonda di quella provata negli stati precedenti, senza alcun rancore per coloro che le fanno, o desiderano fare, del male. Anzi, nei loro confronti vivono una carità particolare, per cui, se li scorgono in difficoltà, ne partecipano teneramente e farebbero qualsiasi cosa per liberarli; li raccomandano a Dio volentieri e donerebbero loro le grazie ricevute dal Signore perché non lo offendano mai più» (VII,3,5). 

Le opere buone sono il risultato di una collaborazione tra l’uomo e la grazia, ma la nascita in noi della Carità o di Cristo è un’opera del tutto gratuita da parte dello Spirito Santo. Egli è colui che produce nel cuore dell’uomo la gioia immensa ed incomparabile di chi ha accettato di perdere se stesso. «Alla veemenza dell’amore corrisponde in tutto la gioia, all’amore si accorda sempre il diletto: ad amore grandissimo segue grandissimo diletto [akolouthei megìstô mégiston]» (N. Kabasìlas, ivi [92]). Tutta la vita impegnata del cristiano, allora, è soltanto attesa della venuta dello Spirito dentro di lui: «L’azione di santificazione e la grazia dello Spirito collaborano per lo stesso scopo; convergendo nella stessa persona, la riempiono d’una vita santa e felice, una con l’aiuto dell’altra. Se una rimane senza l’altra, non ottiene nulla. Né la grazia di Dio può venire ad abitare nella persone che la rifiutano, né la forza della virtù umana è tale da essere in grado da sola a far salire le anime alla forma perfetta della vita, qualora risultasse priva della grazia. Se il Signore non costruisce la casa e non custodisce la città, invano veglia il custode o fatica il costruttore (Sal 126,1). In un altro passo leggiamo: Non con la loro spada ereditarono la terra, né li salvò il loro braccio, sebbene avessero usato spade e braccia nelle varie battaglie, ma li salvò la tua destra, il tuo braccio e la luce del tuo volto (Sal 43,4). Che cosa ha voluto insegnare? Ha parlato della collaborazione con la quale il Signore, dall’alto, soccorre i credenti che stanno lottando; ha aggiunto poi che quanti credono di vincere contando solamente sulla loro energia, non devono affatto porre la loro fiducia nella loro buona volontà ma devono piuttosto credere che potranno ottenere il risultato sperato [soltanto] quando Dio lo vorrà concedere» (Gregorio di Nissa, De Instituto christiano, 11)

Il punto di partenza del monaco può essere buono ma ancora molto misero. Gli uomini sono dominati normalmemte dall’amore per se stessi e questo tipo d’amore rimane anche nella ricerca di Dio: «amare Deum propter se» (Bernardo). Lo spirito di gratuità penetra soltanto lentamente. 

Nella cultura monastica ritorna di frequente l’immagine della scala (di Giacobbe). Per Doroteo di Gaza essa sta a segnalare l’avvicinamento all’adempimento dell’amore al prossimo: «Come posso volar via dalla Terra e trovarmi tutto in una volta su in cima alla scala? Questo non è possibile, ma bada bene, almeno, di non scendere in basso: non fare del male al prossimo, non ferirlo, non sparlarne, non offenderlo, non disprezzarlo e poi puoi anche fare un po' di bene consolando il tuo fratello con una parola, compatendolo, se ha bisogno di una cosa, dandogliela. Salendo i gradini ad uno, ad uno, con l’aiuto di Dio, arrivi in cima alla scala. Aiutando il prossimo, a poco a poco, arrivi anche a volere quello che giova a lui come quello che giova a te, e il profitto suo come il tuo. Questo vuol dire: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali, 154).

Non è facile per nessuno continuare a salire, superando gradino dopo gradino: «Ci sono alcuni di noi che, quando lasciarono il mondo, avevano per scopo l'acquisto delle virtù. Gli uni ci sono riusciti un po', ma poi si sono fermati. Altri [hanno camminato] fino a metà dell'impresa e si sono arrestati. Altri non ci sono riusciti per niente, è sembrato che uscissero dal mondo, ma invece sono rimasti nelle cose mondane, nelle passioni e nel loro fetore. Altri riescono a fare un po' di bene, ma poi lo distruggono, e ci sono anche alcuni che distruggono più di quanto hanno realizzato. Altri, poi, sono riusciti nelle virtù, ma nutrono disprezzo nei confronti del prossimo e neppure questi hanno ottenuto il loro scopo. Ciascuno di noi capisca dove sta» (Doroteo cit 107). 

Mi soffermo a considerare quest’ultimo pericolo: diventare giudici degli altri, credendosi spirituali. 

A volte capita che qualcuno venga perfino escluso. Esiste sempre il pericolo che si escluda qualcuno per il proprio comodo, non in vista del bene della persona. Ambrogio suggerisce agli esclusi questa invocazione: «Mi hanno abbandonato gli uomini perché le mie piaghe fanno loro schifo, quelle che io ho ritenuto di dover schiudere alla tua misericordia. Quelli dicono: Và fuori dai piedi, perché sei un peccatore. Allontanati che ci insozzi. Ma tu, o Signore, mi curi e non ti contamini, perché sei tu il Dio della mia salvezza, o Signore» (Ambrogio, I dodici Salmi, Salmo 37, PL 14, 1085.1087). 

Di per sé il monaco dovrebbe imitare la pazienza illimitata di Gesù: «Osserva il nostro Consolatore (Gesù), come mischiò tra i suoi dodici uno che avrebbe dovuto tollerare con pazienza» (Agostino, Esposizione sui Salmi, Salmo 54, PL 36, 635). 

Tuttavia, chi si vede escluso, a diritto o a torto, non deve abbandonarsi al risentimento ma affrettarsi a raggiungere l’ultimo posto. Se gli capitasse perfino di trovarsi seduto sull’immondizia, si ricordi che è proprio là il luogo privilegiato dove si posa lo sguardo di Dio, il quale: mekimì (qum) solleva me’afàr dalla polvere dal il misero, me’ashpòt dai luoghi sudici iarim (rum) innalza eviòn il povero (Sal 112,7-8). C’è una progressione: dapprima il Signore rimette in piedi (qum) poi innalza (rum). 

מְקִֽימִ֣י מֵעָפָ֣ר דָּ֑ל מֵֽ֝אַשְׁפֹּ֗ת יָרִ֥ים אֶבְיֽוֹן


sabato 23 marzo 2024

La scelta di Gesù


«[Cristo Gesù], pur essendo nella condizione di Dio, svuotò se stesso» (Fil 2,6-7). 

Giovanni descrive questo «essere nella condizione di Dio», come un essere presso Dio (1,1), nel seno del Padre (1,18) oppure come un modo di vederlo: «Non che qualcuno abbia visto il Padre, se non colui che è da Dio, solo questi ha veduto il Padre» (Gv 6,46). 

Vedere il Padre significa conoscere il suo progetto, il suo volere, le sue intenzioni. Gesù vede l’intenzione del Padre, la sua preoccupazione e volontariamente decide di assumerla e realizzarla. Lo rivela un passo della Lettera agli Ebrei: «Entrando nel mondo, (Cristo) dice: Non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà (Sal 39,7-9 LXX)» (Eb 10,5-7). A Mosè Dio dovette rivelarla; da solo il profeta non l’avrebbe intuita: «Ho guardato attentamente l’afflizione del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo per farlo salire» (Es 3,7-8). Al contrario, Gesù guardando Dio, osserva ciò a cui Egli è interessato, guarda là dove guarda Dio. Il Padre non deve rivelargli niente. Ciò che è di Dio, lo fa suo. 

Il farsi carne di Gesù è l’evento decisivo. Egli che vive nella beatitudine, sceglie il peggio. La sua generosità appare in questa decisione originaria. Gesù rivela la sua carità impensabile e inarrivabile, non per le buone opere compiute sulla terra ma perché ha voluto farsi carne. Gesù, pur mostrando le scelte tipiche di un uomo giusto, rivela piuttosto il modo di ragionare di Dio, ciò che pensa il Padre nel cielo, meglio ancora ciò che è Dio, ossia una perenne e pura donazione di sé. Per questo, Gesù è l’esegesi di Dio: Egli la Grazia fatta carne («è apparsa la grazia di Dio» (Tt 2,11); egli è la Buona volontà di Dio (Eudokia) (Lc 2,14). Gli uomini vengono definiti non in base a ciò che sono, ma in base a ciò che Dio pensa di loro: «pace sulla terra agli uomini della Eudokìa» (Lc 2,14). 

Il cristianesimo non è, quindi, in primo luogo, religione (raccolta dei doveri degli uomini verso le divinità o verso Dio, cf. Cicerone De natura deorum II,28) ma accoglienza della disponibilità di Dio verso di loro. 

La missione del Figlio mostra queste caratteristiche del cuore di Dio: Egli «non risparmia» il Figlio, cioè dona agli uomini il massimo di quanto poteva donare. Lo dona ad uomini malvagi che lo avrebbero ucciso ed espulso dalla vigna. Annuncia la sua disponibilità alla riconciliazione (sebbene sarebbero stati gli uomini a dover assumersi la responsabilità di questa iniziativa dal momento che erano stati loro ad infrangere il patto). 

Gesù avverte questo essere del Padre e lo fa suo. Si spende, perciò, a favore di uomini che non lo cercano, che non richiedono il suo donarsi a loro ma che, al contrario, lo rifiutano e lo disprezzano. Accetta una missione dalla quale non ricava alcun guadagno per sé. Il suo guadagno è la salvezza dei malvagi ai quali si mescola per poter considerarli e trattarli da fratelli. 

Per Gesù, farsi carne è ben diverso dal farsi uomo. All’estremo è ciò che viene suggerito da Paolo «Dio lo fece peccato» (2 Cor 5,21). Dio non lo considerò un peccatore o né lo punì come un tale ma sperimentò il peggio del mondo dominato dal peccato. 

In ultima analisi, in Gesù appare che cosa sia amore in tutto il suo splendore e, di conseguenza, diventa la persona che suscita verso di sé un amore totale ed esclusivo. «Nelle anime umane è deposta una grande e mirabile disposizione all’amore e alla gioia, la quale diviene pienamente operante alla presenza di Colui che è il vero amabile e diletto. È questa la gioia piena di cui parla il Salvatore» (N. Cabasìlas, Vita in Cristo, II, IX [92]). In Lui appare l’amore in tutta la sua interezza: «Non è mai accaduto che, pur desiderando il bene e la verità, gli uomini li abbiano conseguiti in modo puro» (ivi). In questo modo rivela all’uomo le sue potenzialità: «Prima non era noto quanto fosse grande la nostra potenza di amare e di godere» (ivi). 

Conclusa questa premessa, trattiamo l’argomento del ritiro. Paolo annuncia ai cristiani di Filippi la regola dei credenti che consiste in questo: i discepoli di Gesù devono fare propria la generosità di Gesù e considerare gli altri più importanti di se stessi: Sia in voi, ciò che fu in Cristo Gesù (Fil 2,3). 

Dal momento che questo proponimento è molto impegnativo, l’apostolo non lo impone in tutta la sua totalità ma vuole che diventi l’orientamento della loro esistenza. L’intento di Paolo si scopre nel versetto di Fil 2,4: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri». La prima parte dell’invito richiama in modo più diretto lo stile di Gesù (non cercare il proprio interesse [ta eauton]); la seconda parte, quasi smentendo in parte la prima, accetta che i discepoli cerchino il proprio vantaggio ma, oltre a questo, devono cercare anche quello degli altri [kai ta eteron]. La forma più coerente dell’invito avrebbe dovuto essere espressa in questo modo: ciascuno non cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri. Con l’aggiunta della congiunzione “kai”, ossia “ma anche”, l’apostolo unisce l’ideale con il reale. Esiste un ottimo da perseguire (cf 1 Cor 13,5), e un minimo da evitare: «Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!» (Gal 5,14-15). 

Paolo attesta che sono pochi quelli che lo imitano, ad eccezione di Timoteo: «Non ho nessuno che condivida come lui [Timoteo] i miei sentimenti e prenda sinceramente a cuore ciò che vi riguarda: tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (2,21).

Nel corso della lettera, egli mostra le scelte concrete da lui messe in opera. Un momento nevralgico  è costituito dal sentimento che lo pervade mentre scrive. L’apostolo si trova in carcere (ad Efeso?). La sua esistenza si svolge nella precarietà. Ha bisogno del soccorso dei Filippesi che si fa aspettare. È in attesa della sentenza che verrà pronunciata dal magistrato romano: assoluzione o condanna a morte (per decapitazione)? A questo punto, sorge un dissidio nel suo cuore. 

«Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede» (Fil 1,23-25). È preso da due desideri intensi che quasi l’opprimono (synechomai). Da una parte spera che si realizzi quanto desidera per ottenere il suo vantaggio: sciogliere «la corda che tiene vincolata la nave al molo (analysai)» e raggiungere Cristo; dall’altra desidera che si attui ciò che sperano i suoi fedeli in vista del loro vantaggio, ossia che egli venga assolto e ritorni presso di loro. Infine, fa prevalere ciò che avvantaggia i suoi fedeli. La sua aspirazione più forte, la sua “epitymia”, sarebbe quella di trovarsi con Cristo, e questa soluzione è quella che preferirebbe senza alcun dubbio. Tuttavia si orienta verso il vantaggio dei fratelli. 

Da notare: non dice che rimarrà nel corpo (come viene tradotto) ma nella “carne”. Rimanere nel corpo potrebbe andare incontro ad una vita felice ma rimanere nella carne significa continuare ad esporsi ad una esistenza travagliata. Qui Paolo sta mostrando come imita Gesù: questi si trovava in una forma di vita esente da travagli ma, andando contro se stesso, volle farsi carne. «Di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce» (Eb 12,2). Paolo si trova già nella carne ma rinuncia ad una vita felice e vuole continuare a vivere nel travaglio. Cristo ha scelto la discesa e Paolo rinuncia all’ascesa. Nonostante l’apparente opposizione dei due movimenti, la direzione è identica: preferire rimanere nella carne. 

La regola di Paolo è stata seguita dagli uomini dello Spirito lungo la storia della Chiesa. È come se esistesse un sinodo permanente, che oltrepassa i secoli e i luoghi, convocato dallo Spirito, che raduna tutti coloro che sono animati da spirito evangelico e resistono fino al sangue nella lotta contro il peccato (Eb 12,3-4). Vediamo alcuni casi. 

Guglielmo di saint Thierry (1085-1148) insegna che la comunione con Dio è l'unica vera sorgente di felicità per l'uomo. Tuttavia questa aspirazione non distrae affatto il cristiano dal suo impegno a favore della terra. A creare gioia è il fatto di amare; più precisamente di essere, per quanto possibile all'uomo, ciò che Dio è: amore disinteressato, fedeltà a tutta prova, accondiscendenza misericordiosa. 

Il contemplativo, condotto da un sentimento d'amore totale, riesce ad intuire, a leggere sul volto di Dio i pensieri e i desideri che lo riguardano. Questo non significa che egli deve sviluppare delle considerazioni astratte, ma discernere la propria missione. Contemplativo è, allora, colui che comprende con chiarezza il volere di Dio su di sé e che poi vi si conforma in totale fedeltà. «La <carità> trova dolce rivolgere sempre <lo sguardo> verso quel volto e, come su un libro di vita, leggervi le leggi della vita <adatte> per sé, e comprenderle, illuminando la fede, consolidandola speranza e risvegliando la carità» (Natura e valore dell’amore, 27). 

Il fatto di gustare Dio fa sgorgare nell'amante il desiderio di partecipare all'amore che lo riempie di gioia stupita. L'anima sapiente, gustando solamente Dio, «spoglia l'uomo dell'uomo» (Natura e valore dell’amore, 50), ossia, mentre ammira l'amore di Dio, lo  assimila e, di conseguenza, elimina da sé ogni traccia di meschinità che si oppone ad esso. 

Se questo è il sentire di Guglielmo, non stupisce che egli, a sua volta, condivida e faccia sua la scelta già compiuta da Paolo: «Anche se la vita di Paolo si svolgeva tutta nei cieli, egli non si negava ogni volta che era necessario stare accanto agli uomini sulla terra», osserva Guglielmo (Natura e valore dell’amore, 26). 

La testimonianza più preziosa ci viene offerta da Riccardo di San Vittore (1110-1173). 

L'uomo viene paragonato ad un pezzo di ferro che deve perdere la durezza ed essere reso malleabile nelle mani di Dio. Il ferro ha bisogno di percorrere diverse fasi di trasformazione e di lavorazione: riscaldarsi, arroventarsi, liquefarsi. Ora, tutte le esperienze spirituali gratificanti sono tutte modalità con Dio cerca di riscaldare e arroventare il cuore dell'uomo che, al principio appare rigido come un pezzo di ferro. Alla fine, però, esso si liquefa per assumere la forma, ossia la missione, assegnatagli da Dio. «Come i fonditori, dopo aver liquefatto i metalli e preparato gli stampi, modellano come vogliono qualsiasi figura [...], così l'anima in questo stato si adatta facilmente a qualsiasi cenno della volontà divina, anzi, per un desiderio spontaneo, si dispone ad ogni sua decisione e piega ogni sua volontà all'approvazione di Dio» (I quattro gradi della violenta carità, 42). Solo dopo aver vissuto questa liquefazione, l'uomo diventa capace di assomigliare a Dio. Ogni grado mistico non è fine a se stesso ma prepara il trasferimento della stessa carità di Dio nel cuore dell'uomo, secondo il messaggio: «Siate gli imitatori di Dio come figli amatissimi e vivete nell'amore come anche Cristo vi ha amato e ha sacrificato se stesso per voi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave profumo» (Ef 5,1-2). 

Riccardo, perciò, evoca il dissidio vissuto da s. Paolo - stare con Cristo o rimanere nella carne per amore degli uomini? -; condivide interamente la scelta già compiuta dall'apostolo e ripensa con ammirazione a Mosé che rifiuta di essere accolto da Dio da solo mentre il popolo viene destinato alla rovina (Es 32, 32) (I quattro gradi…, 44). 

In conclusione, ciò che conduce la persona umana allo scioglimento in Dio nella gioia piena dell'unione è anche la condizione che permette all'amante divino di scorrere facilmente verso il basso (facile ad inferiora currendo), nella piena disponibilità alla solidarietà più impegnativa. 

In quest’epoca, grazie alla riflessione di Guglielo e di Riccardo, viene elaborata la definizione più matura della contemplazione cristiana. 

Il valore dell’apporto dato da questi due teologi mistici, lo cogliamo operando un confronto con Eckhart (1260-1327). Anche Eckhart adopera l’immagine dell’uomo che rimane nel fuoco, questa volta a somiglianza di un legno. «Il desiderio di Dio è anche di donarsi completamente a noi. Accade lo stesso quando il fuoco vuole attirare il legno verso di sé e introdursi in esso: all'inizio trova che il legno è dissimile da sé, e per questo ci vuole del tempo. Prima rende il legno caldo e bruciante, e questo fuma e scricchiola, perché è differente dal fuoco. Poi, più il legno arde, più diviene calmo e tranquillo; più è simile al fuoco e più si acquieta, fino a divenire in se stesso completamente fuoco» (Sermoni, 11, 3, p. 164). 

Egli accoglie dal neoplatonismo l’idea che l’uomo può diventare fuoco, deificarsi. L’immagine del legno che s’acquieta corrisponde alle tappe più elevate conosciute da Riccardo ma qui manca l’ultima tappa, quella discesa. Per il mistico neoplatonico l’evento massimo sta nella fusione con l’Uno. Una uscita da questo stato è innimaginabile. 

Un’ultima testimonianza. Teresa d’Avila espone l’insieme degli effetti di chi è entrato nella «settima stanza». L’evento capitale consiste in questo:  la «piccola farfalla è morta nella grande letizia di aver finalmente trovato riposo; in lei vive Cristo = Ahora, pues, decimos que esta mariposica ya murió, con grandissima alegría de haber hallado reposo, y que vive en ella Cristo» (Castillo Interior, Septimas Moradas, 3,1). 

Da questo evento scaturiscono diversi effetti tra i quali evidenzio il seguente: «Già avete visto le fatiche patite da queste anime per morire e poter godere di nostro Signore. Ora è tanto grande il loro anelito di servirlo, che non solo non vogliono più morire, ma vivere moltissimi anni soffrendo le pene più intense possibili perché il Signore sia maggiormente lodato, anche se di poco. Pur sapendo, come sanno, che la dipartita dell'anima dal corpo porta ad un godimento maggiore di Dio, non ci fanno caso… Scoprono la loro gloria nel poter servire in qualcosa il crocifisso. Talvolta, senza pensarlo, tornano i desideri di godere di Dio e di fuggire questo esilio … ma poi presto tornano al loro stato e offrono [al Signore] il medesimo desiderio di vivere, l’offerta più dolorosa che possano fargli» (VII,3,6-7). 

La testimonianza di Paolo ci aiuta a comprendere quella di Teresa ma ques’ultima ci aiuta a comprendere Paolo: vivere nella carne si precisa come servire il Crocifisso; accettare di continuare a vivere, è l’offerta più dolorosa che l’uomo possa fare al Signore (una ofrenda la más costosa para ella que le puede dar). Conoscere la Scrittura soltanto con l’esegesi, è uguale all’ignorare la Scrittura. Essa si comprende bene nel vissuto degli uomini dello Spirito. 

La regola di Paolo e dei santi sta, quindi, nell’imitazione di Gesù: conseguire il culmine della carità oppure, detto altrimenti, cercare il vantaggio dell’altro fino a perdere se stessi. 

giovedì 18 gennaio 2024

Beniamino Minore

 RICCARDO DI SAN VITTORE

La preparazione dell’anima alla contemplazione o Beniamino minore

Riccardo (R.) ha tracciato una guida spirituale per coloro che desiderano giungere alla contemplazione di Dio. Contemplazione significa santità, ottenimento della perfezione cristiana, maturazione piena dell’amore, unione profonda con il Signore. 

Per delineare questa guida, R. ha condotto una lettura allegorica degli eventi accaduti alla famiglia del patriarca Giacobbe, raccontati nel libro della Genesi. Nonostante la fragilità di questo approccio esegetico, diffuso nel mondo medievale, egli ha esposto un programma di grande spessore che ha affascinato molti asceti e che ha molto da suggerire anche agli uomini d’oggi. 

Rachele e Lia

Rachele, la moglie desiderata e preferita da Giacobbe, rappresenta la beatitudine della contemplazione, cioè dell’unione profonda con Dio. Questa esperienza riceve il nome di Sapienza e quindi, di conseguenza, Rachele rappresenta l’amore per la sapienza. Ella vede il Principio. È questo il significato del suo nome: «Che cosa di più dolce, può esservi dal volgere l'occhio della mente alla contemplazione della somma Sapienza? Per tanto quanto la ragione si dilata per contemplarla, a buon diritto è onorata col nome di Rachele» (III,96). 

Lia, invece, è simbolo dell’impegno di conversione, è il desiderio di rettitudine (II,95). L’esercizio di conversione o di purificazione è una condizione previa imprescindibile per ottenere la sapienza. 

«Rachele, dottrina di verità, Lia disciplina di virtù. Rachele, amore di sapienza, Lia desiderio di giustizia. Sappiamo che Giacobbe per sette anni si è sottomesso ad un duro servizio per Rachele e tuttavia i giorni gli parvero pochi per la grandezza dell'amore. Di che ti meravigli? La grandezza dell'amore era in proporzione alla grande bellezza» (I,94). 

Lia non è amata dagli uomini quanto Rachele, perché mentre quest’ultima richiama la gioia della contemplazione di Dio, la prima ricorda l’impegno per diventare persone rette, per acquisire la santità, il quale esige una certa fatica: 

«La perfetta giustizia comanda di amare i nemici, di abbandonare ogni cosa propria, di sopportare pazientemente i mali, di non cercare la gloria. Che cosa, da chi ama il mondo, è ritenuto più stolto, che cosa più faticoso? Ne viene che da costoro Lia è ritenuta non bella è considerata faticosa. Il nome Lia significa infatti lavoro e fatica» (II,95). 

L’osservanza dei comandamenti sembra piuttosto gravosa e molti non vogliono affrontare tale fatica. Più precisamente, «tutti vogliono essere giusti, ma non possono essere giusti. Anzi tutti avrebbero potuto essere giusti, se avessero voluto esserlo perfettamente» (II,95). Tuttavia, «amare perfettamente la giustizia, è già essere giusti […] Quanto più avrai amato la giustizia, tanto più sarai giusto» (ivi). Al contrario, è possibile amare la sapienza (la contemplazione), senza parteciparvi per esperienza. 

R. riprende categorie già tradizionali. Agostino aveva interpretato Rachele come simbolo della contemplazione, il cui nome, a suo parere, significa visione del Principio e aveva visto in Lia, l’Affaticata, il principio dell’azione (Il consenso degli Evangelisti 1,5,8; Contro Fausto, 22,52). Questa dottrina era stata ripresa da Gregorio Magno: «L’una e l'altra vita, come è stato detto anche prima di noi, sono state simboleggiate dalle due donne di Giacobbe, Lia e Rachele. Lia significa laboriosa, Rachele, principio visto. La vita attiva è laboriosa, perché si affatica nell'azione, quella contemplativa invece aspira unicamente a vedere il Principio, cioè colui che dice: Io sono il principio per questo vi parlo» (Omelie su Ezechiele II,II,10). 

Gregorio aveva già parlato, a sua volta, della preferenza degli uomini verso Rachele, cioè la vita contemplativa (omnis qui ad Dominum convertitur, contemplativam vitam desiderat) ma considerava necessario che l’aspirante prima compisse il bene che era in suo potere (ivi). 

Lia, l’affetto e Rachele, la ragione

R. approfondisce le caratteristiche particolari di Lia e Rachele, la prima è in relazione con l’affetto; Rachele con la ragione. «Due forze sono date ad ogni spirito razionale dal Padre della luce, da cui proviene ogni dono perfetto. Una è la ragione, l'altra è l'affetto: la ragione con cui comprendiamo, l'affetto per cui amiamo, la ragione per la verità, l'affetto per la virtù» (III,96). 

Quando la ragione si applica in modo positivo, suggerisce i buoni propositi e mostra la luce della verità. L’affetto, a sua volta, fa scaturire i santi desideri ed invita a conformarsi alla rettitudine. Tuttavia, accade che razionalità e affettività vengano esercitate in modo errato. L’affetto, soprattutto, può far deviare dal bene e non senza grande fatica dell'animo, esso si volge dalle cose illecite alle lecite.

L’affetto imitare Lia quando si conforma alla giustizia; la ragione mostra di essere Rachele quando «viene rischiarata dalla luce della somma e vera esperienza» (III,96). 

Pur desiderando l’amplesso con Rachele, cioè godere della la contemplazione, il principiante scopre di poter soltanto relazionarsi con Lia. L’esperienza ci fa comprendere la nostra condizione. 

Ognuno può verificare questa triste verità osservando, ad esempio, che cosa gli accada nella pratica della “lectio divina”, cioè nella lettura orante della Sacra Scrittura. Il lettore vorrebbe scoprire significati profondi, sperimentare sentimenti elevati, ma, mentre lo slancio lo spinge in alto, si scontra con la sua povertà (IV,97). Mentre, trascinato dal desiderio, il lettore crede di poter unirsi a Rachele, in realtà si trova tra le braccia di Lia. «Fino a quando non saremo in grado di penetrare le cose sublimi, non troviamo ancora Rachele» (IV,97). La Sacra Scrittura denuncia la nostra indegnità. Il primo effetto della lettura non sta nell’elevazione a contenuti sublimi, ma nel far scaturire in noi la compunzione (IV,98). 

In modo analogo s’era espresso Isidoro di Siviglia: «Tutti quelli che, nella loro pratica di vita, si allontanano dai precetti di Dio ogni volta che hanno avuto la possibilità di leggere o di ascoltare i precetti di Dio, si percepiscono rimproverati nel loro intimo e ne provano turbamento, perché si sentono ricordare ciò che essi non fanno e, sulla testimonianza della loro coscienza, avvertono dentro di sé un'accusa» (Sentenze III,VIII,8).

Più in generale, non è possibile ridurre la pratica della lectio alla semplice lettura. Già Cassiano aveva premunito nelle Conferenze: «La conoscenza non si acquista con l’assiduità della lettura, ma è data dalla illuminazione di Dio a chi, ogni giorno, ne nutre il desiderio» (I, III,14). Isidoro di Siviglia attesta: «L’insegnamento, se non sopravviene la grazia in aiuto, anche se viene infusa attraverso le orecchie, non discende mai fino al cuore… La parola di Dio arriva agli ultimi recessi del cuore, quando la grazia di Dio stimola la mente all’interno, affinché capisca» (Sentenze III,X,1). 

Le ancelle, Zelfa e Bala

Rachele e Lia hanno ciascuna una propria ancella. Lia, l’affetto, ha bisogno della sensibilità, dell’uso dei cinque sensi; a sua volta, la ragione, per realizzarsi, ha bisogno dell’immaginazione. L’uso dei sensi e l’immaginazione sono energie positive ma possono essere usate in modo sbagliato. 

La sensibilità, rappresentata dall’ancella Zelfa, offre alla persona umana il nutrimento piacevole delle cose del mondo e invita al loro uso ma anche la tenta e spinge la sua padrona a dare attenzione esclusiva alle realtà passeggere. Lia, perciò, condizionata dalla sua ancella, appare piuttosto miope e confusa nelle scelte concrete di vita: «Ora ama le cose che devono essere disprezzate [considerate secondarie], ora disprezza le cose che devono essere amate» (III,100). 

Rachele, cioè la ragione, ha bisogno dell’immaginazione. La ragione non salirebbe mai alla conoscenza delle cose invisibili se la sua ancella, Bala, cioè l’immaginazione, non le rappresentasse la forma delle cose visibili. Infatti attraverso le cose visibili si eleva alla conoscenza delle cose invisibili tutte le volte che coglie una certa somiglianza tra le une e le altre. Tuttavia anch’essa può farsi dominare dal contatto con la realtà sensibile e rendere più difficile l’aspirazione per i beni invisibili. 

Ecco due casi nei quali il servizio virtuale dell’ancella, si tramuta in disservizio: «Il vino, di cui Zelfa ha sete, è la gioia del piacere. Quanto più beve, tanto più ha sete: infatti per saziare il desiderio della sensibilità, non basta il mondo intero. Poiché dunque per quanto beva resta sempre con la bocca aperta per bere, giustamente è chiamata Zelfa, che significa bocca aperta, la cui sete mai è estinta» (VI,100). 

Chi vuole darsi alla contemplazione (imitando Rachele) viene travolto dalla forza dell’immaginazione. A stento riesce a frenarla; anzi spesso non ne è capace per nulla: «Spesso infatti quando recitiamo i salmi o preghiamo, vogliamo allontanare le fantasie del pensiero o qualunque immagine di cose dagli occhi del cuore, ma non ci riusciamo. Poiché dunque controvoglia soffriamo ogni giorno di pensieri in tal modo assordanti, quale e quanta sia la loquacità di Bala impariamo in una quotidiana esperienza. Qualunque cosa abbiamo visto o udito, qualunque cosa abbiamo fatto o detto, la richiama alla memoria, e ciò che essa già ha presentato alla memoria, non cessa di ripresentarlo sempre di nuovo» (VI,100). 

Riordiniamo le nozioni espresse fino a questo punto. L’uomo che s’incammina verso Dio è una realtà complessa. È dotato di affetto e di ragione. Ama i beni della vita ma è capace di desiderare il godimento di beni più grandi, quali si trovano nella comunione profonda con Dio. Scopre in sé due forze che rendono possibile questo questo percorso: l’affetto e la ragione. Tali energie devono convergere verso lo stesso traguardo. L’esperienza del mondo terreno è necessaria sia per la sensibilità, come per la ragione, ma è un’esperienza problematica: gli uomini tendono ad affezionarsi ai beni terreni in modo esclusivo e totale oppure, anche quando si orientano ai beni spirituali, vengono dominati e distratti dal ricordo di quelli sensibili. Sensi ed immaginazione possono, oltre che servire la persona, distrarla dal suo vero compito che è quello di aderire ai beni celesti. Prima di accedere alla contemplazione, cioè alla santità, alla comunione profonda con Dio, il credente deve purificarsi dal male e imparare ad essere giusto. 

I figli di Giacobbe

Il credente che vuole costruire se stesso deve riconoscere di essere un campo attraversato da forti energie, le quali, se di per sé sono un aiuto opportuno ed indispensabile, usate male, possono divenire perfino devastanti. L’uomo deve creare un equilibrio tra le tensioni inevitabili (e in sé positive) che lo animano. 

Le energie principali della persona, chiamate altrimenti passioni, sono sette; sono specificazioni di un’unica aspirazione che consiste nella volontà di vivere e svilupparsi: speranza, timore, gioia, dolore, odio, amore, pudore. 

Esse possono essere proficue se ordinate nel giusto equilibrio o, al contrario, devastanti se vissute in modo disordinato. Sono ordinate quando si conformano a ciò che deve essere; moderate quando sono tanto grandi, quanto devono essere (VII,101). In parole più semplici, sono positive quando alimentano un comportamento virtuoso ma diventano distruttive quando danno origine ad uno stile di vita dominato dal vizio.

Si esercitano nella realtà spirituale e nella vita fisica. R. offre degli esempi: l’uomo conosce il sentimento del timore il quale appare, positivamente, come protezione (precauzione di fronte ad un pericolo) o, negativamente, come incubo paralizzante. Nel primo caso il timore, è uno stimolo positivo, nel secondo è nefasto. L’amore è di per sé, dal punto di vista virtuale, un impulso ottimo, ma la sua bontà reale, pratica, dipende alla realtà verso cui si dirige. L’amore può essere un’energia che ci eleva fino a Dio, oppure attaccamento egoistico a se stessi. 

L’uomo deve generare e partorire atti virtuosi e «la virtù non è altro che l’ordinato e moderato affetto dell’animo» (VII,101). La disciplina spirituale, la preparazione alla contemplazione, consiste nell’imparare a discernere i nostri moti interiori e a riordinarli seguendo un progetto di crescita umana. 

Nell’interpretazione allegorica della Sacra Scrittura, gli affetti ordinati sono rappresentati dai figli di Giacobbe e così il credente deve incarnare, di volta in volta, le qualità particolari di questi figli. 

Ruben, Simeone, Levi, Giuda

Il racconto della Genesi riferisce che i primi figli che Lia partorì al patriarca furono quattro: Ruben, Simeone, Levi e Giuda (Gen 29,31-35). 

Ruben, “figlio della visione”, incarna la figura della persona che si libera dalla cecità che lo ha afflitto da lungo tempo. È la persona che, muovendo dall’incapacità di riconoscersi nella propria povertà, diventa capace di vedere e riconoscere le colpe commesse. Chi desidera personificare tale figura, «faccia attenzione alle colpe commesse. Non solo, frequentemente ma anche diligentemente consideri la gravità della sua colpa, e la grandezza di colui che giudica. […] In certo modo è cieco chi non teme di peccare, chi non prevede i mali futuri, chi non arrossisce della sua malvagità, chi non teme la potestà Divina. Ma se comincerà a vedere tutto ciò, comincerà parimenti a temere, e quanto più perfettamente conoscerà, tanto più forte temerà» (VIII,102). 

Ruben ammette la gravità della colpa e conta sulla grandezza del Signore, l’unico che può giudicare. Da qui nasce quel timore che è l’inizio della sapienza (VIII,102). 

Il dolore, che sgorga dalla coscienza del male commesso, non è un sentimento che avvilisce e schiaccia. Chi incarna Ruben partecipa subito anche del sollievo provato da Simeone. Questi, “colui che viene esaudito”, conosce il conforto e la speranza. Rappresenta il penitente che, avendo riconosciuto le colpe commesse, riceve, senza indugio, il perdono richiesto nella preghiera: «Chi veramente si pente, chi con sincerità s’addolora, riceve il perdono senza dubbio e senza indugio» (IX,103). 

Levi conferma e dilata l’esperienza di Simeone. Egli, il terzo figlio, denominato “l’aggiunto”, richiama il conforto dello Spirito che si aggiunge in fretta al penitente addolorato e perdonato: «È fuori di alcun dubbio che, quanto più frequentemente e profondamente qualcuno dentro l'animo si addolora della sua colpa, con tanta maggiore certezza e sicurezza ottiene il perdono… Di qui viene che lo Spirito Santo è chiamato consolatore, poiché consola amorevole con amorevole sollecitudine l'anima afflitta. Con frequenza la visita, e la riconduce pienamente alla fiducia del perdono, anche se erra, se soltanto piange e condanna il suo peccato» (X,104). 

L’esperienza di Levi consiste soprattutto in questo: «Da questo momento comincia a crearsi tra Dio e l'anima una certa familiarità e a cementarsi un vincolo di amicizia, perché essa si sente più spesso visitata da lui, ed e consolata dalla sua venuta non solo per un attimo, anzi alcune volte si riempie di una gioia ineffabile» (XI, 104). 

A Giuda, il quarto figlio, viene dato un rilievo maggiore rispetto agli altri tre. Egli consolida l’esperienza di Levi in quanto viene pervaso dall’ammirazione e dal fascino della misericordia di Dio e perciò «comincia ad amare ardentemente Colui che dapprima temeva molto» (XI,105). Diventa, così, colui che confessa. Prima di tutto confessa, celebra le lodi del Signore e, in secondo piano, confessa la propria iniquità. Giuda confessa spinto dal suo amore.

La lode scaturisce dall’ammirazione (o approvazione) in cui si profonde il credente, il quale, esprimendosi in questo atto, rinvigorisce in sé l’amore per Dio. Giuda ripete tra sé e sé: «Quanto è buono, benigno, soave, dolce [il Signore!] Quanto deve essere amato, abbracciato, quanto è tutto ammirabile, quanto è tutto desiderabile! Beato chi Egli ama e giudica degno del suo amore! Me felice se posso godere di lui; me Beato se posso possederlo» (XII,105-106). 

Non confessa soltanto col cuore, ma «desidera raccomandare agli altri e accenderli all’amore per Lui» (XII,106). 

Era tradizionale racchiudere nel verbo confessare sia la proclamazione della lode, sia l’ammissione della colpa. Come avviene la relazione tra questi due sentimenti che non sembrano sulle prime così affini? R. offre questa spiegazione: il credente «che ama veramente, volentieri fa qualsiasi cosa per l’onore di Dio». Ora, non soltanto la profusione dei doni testimonia la bontà di Dio verso di noi ma, questa paradossalmente, viene confermata dalla sua tolleranza verso malvagità degli uomini. «Se infatti è grande cosa donare molto e gratuitamente a coloro che non meritano nulla, quale e quanto grande cosa sarà dare bene a chi merita male? Quale pietà, che nessuna nostra empietà può superare!» (XII,106). 

Esposto il significato di Giuda, R. riassume il cammino di conversione annunciato dai primi quattro figli di Giacobbe, ottenuti tramite Lia. Ella può generare soltanto questi quattro figli: «Il primo il timore della pena, il secondo il dolore della penitenza, il terzo la sapienza del perdono, il quarto l’amore della giustizia. Dopo questi figli, non genera più. Stima che possa bastarle quando pensa di amare in verità delle cose veramente buone» (XI,107). In termini più semplici, il cammino verso Dio inizia dal ravvedimento. Si consolida nell’esperienza del perdono e si ravviva nell’ammirazione della bontà divina. Avendo scoperto la misericordia del Signore, il credente comincia ad amarlo. L’amore fornisce l’energia del movimento. Superata la prima tappa, si comincia ad avanzare. 

I figli di Rachele: Dan e Neftali

Seguendo il racconto della Genesi, l’attenzione passa da Lia a Rachele e sui figli di quest’ultima. Rachele, non vuole rimanere sterile ma essere feconda anch’essa e la sua fecondità corrisponde al desiderio di sperimentare le realtà invisibili intraviste. 

Il suo desiderio viene innescato dalla nascita di Giuda, che le ricorda il valore dell’amore ordinato, ossia l’amore per le cose celesti, l’amore per Dio sommo bene. «Dove è l'amore, qui è l'occhio; volentieri guardiamo chi molto amiamo. Non c'è dubbio che chi ha potuto amare le cose invisibili vuole immediatamente conoscerle e vederle con intelligenza, e quanto più cresce Giuda (cioé l'amore) tanto più arde in Rachele il desiderio di generare, il desiderio di conoscere» (XIII,108).

Fuori metafora, il credente che ha conosciuto il pentimento e il perdono, ossia che ha verificato in concreto l’amore di Dio verso di lui, ora, in una nuova fase, è conquistato dall’amore per il Signore che lo ha preceduto nella benevolenza gratuita. Il cammino spirituale esce dalla fase negativa legata al peccato, e comincia ad addentrarsi nell’esperienza positiva dell’amore. 

Inoltrarsi e avanzare nell’amore, tuttavia, non è cosa facile. Rachele, cioè ogni credente, si eleva con grande difficoltà dalle cose sensibili a quelle invisibili. Può farlo elevandosi per mezzo di una bellezza colta dall’immaginazione (XIV, 108-109) e le Scritture stesse, adattandosi alla nostra debolezza, parla dell’invisibile mediante cose visibili: «Da qui viene che ora promettono una terra latte e miele, parlano di fiori e di profumi. Leggete l'Apocalisse di Giovanni e troverete la Gerusalemme Celeste descritta in modo vario, adorna di oro e d'argento, di gemme ed ogni altra pietra preziosa. In tutte queste cose Bala ha ciò per mezzo di cui servire la sua padrona, dal momento che le rappresenta una immagine di tutte queste cose dove e quando vuole secondo il suo desiderio» (XV, 109-110). 

Il pensiero razionale si eleva al mondo celeste servendosi di immagini attinte al mondo terreno dei sensi. Ora R. cerca di illustrare meglio il rapporto tra ragione stessa (Rachele) e l’immaginazione (Bala, serva di Rachele). 

Parla così dei due figli di Rachele, ottenuti però tramite il servizio della schiava Bala, che sono Dan e Neftali (XVIII,1139. 

Chi sono i fedeli che imitano Dan? Quando attuano tale imitazione? «Quando leggono nelle Sacre Scritture inferno, fuoco, tenebre esteriori, non ritengono che ciò sia detto per immagine, anzi non dubitano che ciò esista veramente in qualche luogo»(XVIII,113). Dan rimane chiuso all’interno d’un realismo estremo, nell’ambito d’una immaginazione appena, appena sfiorata dalla razionalità. Non cerca il significato spirituale di queste immagini e le scambia per pura realtà 

Al contrario, Neftali, pur prendendo le mosse dal mondo materiale, tramite l’immaginazione, unisce alla razionalità una comprensione superiore, detta intelligenza. In parole più semplici non prende alla lettera le descrizioni del mondo celeste condotte con immagini materiali (pietre preziose, porte gemmate) ma vede in esse soltanto un simbolo d’una realtà ben più profonda (XVIII,113-114). 

Dan non svolge, tuttavia, un ruolo soltanto negativo ma aiuta a discernere pensieri e desideri. È in grado di far scorgere gli elementi maligni presenti anche nel cuore di persone rette, operando una vera indagine. «Per mezzo di Dan intendiamo manifestamente, condanniamo, freniamo i turpi pensieri» (XX,115). Rende consapevoli anche dei pensieri vani ed inutili. Anzi «spesso accade che, disposti nell’orazione, noi tolleriamo certe fantasie che entrano nel cuore in modo molto inopportuno» (XX,115). Quindi, «tutte le volte che veniamo presi da qualcosa di falso, che vogliamo qualcosa di ingiusto, che facciamo qualcosa di disordinato, subito ci rendiamo conto di dover essere ripresi» (XX,116). Molti sono scrupolosi nel giudicare le loro azioni, mentre si mostrano superficiali nel reprimere i loro pensieri. Dan, aiutandoci a scorgere noi stessi con verità, consolida il servizio già intrapreso da Ruben. Ruben rappresentava il peccatore incallito che, abbandonando la tenebra da cui era avvolto, si apriva finalmente alla luce. Dan richiama, piuttosto, il compito di purificazione a cui deve attendere anche chi ha già intrapreso una vita retta: «Deve essere, prima di tutti gli altri, vigile e vigoroso nel suo giudizio. Troverà sempre qualcosa che deve essere esaminato, qualcosa deve essere giustamente ripreso. Mai posso approvare il male, mai posso consentire, mai posso fare il male, se non l'ho voluto. Il male d'altronde può venire anche nel pensiero, ma sempre contro voglia. È suo compito portare subito il male in giudizio e non appena si presenta e si affaccia al pensiero, discuterlo diligentemente e, mostratolo tale condannarlo e cacciare il pensiero ingannatore con un'altra considerazione» (XXI,117)

Neftali, comunque, offre un servizio migliore poiché infiamma i desideri ed accende l’animo per farlo aspirare ai beni divini (XXII,117): «Ad esempio, vista spesso quale sia la luminosità del sole, cioè di una luce corporea, considera quanto grande sarà la luce spirituale, se è tanto grande e così meravigliosa quella corporale. Quanto grande sarà infatti quella luce che sarà comune a noi e agli 'angeli, se è così grande questa che abbiamo in comune con le bestie! Quale sarà quella luce futura dei beati, se tale è questa presente luce dei miseri! Inoltre egli addita la moltitudine dei beni invisibili sulla base della moltitudine dei beni visibili. Se dunque sono tante le delizie corporee, quante saranno le delizie spirituali? Se possediamo tante cose in questo tempo, quante mai ne avremo nell'eternità? In questo modo dunque egli usa della comparazione! Usa della traslazione, quando trasferisce la descrizione delle cose visibili al significato delle cose invisibili. Ad esempio, nota che nelle Scritture si parla della luce, così come è scritto di Dio: “Colui che abita la luce inaccessibile” (1 Tm 6,16). Cerca dunque quale sia questa luce incorporea che abita la natura invisibile ed incorporea di Dio, e trova che questa luce è la stessa sapienza di Dio, poiché è luce vera. Come infatti questa luce esteriore illumina gli occhi dei corpi, così quella illumina gli occhi dei cuori. Ecco in che modo Neftali assurge, per mezzo delle qualità delle cose visibili, alla conoscenza delle cose invisibili» (XXII,118). 

R. lo paragona al cerbiatto che si solleva spesso dalla terra con i suoi salti, ma che non può sollevarsi molto in alto come farebbe un uccello: «È detto infatti cervo per la sua nella corsa (Gn 49,21), libero per il suo desiderio di correre. Il cervo è un animale veloce che può molto correre, che desidera molto correre e che è libero. A ragione Neftali è chiamato cervo libero, poiché può percorrere ampi spazi per la grazia della contemplazione e gli piace percorrerli per la dolcezza della contemplazione. In tale velocità solleva l'anima, a ciò molto esercitata, fino alle superiori altezze, ed ora la fa scendere fino al basso, ora la rapisce [...]. Bisogna notare come giustamente sia paragonato non ad un uccello del cielo, ma ad un cervo che corre. Infatti l'uccello, volando, si allontana molto dalla terra, ma il cervo, nei suoi salti, si appoggia alla terra e non se ne allontana troppo. Così non fa meraviglia che, mentre ricerca le cose invisibili per mezzo della forma delle cose visibili, compia dei salti ma non possa giungere ad un volo pieno, poiché nel momento stesso in cui si solleva verso l'alto, continua a trarre con sé ombre delle cose corporee (XXIII, 119-120). 

Gad ed Aser

Rachele ha ottenuto questi figli per via legale avendo esortato la serva Bala a congiungersi con il marito Giacobbe; sono figli legittimi, non naturali. Nel testo della Genesi, dopo queste due ultime nascite, la concorrenza tra le due mogli di Giacobbe non solo non si placa ma si intensifica. Lia imita lo stratagemma giuridico di Rachele ed anch’essa offre a Giacobbe una relazione con la sua ancella Zelfa. I figli che nasceranno saranno considerati come se fossero stati partoriti da lei. Si tratta di Gad ed Aser, i quali rappresenterebbero, stando al significato dei loro nomi, il rigore dell’astinenza e la sopportazione dell’avversità (XXV,122). In realtà l’attenzione viene posta sul risultato ottenuto tramite questi atti penitenziali. 

Gad, infatti, significa “gioioso”. La gioia deriva da questa osservazione di carattere pratico, frutto d’esperienza: «Se attraverso l’astinenza e la pazienza la carne è certamente mortificata, l’animo è di qui condotto ad una grande pace e serenità» (XXV,123). La purezza rafforza lo slancio del cuore e consolida il cammino della carità. Questa annotazione, a prescindere dall’interpretazione allegorica da cui è tratta, è molto rilevante in un cammino spirituale. 

R. presenta il risultato ottenuto da chi incarna questi due fratelli, senza operare distinzioni marcate. Infatti i loro nomi indicano lo stesso stato d’animo: Gad è l’essere nella gioia; Aser vivere la beatitudine. Insiste nel far rilevare come dalla libertà dal godimento dei beni terreni, unita alla sopportazione delle avversità, derivi un grande senso di pace. Sottolinea l’importanza della pazienza nelle avversità, ispirandosi a ciò che accade agli apostoli (At 5,41) e viene suggerito da loro (Rm 12,12). «Per Gad ed Aser intendiamo l’astinenza da ogni superfluo piacere e la pazienza in ogni dolore del corpo» (XXVI,124). 

I nemici spirituali vengono sbaragliati quando Gad ed Aser, si aiutano l’un l’altro nel sostenere la lotta. «I veri nemici dell’anima sono i piaceri della carne» (XXXIII,132). Essi vengono combattuti da Gad (il giudizio certo e chiaro della coscienza) ma Aser mostra una forza maggiore perché, non soltanto è capace, di dominare i piaceri ma soprattutto perché riesce ad affrontare tutte le sofferenze necessarie per costruire una vita virtuosa. «Attraverso Gad è estirpato il falso piacere, attraverso Aser il vano turbamento… [Essi] escludono la falsa gioia e introducono quella vera» (XXXVI, 137). 

Si sofferma, allora, a descrivere le qualità rappresentate soprattutto da Aser. Mostrandosi capace di affrontare la sofferenza, è in grado di perdonare le ingiurie ed amare i nemici. È l’uomo che vive la beatitudine annunciata da Gesù: è «beato per la fame di giustizia; beato per la passione volontaria; beato per la mansuetudine; beato per la compassionevole misericordia» (XXXIV,133). Aser, infatti, per poter essere assetato di giustizia è naturalmente misericordioso: «Questo nostro Aser, affinché sia veramente e pienamente beato, ardentemente assetato di giustizia, per essa volentieri sopporta il dolore senza ira, con naturalezza è misericordioso» (XXXIV, 133). 

Conosce la beatitudine e una profonda gioia interiore: «Abbonda della ricchezza delle consolazioni spirituali, quanto in abbondanza possiede le delizie delle gioie spirituali, le cui ricchezze non vengono diminuite dalle avversità ma piuttosto accresciute, le cui delizie nessun tormento può turbare. Quanto più duramente è oppresso dall'esterno, con tanta più letizia si gloria all'interno […] Di questo, crediamo, si cibano con gioia, e si compiacciono mirabilmente, quelli che sono veramente re, ai quali il Signore del mondo concesse il proprio corpo, e ai quali distribuì il Regno del padre» (XXXV,134). 

Sperimenta la pace di Dio che sovrasta ogni possibilità di pensarla e la dolcezza riservata da Lui a quanti l’amano. Chi ama il mondo, non può gustare questa grande dolcezza che viene da Dio. «Chi spera in beni falsi ed ingannevoli, non può trovare quale sia il vero bene. Per questo è detto: “Chi ci mostrerà i beni? ” (Sal 4,6). Infatti la manna è nascosta e, se non la si gusta, rimane sconosciuta del tutto» (XXXVI,136). 

Ecco come sintetizza l’apporto fornito da Gad e da Aser: «La mente umana non attinge la vera gioia, se non con l’astinenza e la pazienza. Se si vuole godere della verità, occorre escludere ogni falso piacere ogni vano turbamento. Chi si compiace di bassezze è indegno della gioia interiore [Gad]; chi è turbato da vano timore, non può fruire della dolcezza spirituale [Aser]» (XXXVI,136). 

Issacar e Zabulon

R. aveva già fatto un breve riferimento riferimento alla nascita di Issachar e, ora, dopo aver parlato della gioia interiore che invade l’intimità dell’uomo quando rinuncia ai piaceri ed affronta la sofferenza per Dio, può presentare il ruolo di questo nuovo figlio di Giacobbe. Issachar significa ricompensa. Egli rappresenta il guadagno ottenuto dalle fatiche affrontate dai fratelli che lo hanno preceduto. «Che cosa aspettiamo con tanta perseveranza se non la vera gioia?» (XXXVI,137). Essa è una anticipazione del gaudio che verrà elargito nella vita eterna. 

«La Sacra Scrittura chiama questo gusto dell'intima dolcezza ora gusto, ora ebbrezza, per mostrare quanto sia piccola o grande, piccola certamente in paragone alla futura dolcezza, ma grande in paragone a questa mondana felicità. Infatti il piacere in questa vita degli uomini che vivono secondo lo spirito, se paragonato alle gioie della vita futura, per quanto grande sia, lo si trova piccolo; tuttavia in paragone ad esso ogni gioia di piaceri esterni è nulla. O mirabile dolcezza, o dolcezza tanto grande, o dolcezza tanto piccola! Grande perché? Perché supera ogni gioia mondana. Piccola perché? Perché della sua pienezza non ne assapori che una goccia. Di tanto mare di felicità ne cogli certamente ben poco, tuttavia: quando la infondi nella mente, essa si inebria completamente. A buon diritto si assapora perché è poco di tanto; e tuttavia ci si inebria, perché la mente trascende se stessa. Pertanto è gusto e al tempo stesso può dirsi ebbrezza: Gustate — dice il Profeta — e vedete quanto è buono il Signore (SaL. 33,9). E l'Apostolo Pietro: Tuttavia gustate poiché è dolce il Signore (1 Pt 2,3). E ancora dice il Profeta circa l'ebbrezza: Visitasti la terra e la inebriasti (Sal. 66). Ascolta come l'uomo sia ebbro di tale ebbrezza e ignori completamente che cosa si faccia di lui: Se nel corpo, se fuori dal corpo, io non so, Dio sa (2 Cor. 12,2). In che modo credi fosse inebriato, come credi avesse dimenticato il mondo chi non sapeva più di se stesso?» (XXXVI,138). 

«Non meritano certamente di inebriarsi di tale dolcezza coloro che ancora sono sbattuti dalle passioni dei desideri carnali. Si legge: Visitasti la terra e la inebriasti (Sal. 64,10). Quale credi sia il motivo per cui si dice che il Signore inebriò la sola terra? Perché non anche il mare? Quando la mente, agitata da vari desideri, è ancora tormentata dagli interessi mondani, non è condotta a quella gioia interna e non è dissetata da quel torrente di gioia, ne ancor meno ne è inebriata. Sappiamo che il mare sempre fluttua, ma la terra sta ferma in eterno. Così anche gli altri elementi sono sempre in moto, ed, essendo ferma solo la terra, non possono rimanere immobili. Che cosa pertanto dalla terra dobbiamo apprendere se non la fermezza del cuore?» (XXXVIII,138). 

Zabulon è chiamato “abitacolo di fortezza” (XL,144). L’esperienza della gioia interiore, induce il credente, colui che impersona in sé la figura di Zabulon, non solo a staccarsi dal peccato ma anche ad inorridire di fronte al male, sia di quello che scopre in sé, sia quello che ravvisa negli altri uomini. È imitatore di Mosé, l’uomo più mite il quale «dopo un digiuno di quaranta giorni, mirabilmente rinvigorito dalle delizie spirituali, bruciò subito di zelo contro chi fabbricava e adorava idoli» (XL,144). «Infierendo piamente colpisce i vizi degli uomini, e non perdonando, quasi meglio perdona» (XL,144). 

È Zabulon chi denucia il peccato conservando, però, un sentimento di grande misericordia verso il peccatore. Egli è abitacolo di fortezza in quanto non soltanto protegge con l’insegnamento i deboli, ma anche i peccatori. «Deve essere più pronto, anzi, sempre preparato a sopportare il male piuttosto che a farlo. E perché deve sdegnarsi talvolta con chi è a lui soggetto per qualche colpa, certamente si addolora di più quando è costretto a rimproverarlo, che quando è costretto a infliggere qualche sofferenza per difenderlo» (XLII,146). 

Il primo grande errore consiste nella severità eccessiva e sprezzante, ma il vero Zabulon «non cerca la propria soddisfazione, ma la loro [quella degli erranti], affinché la condanna dei colpevoli sia per la loro utilità, non per vendetta» (XLI,145). Non deve lasciarsi prendere dal furore, confondendo questo per amore della rettitudine: «Ciò che in verità fanno per odio di uomini, credono o simulano di farlo per odio dei vizi» (XLI, 145). 

R. denuncia, anche, l’atteggiamento contrario, ossia la remissività di fronte al male. «Alcuni, quasi per umiltà, non osano rimproverare i delinquenti; altri non ardiscono sgridare i peccatori, perché non sembri che non rispettino l’amore tra i fratelli. Poiché non vogliono essere infiammati di zelo per il Signore, fingono che ciò sia proprio della virtù» (XLI,144). 

Zabulon abita sulla riva del mare (Cf Gen 49,13). Questa è la sua attitudine normale. Rimane in quel luogo «per essere sempre pronto a portare aiuto ai naufraghi… Sa consolare dolcemente chi è oppresso da continue tentazioni, quasi naufrago e ormai vinto, e sa rassicurarlo e riscaldarlo con dolci consolazioni e richiamarlo alla serenità del porto» (XLIII, 147). Liberare dal peccato e dalla morte eterna è l’opera più grande da intraprendere: «Non so se l’uomo possa ricevere da Dio in questa vita qualcosa di più grande; non so se Dio possa concedere all’uomo una grazia maggiore di questa, cioé che uomini malvagi, con la sua opera, mutino in meglio diventando da figli del diavolo, figli di Dio» (XLIV, 148). 

C’è un ultimo aspetto da considerare: «Spesso coloro per mezzo dei quali Dio dispone siano corretti gli errori degli altri, sono lasciati precipitare gravemente in basso, affinché dalla propria colpa imparino quanto debbono essere misericordiosi nei confronti di coloro che hanno rimproverato» (XLV, 149-150). 

Dina

 Dina, esce dall’accampamento di Giacobbe, per familiarizzare con le ragazze del luogo ma viene avvistata da Sichem, un pagano, che la rapisce e la violenta (Gen 34,1-2). Rappresenta la persona che, essendo amata e ammirata per la bellezza delle sue qualità, viene conquistata e corrotta proprio dagli elogi. Esce fuori di sé quando scopre, con una certa soddisfazione, che anche le altre persone presentano i suoi stessi difetti e debolezze. Finisce col considerarsi superiore a loro, cadendo, così, nell’orgoglio e nella vanagloria (LI,156-157). 

Dina, tuttavia, presenta anche pensieri più nobili, perché ammira i fratelli che sono solleciti nell’esercitare il loro mestiere di pastori. La relazione con gli altri è sempre complessa: «La mente devota, mentre osserva il miglioramento o la caduta, la debolezza o la perfezione e degli altri, è presa da diversi affetti. Comincia a temere per gli uni, a dolersi per gli altri e a sperare per il bene di questi o il meglio per quelli. Vede negli altri ciò che ama e trova ciò di cui anche rallegrarsi, ed in alcuni ciò di cui ha orrore e di cui ancora deve giustamente dolersi» (LII,158). 

I fratelli di Dina la difendono usando violenza contro Sichem e la sua gente, un atto estremamente negativo. Chi combatte il male deve ricordare che anch’egli ne è stato contaminato e che neppure lui è esente da colpe. Non deve, quindi, essere violento ma consapevole della fragilità propria ed altrui. Bisogna essere veri ma non presuntuosi. Se, al presente, si trova in una condizione di santità, deve attribuirne il merito non a se stesso ma alla grazia di Dio. 

Spesso gli uomini si correggono non spinti dall’amore per Dio ma per essere stimati maggiormente dagli altri. 

«Ci si deve dunque, per sanare il male della mente, porre davanti agli occhi la propria debolezza, richiamare alla memoria le proprie colpe e meditare attentamente come si sia stati disonesti nell'operare, immondi nel pensare. Chi vuole raggiungere la gloria nella verità e non nella presunzione, [deve osservare] come possono essere trovati nei suoi costumi elementi che devono essere tagliati via […]. Se potessimo tagliare via radicalmente i nostri difetti dalla nostra vita ed essere completamente mondati, dovremmo gloriarci non dei nostri meriti ma soltanto nel Signore. Quei difetti che non abbiamo potuto togliere dall'animo quando ci disponevamo a farlo il nome di Dio, possiamo facilmente rimuoverli quando temiamo di incorrere per causa loro nel disonore» (LIII, 159-160). Quando c’accorgiamo, però, di aver agito non per amore di Dio ma per una intenzione non buona, non dobbiamo abbandonare le buone azioni che stiamo realizzando. Dobbiamo cercare di cambiare l’intenzione, non le nostre opere (LIV, 161). 

Giuseppe

Giuseppe, il figlio preferito di Giacobbe, rappresenta la discrezione, la qualità più rilevante nella costruzione di una vita virtuosa. Più che una virtù, la discrezione, che si avvale soprattutto dell’esperienza, è quella qualità che permette di acquisire qualsiasi virtù e di conservarla (LXVII, 174). 

R. che soprattutto in questo caso si avvale di una lunga tradizione spirituale, ne traccia una descrizione più esaustiva nel capitolo LXX. «È proprio di Giuseppe scrutare con cura qualsiasi insidia del male, anche nascosta, e ad essa provvedere cautamente, riprenderla con sollecitudine, cancellarla sveltamente e rintuzzarla con decisione. È suo compito prestare diligente attenzione e considerare frequentemente quanto l'animo guadagni ogni giorno o quanto, per caso, abbia perduto e in quali pensieri sia per lo più incorso, da quali affetti sia stato per lo più preso. Lo stesso Giuseppe deve non solo conoscere perfettamente il vizio del cuore, ma anche le debolezze del corpo e, secondo le esigenze di ciascuno, cercare il rimedio per la salvezza, e usare ciò che ha trovato. Bisogna che egli conosca non solo suoi vizi, ma anche i doni della grazia e i meriti della virtù, e che li sappia diligentemente distinguere, e che sappia valutare con finezza quale sia il bene della natura e quale sia il dono della grazia. Deve sapere bene con quali ordigni di tentazione lo spirito maligno verrà a battaglia, di quali consolazioni di gioie spirituali egli abbia abbondanza, e come frequentemente lo spirito divino lo visiti, ed in che modo egli venga raggiunto da questo, non sempre allo stesso modo, ma come venga colmato ora dallo spirito di sapienza, ora dallo spirito di intelligenza, ora dallo spirito del buon consiglio o da altri vari affetti. Per concludere brevemente, deve, questo nostro Giuseppe conoscere pienamente tutto lo stato e il modo di comportarsi, per quanto è possibile, dell'uomo nella sua interiorità e nella sua carnalità, e deve cercare finemente e investigare con diligenza non solo come dgli sia, ma anche come debba essere» (LXX, 179). 

La discrezione, che permette una veritiera conoscenza di se stessi, libera l’uomo dal rischio più insidioso, che è quello di presumere di se stesso e di identificarsi con un’immagine errata di sé. 

Ancora peggiore è l’ipocrisia: «Una rettitudine solo simulata, non solo non è rettitudine ma una duplice iniquità» (LXIX, 178). L’ipocrisia, l’apparire senza essere, costituisce la demolizione più radicale della vita spirituale. 

Soltanto la conoscenza realistica di sé consente all’uomo di elevarsi fino a Dio. «Invano il cuore si innalza a vedere Dio, se non è ancora capace di vedere se stesso. L’uomo impari a conoscere le cose invisibili di se stesso prima di presumere di poter apprendere le cose invisibili di Dio. Devi conoscere l’invisibile segreto del tuo spirito, prima di poter essere capace di conoscere il segreto invisibile di Dio. Se non puoi conoscere te stesso, come puoi presumere di poter apprendere ciò che sta sopra di te?» (LXXI,180)

Nel paragrafo LXXII, tra i più rilevanti dell’opera di R., troviamo la descrizione di come avvenga il passaggio dalla vita ascetica a quella mistica, il passaggio dalla fase della preparazione a quella più spirituale nella quale è possibile gustare l’esperienza contemplativa. Essa corrisponde alla nascita dell’ultimo figlio di Giacobbe, Beniamino. Seguiamo la riflessione di Riccardo. Se, come attesta san Paolo, le qualità invisibili di Dio possono essere comprese nella creazione, tanto più sarà possibile scorgerle nell’opera più importante creata dal Signore, cioè la persona umana. L’anima razionale è, certamente, lo specchio più adeguato per vedere Dio, essendo stata creata a sua immagine. Il compito affidato ad ogni uomo è quello di purificare e tenere sempre pulito tale specchio. 

In seguito alla purificazione continua di se stesso, il credente comincerà ad osservare l’espandersi della luce divina nel suo stesso essere: «Dopo aver pulito lo specchio, e dopo averlo lungo osservato comincia a balenare qualche cosa della luce divina, un immenso raggio dell'insolita visione appare ai suoi occhi. Questa luce irraggiava gli occhi di colui che diceva: “è impressa su di noi la luce del tuo volto o Signore ed hai donato la letizia nel mio cuore” (Sal 4,7). Dalla visione di questa luce che ammira in se stesso, l'animo si infiamma in modo meraviglioso e viene sollecitato a guardare la luce che sta al di sopra di lui. Da questa visione, dico, l'anima raccoglie la fiamma del desiderio di vedere Dio e prende fiducia. La mente allora, che arde dal desiderio di questa visione, se già spera ciò che desidera, sappia di aver già concepito Beniamino. Con la speranza infatti concepisce e con il desiderio partorisce, che quanto più cresce il suo desiderio, tanto più si avvicina al parto» (LXXII, 181). 

Beniamino

È Beniamino chi gode della contemplazione di Dio; chi, giungendo al culmine dell’ascesa, può sperimentare il gusto della sapienza. «Per Beniamino dobbiamo intendere quel genere di contemplazione che sta sopra la ragione» (LXXIV,184). Beniamino nasce dopo la morte della madre Rachele, la quale rappresenta la razionalità. «Questa è una esperienza alla quale l’uomo non può accedere con le sue forze ma che viene preparata da un immenso ed attivo desiderio» (LXXIII,182). Nessuno può penetrare in quell’esperienza di luce mediante argomentazioni, servendosi della ragione perché essa è di gran lunga sopra di essa. A quella luce inaccessibile, si accede mediante un rapimento. 

«Pochi sono quelli che salgono fino a qui, perché i più o non vogliono o non possono. È molto raro salire su questo monte, è molto più raro rimanere sulla vetta indugiandovi, ed è rarissimo abitare lassù e riposarvi nella mente. Prima bisogna salire, quindi stabilirvi la dimora. Occorre uno sforzo per rimanere, ma per salirvi occorre uno sforzo più grande. Molti sono venuti meno nella ascesa per la eccessiva fatica della salita. Molti sono presto discesi dall'ardua vetta per la fatica che occorre per rimanervi» (LXXVI,186). 

«Segui Cristo, se vuoi salire su questo monte. L’abbiamo appreso dall'evangelista: Gesù prese con sé i suoi discepoli e li condusse in disparte, su un alto monte (Mt 17,1). Sono dunque condotti in disparte i discepoli di Cristo, ed in alto, affinché possano conoscere questo monte. La via che conduce alla sommità di questo monte, è ardua, segreta, sconosciuta a molti. Solo coloro che seguono Cristo, la percorrono rapidamente e solo loro vi giungono senza impedimenti perché sono guidati dalla verità. Ma perché non spaventi troppo la fatica del viaggio o la difficoltà dell’ascesa, osserva quale sia il frutto di chi raggiunge la meta. Sulla cima di questo monte Gesù si trasfigura. Che cosa non è mirabile di tutto ciò?» (LXXVII,187-188). 

«O quanti ne abbiamo oggi visti, studiosi nella lettura, ma lenti nelle opere e tiepidi nell'orazione, che presumono tuttavia di poter raggiungere la vetta del monte! Ma quando mai potranno raggiungerla coloro che non hanno Cristo per guida? Chi vuole avere Cristo per guida nel viaggio d'ascesa, congiunga alla lettura attenta, la buona volontà nelle opere e il calore dell'orazione. Senza un grande esercizio, un’insistente ricerca, senza un ardente desiderio, la mente non si solleva all’altezza perfetta della scienza, né vi giunge chi non segue perfettamente le tracce di Cristo, chi non entra perfettamente nella via della verità» (LXXIX, 188-189).